martedì 31 gennaio 2012

LAVORO NERO

Il 4 ottobre 2004, mentre gli operai di un'impresa edile stavano demolendo un vecchio tetto, questo è crollato a causa di un improvvido taglio dei tiranti che trattenevano le pareti perimetrali dell'edificio. Poichè a causa dell'incidente un lavoratore straniero in nero ha subìto alcune lesioni, il titolare della società demolitrice è stato giudicato responsabile del reato di lesioni personali colpose con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. 
Non solo.
La Cassazione (sentenza 27 ottobre 2011, n. 38860) ha convalidato un sacrosanto principio sancito nei primi due gradi di giudizio dal Tribunale di Siena e dalla Corte d'Appello di Firenze: se il datore di lavoro tenta di coprire l'incidente inducendo tutti i lavoratori a tacere e se sul luogo di lavoro un gruppo di lavoratori in nero si dilegua mentre all'operaio vittima dell'infortunio viene fatto firmare un estemporaneo e fittizio contratto di assunzione, la colpa dell'imprenditore è maggiore, pertanto entrambi tali suoi comportamenti giustificano il diniego delle attenuanti generiche.
  

domenica 29 gennaio 2012

QUANDO "LA SAPIENZA" VA CONDANNATA

Oggi vi parlo di funicolocentesi o cordocentesi, cioè del prelievo di sangue del feto attraverso l'inserimento di un ago nel cordone ombelicale, dalla cui analisi è possibile diagnosticare in tempi celeri eventuali malattie genetiche del bambino (come la sindrome di Down).
La nostra storia - esposta dalla terza sezione civile della Cassazione, nella pronuncia 30 novembre 2011, n. 25559 - riguarda una coppia che ha voluto eseguire il suddetto esame diagnostico presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Nonostante gli esiti del prelievo sanguigno fossero incerti e inaffidabili, i sanitari non hanno informato la gestante e, pertanto, non le hanno rammentato che avrebbe dovuto ripetere l’esame. La donna, dopo aver dato alla luce una bambina con sindrome di Down, si è rivolta alla giustizia civile per chiedere un risarcimento dei danni subìti. La Suprema Corte, riconosciuta la validità delle ragioni della neo mamma, ha quindi condannato la nota Università romana per aver leso il diritto della donna di poter decidere liberamente – sulla base di una puntuale informazione sanitaria, nel caso mancata - se praticare l'aborto terapeutico o rischiare una nascita con possibili danni genetici. E' bene precisare che la condanna inflitta non dipende dall’aver causato il mancato aborto terapeutico, bensì dalla condotta inadempiente dei medici che avevano effettuato in maniera superficiale le analisi e avevano impedito alla paziente di compiere una scelta, provocando un danno non patrimoniale (aver costretto una madre, un padre e una bambina a vivere una situazione familiare di sacrifici e assistenza continua) che ha leso i seguenti diritti inviolabili della persona:
- alla salute, sotto il profilo del danno biologico fisico e psichico (art. 32, c. 1 Cost.);
- all'autodeterminazione, visto che la donna non è stata posta in condizione di decidere se abortire (artt. 13 e 32, c. 2 Cost.);
- alla famiglia e alla solidarietà familiare a protezione dei minori portatori di handicap (artt. 2, 29 e 30 Cost.).
Ora la Corte d’Appello di Perugia dovrà quantificare economicamente l’entità del danno.

venerdì 27 gennaio 2012

NON ANDARE DOVE TI PORTA IL CUORE

La storia di cui mi appresto a scrivere ha dell'incredibile, ma è successa veramente (del resto, è ambientata in Italia). Un assistente della polizia di Stato in servizio presso il Nucleo Operativo di Protezione per la Sardegna è stato condannato in tutti i gradi di giudizio a 1 anno di carcere - pena sospesa con la condizionale - per due distinte e successive condotte continuative, riconducibili ai reati di abuso d'ufficio e rivelazione di segreto d'ufficio. Il poliziotto si era servito per uso personale e privato di un appartamento utilizzato dal Viminale per dare alloggio ai collaboratori di giustizia posti sotto protezione. Sfruttando il fatto di potersi facilmente impossessare delle chiavi della casa per evidenti ragioni di servizio, il reo vi aveva portato la compagna per intrattenere con lei piacevoli incontri intimi, seppur per un breve periodo di tempo. Avete capito bene: un esponente delle nostre forze dell'ordine, abusando dei suoi poteri, invece di frequentare la sua ragazza nella propria casa o in una camera d'albergo, ha pensato bene di concedersi in uso gratuito nientemeno che una dimora riservata dallo Stato a luogo di protezione per soggetti in pericolo (procurandosi quindi un ingiusto vantaggio patrimoniale). Fin qui l'abuso d'ufficio, ma la rivelazione di segreto? Ebbene, dovete sapere che il nostro eroe, evidentemente non pago (anche perchè l'affitto che il Ministero corrisponde ai proprietari dell'edificio lo paghiamo noi cittadini), ha pure informato la sua compagna della destinazione reale dell'appartamento, violando così l'elementare dovere di mantenere il segreto su ogni attività riguardante il servizio di protezione. Parafrasando il celebre racconto di Susanna Tamaro, potrei concludere questa storia esortando il nostro neo pregiudicato a non andare più dove lo porti il cuore. Putroppo, però, questo non è un romanzo, ma una vicenda descritta dalla VI sezione penale della Cassazione nella sentenza 16 gennaio 2012, n. 1208. Quando la realtà supera la fantasia...

martedì 24 gennaio 2012

DUPLICE OMOFOBIA (seconda parte)

Il secondo esempio di omofobia in Italia che intendo raccontare vede per protagonista Matteo Volante, studente dell'Università Bocconi di Milano, responsabile di due inquietanti episodi che dimostrano quanto sia ancora profondo l'odio nei confronti delle persone omosessuali.
Il primo si è verificato a metà maggio 2011, al quarto piano delle sede universitaria milanese di via Sarfatti. Mentre Volante era intento a strappare un manifesto sulla giornata internazionale contro l'omofobia (17 maggio) curato da B.E.St. (Bocconi Equal Students, associazione culturale studentesca che promuove il rispetto di tutte le diversità di genere e orientamento sessuale, attraverso eventi, conferenze, cineforum e dibattiti), un ragazzo ha cercato di fermarlo, ricevendo per questo insulti e minacce.
Il secondo episodio è accaduto solo un paio di settimane dopo, quando Volante ha pensato bene di imbrattare alcuni manifesti legati all'incontro "Uomini che amano le donne. Il tema della donna nel mondo del lavoro in Italia raccontato dagli uomini", organizzato da B.E.St. e svoltosi in Ateneo il 23 maggio, con frasi come "I froci si curano a Zyklon B" (il pesticida usato nelle camere a gas di alcuni campi di concentramento nazisti) e "L'Hiv la vostra punizione".
A luglio la Commissione disciplinare della Bocconi ha emanato un esemplare (e lodevole) provvedimento sanzionatorio nei confronti di Matteo Volante che inciderà sul suo voto di laurea: esclusione per 1 anno da tutte le attività universitarie (compresi il master che stava frequentando, le sessioni d'esame e la tesi di laurea), con macchia indelebile sul curriculum accademico. Volante però non si è rassegnato ed è ricorso al Tar della Lombardia per chiedere l'annullamento del provvedimento disciplinare. Il 20 dicembre scorso i giudici della IV sezione hanno però dato ragione alla Bocconi, confermando le sanzioni da essa adottate.
Nella sentenza (17 gennaio 2012, n. 181), il Collegio giudicante ha qualificato i gravi comportamenti di Volante come una palese violazione del rispetto della dignità degli omosessuali, rivelatrice per di più di una deplorevole inosservanza del dovere di rispettare la dignità e personalità individuali e le differenze culturali, sancito dall'art. 30 del regolamento didattico di Ateneo (emanato dal Rettore della Bocconi il 29 maggio 2009) e dall'art. 6.5 - dal 29 luglio 2011 è l'art. 7.6 - del regolamento dei master. Nello specifico, le frasi scritte sui manifesti denotano una pericolosa forma di disprezzo verso gay e lesbiche e lo strappo di un manifesto comprova la totale intolleranza verso diverse sensibilità culturali. Ora, in base alle sanzioni disciplinari previste dall'art. 16 del Regio Decreto Legge 20 giugno 1935, n. 1071 (il cui testo, non a caso, viene riportato dall'art. 30 del citato regolamento didattico bocconiano), i giudici non hanno potuto far altro che confermare il provvedimento punitivo adottato dall'Ateneo milanese (in ogni caso, la pena massima prevista dalla legge statale è l'esclusione dall'università per 3 anni), in considerazione della gravità del comportamento di Matteo Volante e dell'altrettanto preoccupante intolleranza da questi dimostrata verso le persone omosessuali (a tal punto da averlo portato a sperare che esse ricevano lo stesso trattamento riservato dai nazisti agli internati nei campi di concentramento). Anche il Tar, come il Tribunale civile di Milano nel caso Feltri raccontato ieri, ha voluto evidenziare l'enorme differenza esistente tra il sacrosanto diritto di critica verso ogni impostazione culturale e l'insulto gratuito di persone di cui non si condividono le idee o le scelte di vita. 
In fondo, dovrebbe essere scontato il rispetto assoluto della dignità umana per ogni persona, ma purtroppo non è così e le due vicende narrate sono qui a dimostrarlo una volta di più.

lunedì 23 gennaio 2012

DUPLICE OMOFOBIA (prima parte)

Per chi ignorasse l'esistenza in Italia del fenomeno omofobico e il suo significato, troverà certamente utile conoscere due recenti esempi sfociati in Tribunale (racconto il primo qui di seguito, mentre del secondo scriverò nel prossimo post).
Nel 2007 l'allora direttore di "Libero" (oggi editorialista de "Il Giornale"), Vittorio Feltri, curava su Odeon Tv una rubrica di critica giornalistica e politica, "Pensieri&Bamba", il cui titolo rimandava all'attribuzione ironica, nel corso del programma, del premio "bamba" (termine popolare usato nel Nord Italia per indicare una persona ingenua, sciocca o stupida). Nella puntata del 12 marzo 2007 Feltri si è soffermato su un intervento svolto cinque giorni prima a Palazzo Madama dal senatore dei Verdi Gianpaolo Silvestri (ambientalista, pacifista, fondatore negli anni '80 dell'Arcigay, oggi dirigente di Sinistra, Ecologia e Libertà). In quella seduta il Senato, prima di approvare in prima lettura il disegno di legge costituzionale n. 1084*, aveva ascoltato il seguente intervento del senatore Silvestri:
"Fermamente convinto che il rifiuto di adempiere ad ordini di morte sia un dovere oltre che un diritto, esprimo piena solidarietà nei confronti dei disertori di tutte le guerre. Volevo chiedere perdono per quelli che sono stati ammazzati da strutture di morte, da uniformi senza umanità e volevo portare un riconoscimento forte a loro e ai loro discendenti, affinchè questo non succeda più. Io penso che la diserzione sia un atto di diritto, che il non obbedire a ordini di morte, di carneficina sia un dovere".
Nella sua rubrica televisiva del 12 marzo, Feltri ha risposto così:
"Il bamba questa settimana lo diamo a un personaggio che si è reso noto negli ultimi giorni, ma che prima noto non era. Vi dico il nome: Giampaolo Silvestri. Questo signore è stato iscritto o è ancora iscritto, non ricordo, all'Arcigay ed è deputato [in realtà, è senatore, N.d.A.] dei Verdi. E cosa ha fatto di molto interessante? E' andato alla Camera dei Deputati [in realtà, al Senato, N.d.A.], ha preso la parola e (udite, udite) ha predicato a favore dei disertori. Insomma, la lode, l'elogio dei disertori. Da notare che questo signore fa parte della maggioranza di governo [Prodi, N.d.A.]. Quindi noi siamo nelle mani di questi stravaganti personaggi, come Gianpaolo Silvestri, che ama - va bene che è iscritto all'Arcigay - i disertori, forse perchè scappando offrono le terga. Noi diamo questo bamba con profonda convinzione che questo signore non è solo bamba, ma è bamba due volte e ribamba: tre volte bamba ".
Il senatore Silvestri, sentitosi offeso, si è allora rivolto alla giustizia civile per chiedere un risarcimento danni. Nonostante Feltri avesse invocato nel processo il diritto di satira, sostenendo di aver detto la verità con pertinenza e senza alcuna diffamazione, la prima sezione civile del Tribunale di Milano non è stata del medesimo avviso. Nella sentenza 13 ottobre 2011, n. 12187 il giudice unico Orietta Miccichè, prima di analizzare il caso particolare, ha ben riassunto alcuni principi giuridicamente consolidati:
- i diritti di cronaca (il racconto dei fatti) e di critica (il giudizio o l'opinione che, per natura, non sono  obiettivi, visto che si fondano su interpretazioni soggettive) sono sacrosanti, poichè sanciti dall'art. 21 della nostra Costituzione e dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali;
- anche se il pluralismo e la tolleranza richiedono la massima libertà di espressione, è necessario non oltrepassare i requisiti minimi di forma (es. non ci devono essere termini esclusivamente insultanti) e rivelare notizie di interesse pubblico, complete e vere (anche solo ipoteticamente, se provengono da un diligente lavoro di ricerca e controllo del giornalista), senza sottintesi o insinuazioni idonee a creare false rappresentazioni della realtà;
- il diritto di critica può anche ledere la reputazione altrui, purchè sia esito di un dissenso ragionato e non di un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore di una persona. Il limite legittimo viene superato quando, con l'intento di screditare qualcuno, si esprimano attacchi personali volti a colpire il piano individuale di una persona e la sua sfera morale, senza criticarne le azioni e le idee e senza alcuna finalità di pubblico interesse;
- l'offesa personale non è tollerabile neppure se susciti ilarità. Il compito della satira è servirsi di intenti polemici per sferzare i vizi, le abitudini e le idee delle persone o svelare gli incongruenti e ridicoli valori della cultura ufficiale. Fare satira non significa insultare gratuitamente qualcuno (sarebbe banale falsità), ma deformare in maniera grottesca la realtà, collocandosi ambiguamente tra la descrizione e la manipolazione dei fatti;
- la satira è una particolare manifestazione del diritto di critica, caratterizzata da una forma espressiva corrosiva e impietosa, finalizzata a rappresentare i fatti con ironia per far ridere e sferzare i costumi.
Dopo tali puntualizzazioni, il giudice Miccichè, entrando nel merito del caso specifico, ha riconosciuto a Feltri il diritto di critica nel sarcasmo utilizzato tramite l'attribuzione di un premio sgradito (il bamba) e l'uso di espressioni volutamente enfatiche, pungenti e beffarde, come "ha predicato a favore dei disertori" e "la lode, l'elogio dei disertori". Tuttavia, se nella prima parte del suo intervento Feltri ha solo manifestato la sua opinione diversa da quella di un senatore della Repubblica, la frase successiva "ama - va bene che è iscritto all'Arcigay - i disertori, forse perchè scappando offrono le terga" è stata considerata dal giudice palesemente diffamatoria e offensiva. Vale la pena di lasciar la parola alla dottoressa Miccichè, alla quale va il merito di aver offerto un'ottima definizione del concetto di omofobia:
"L'immagine rimanda a un clichè volgare e retrivo per cui l'omosessuale viene identificato con una persona amorale, la cui personalità è ridotta alla sola caratterizzazione sessuale, peraltro vista come distorta e spregevole (che nel caso di specie si tradurrebbe nell'insidia verso altri uomini), attraverso la quale ogni comportamento, opinione o atteggiamento viene filtrato e proposto al pubblico, con ciò negando altresì dignità della persona omosessuale. Il richiamo a questi clichè è privo di collegamento con l'oggetto legittimo di critica alle opinioni del senatore Silvestri e mira quindi esclusivamente a sminuirne e delegittimarne l'immagine personale, risolvendosi in un gratuito e immotivato insulto che, lungi dal criticare i programmi e le azioni del parlamentare, mira solo a colpire la persona evocandone una pretesa indegnità personale".
Il Tribunale, evidenziando la gravità dell'offesa arrecata - con implicazioni sulla sfera pubblica e privata di Giampaolo Silvestri - ha dunque condannato Vittorio Feltri a risarcire il danno non patrimoniale subìto dal  fondatore di Arcigay (50.000 euro) e a rimborsargli le spese di giudizio (5.859 euro).

P.s. Oggi Feltri cura una rubrica molto simile a quella di 5 anni fa (a parte il nome - "Feltri senza filtri" - e l'emittente - Studio 1 - tutto è rimasto invariato). Avrà imparato la lezione?


* Tale ddl, presentato alla Camera l'11 ottobre 2006 da un altro parlamentare dei Verdi, Marco Boato, intendeva abolire l'ultima traccia di pena di morte ancora presente nel nostro ordinamento (quella in ambito militare di guerra), modificando il c. 4 dell'art. 27 della Costituzione. Per la cronaca, tale proposta sarebbe poi diventata legge il 25 settembre 2007 ed entrata in vigore un mese dopo: si tratta della norma costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1.

venerdì 20 gennaio 2012

ATM E LE BONIFICHE DA AMIANTO

Un'azienda che ipotizzi l'esistenza di "eventuali tracce di amianto" in beni di sua proprietà dovrebbe far svolgere l'eventuale bonifica a una ditta specializzata oppure no? 
Se ritenete la risposta scontata, sappiate che Atm la pensa diversamente.
In previsione di una gara d'appalto per la revisione generale di 44 vetture della linea 2 della metropolitana (con l'opzione di estendere tale attività ad altre 14), il 3 marzo 2010 l'Azienda Trasporti Milanesi ha invitato a partecipare la società BB Bari srl, la cui Divisione Ferroviaria, oltre a demolizione e manutenzione, si occupa di bonificare dall'amianto i rotabili ferroviari (tanto che dal 1999 fa parte delle imprese specializzate in questo delicato settore). Con nota n. 13850 del 14 giugno 2011 Atm ha comunicato la vincitrice dell’appalto: si tratta della Officine di Arquata 96 srl (sede ad Arquata Scrivia, provincia di Alessandria), un'impresa ferrotranviaria qualificata nella fabbricazione e manutenzione di vagoni ferroviari. La ditta pugliese, sconfitta, ha impugnato al Tar della Lombardia il provvedimento di aggiudicazione e tutti gli atti pregressi, compresi quelli di indizione della procedura di gara, sostenendo che la ditta vincitrice non avrebbe posseduto un requisito fondamentale per la partecipazione alla gara, ovvero l'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali. Secondo l'art. 212 c. 5 del Codice dell'ambiente (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), far parte di tale albo, istituito presso il Ministero dell'Ambiente, è requisito necessario per poter svolgere le bonifiche da amianto. Conferma di ciò perviene anche dall'art. 256 c. 1 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (norma che tutela la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro), il quale riserva i lavori di rimozione dell'amianto alle sole imprese iscritte all'Albo nazionale dei gestori ambientali.
Ma che cosa c'entra l'appalto di Atm con l'amianto?
E' la stessa azienda di trasporto ad aver previsto al punto 1.5 della Specifica Tecnica allegata alla lettera di invito alla gara che la ditta "dovrà effettuare una bonifica delle eventuali tracce di amianto che potrebbero ancora trovarsi nel sottocassa" di alcune vetture. Tuttavia, nonostante la possibile bonifica da amianto fosse stata prevista tra le prestazioni oggetto dell'appalto, Atm non ha richiesto ai partecipanti alla gara l'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali, affidando i lavori a un'impresa priva di tale indispensabile requisito, in palese violazione di legge. Secondo la terza sezione del Tar lombardo (sentenza 8 settembre 2011, n. 2178), quindi, il ricorso della BB Bari srl è fondato, nonostante Atm si sia difesa affermando che, essendo la bonifica da amianto stata prevista soltanto in via eventuale, essa non sarebbe dovuta rientrare nel contratto, poichè l'aggiudicatario privo dei requisiti si sarebbe potuto avvalere di un subappaltatore. Il Tar ha però risposto picche: anche se la bonifica era prevista solo nel caso in cui fossero state rintracciate possibili tracce di amianto durante la revisione delle vetture, l'impresa avrebbe dovuto comunque possedere i requisiti di legge (tra cui l’iscrizione all'albo sopra citato), visto che l'eventuale bonifica rientrava nell'oggetto del contratto e la ditta aggiudicatrice si era obbligata (se necessario) a eseguirla. Circa il subappalto, i giudici amministrativi hanno precisato che Officine di Arquata 96 srl avrebbe certamente potuto subappaltare a una ditta legalmente operatrice per le bonifiche da amianto, ma Atm avrebbe dovuto mettere nero su bianco tale possibilità nella lettera di invito alla gara d'appalto (oltre al già ricordato requisito basilare dell'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali) e Officine di Arquata 96 srl sarebbe stata tenuta a specificare nell'atto di partecipazione la volontà di ricorrere al subappalto e il nome della ditta a cui affidarlo. Non essendosi verificato nulla di tutto ciò, il Tar non ha potuto far altro che annullare l'esito della gara d'appalto, sottolineando la scorrettezza dell'operato di Atm e l'illegittimità dei provvedimenti presi.
           

martedì 17 gennaio 2012

CHI LO DICE AL VATICANO?

Tempo fa in Italia si è molto dibattuto sulla necessità di introdurre nell'ordinamento penale un'aggravante di omofobia e, più in generale, di discriminazione legata all’orientamento sessuale. In particolare, è stata la deputata del Pd Anna Paola Concia (lesbica dichiarata) a perseguire tenacemente una simile battaglia politica (a proposito: quando anche gli eterosessuali si batteranno in prima linea per difendere i sacrosanti diritti degli omosessuali?). Ovviamente non se ne è fatto nulla (altrimenti chi l'avrebbe detto al Vaticano?). 
Tuttavia, come sempre più spesso accade nel nostro Paese, le buone notizie giungono dalla magistratura. Infatti il giudice Massimo Tomassini del Tribunale di Trieste, attraverso un'ordinanza del 2 dicembre scorso, ha stabilito che esiste già l'aggravante per discriminazioni legate all'orientamento sessuale: è riconosciuta dall’art. 3 c. 1 della legge Mancino (la 205/93). Il provvedimento fa notizia (?) poiché si basa su una valutazione in punto di diritto totalmente nuova, nonostante la relativa disposizione legislativa sia in vigore da quasi 19 anni.
La norma in questione prevede un’aggravante per tutti i reati non punibili con l'ergastolo commessi "per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso". Compiendo un’analisi squisitamente linguistica, il giudice triestino ha notato che i concetti di "discriminazione" e "odio" (già differenti di per sé) sono separati dalla congiunzione avversativa "o", pertanto gli aggettivi seguenti al termine "odio" (cioè "etnico", "nazionale", "razziale" e "religioso") non si possono riferire anche alla "discriminazione", altrimenti avrebbero dovuto essere declinati al plurale. Inoltre tale interpretazione trova conferma nella loro esclusiva declinazione al maschile, in evidente riferimento all'unico sostantivo di tal genere (cioè "odio"). La conclusione tratta è consequenziale: l'”odio” può essere contestato solo se caratterizzato da motivi etnici, nazionali, razziali o religiosi (dunque, non sessuali), mentre la “discriminazione”, non essendo legata a tali specifiche caratteristiche, comprende ogni forma discriminatoria nei confronti di chiunque. 
Ecco quindi integrata l’aggravante sessuale. Tomassini ricorda che scopo della legge Mancino è punire con maggiore severità ogni comportamento finalizzato a creare “discriminazione” (cioè disparità iniqua di trattamento) oppure “odio”. Tuttavia è solo in riferimento a quest’ultimo che il Parlamento ha voluto fornire specificazioni ben precise (legate solo all’etnia, alla nazionalità, alla razza o alla religione), non richieste invece per la “discriminazione”. Essa può dunque autonomamente sussistere in una serie indeterminata (e "forse indeterminabile”, scrive Tomassini) di eventi di varia natura, anche sessuale.
Ad esempio, dire "frocio bastardo" rappresenta di certo un’offesa legata a un sentimento d’odio riservato a una persona omosessuale, ma non è penalmente rilevante (lo sarebbe solo se avesse riguardato l'etnia, la nazionalità, la razza o la religione).
Sono invece soggette all’aggravante ex art. 3 c. 1 della legge Mancino le minacce rivolte con espressioni come quelle contestate nella vicenda posta al vaglio del Tribunale friulano: "guardati alle spalle: sarai il primo frocio dell'università a pagarla per lo schifo che fai. Una di queste sere ti prendiamo e te ne diamo tante che quando abbiamo finito non piacerai più neanche ai tuoi amici succhia cazzi! Tu e quelli del tuo gruppo uguali, ma froci verrete eliminati tutti".
In questo caso emerge una differenziazione (cioè una discriminazione) che tocca non solo il singolo soggetto, bensì un'intera categoria di persone accomunate dal medesimo orientamento sessuale. Poiché la legge Mancino tutela non il singolo individuo, ma un'ampia categoria di persone vittima di un reato aggravato dalla finalità discriminatoria, non solo l’aggravante di cui all’art. 3 c. 1 va riconosciuta anche nei casi di omofobia o legati all’orientamento sessuale, ma i magistrati devono inevitabilmente procedere d’ufficio (senza avere la necessità di richiedere la denuncia della vittima per poter procedere penalmente), poiché l'interesse a reprimere tali condotte discriminatorie non è tanto della vittima, quanto dello Stato.
E adesso chi lo dice al Vaticano? 

domenica 15 gennaio 2012

C'E' UN GIUDICE A CATANIA

La vicenda che sto per raccontare dimostra (se mai ce ne fosse bisogno) quante difficoltà debba sostenere uno "straniero" che, nato e cresciuto in Italia, voglia trascorrervi la sua vita in pace e serenità. 
Protagonista della storia è Verica Fazli, una ragazza nata a Pescara nel 1990 da genitori di etnia Rom, fuggiti  dall'ex Jugoslavia a causa della guerra nei Balcani e della pulizia etnica da parte degli albanesi (la madre era incinta di lei mentre scappava dalla sua terra d'origine). Verica ha vissuto prima a Pescara (dove ha frequentato le elementari), poi a Caltanissetta e, dal 2002, a Messina. Da allora vive nella città dello Stretto, in un campo rom, con i fratelli e la madre. Poichè quest'ultima, senza documenti, non ha mai potuto regolarizzarsi, la giovane Verica non possiede alcun documento valido che attesti la sua residenza legale nel nostro (e suo) Paese, ritrovandosi anche lei nell'impossibilità di ricevere qualsiasi permesso di soggiorno (figuriamoci la cittadinanza italiana). Raggiunta la maggiore età nel 2008, si reca dalla sorella maggiore in Francia (titolare di un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria), affinchè possa ivi ottenere la regolarizzazione della propria posizione attraverso il riconoscimento della protezione internazionale. Respinta la sua domanda dalle autorità transalpine, Verica torna a Messina nel campo nomadi, dove nel marzo 2010 presenta analoga domanda, ma di nuovo senza successo. Da notare il fatto che Verica - salvo il breve soggiorno francese - non solo non ha mai lasciato l'Italia, ma non può (e non vuole) nemmeno tornare in Kosovo, Paese completamente sconosciuto, dove non ha più alcun riferimento familiare e l'etnia Rom è ancora perseguitata e discriminata dalle autorità.  Ma Verica non si arrende e, ancora una volta, cerca di regolarizzarsi, chiedendo alla Questura messinese il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. E' il 19 marzo 2010. Solo 5 giorni dopo, l'Ufficio Immigrazione della Questura le comunica di aver avviato le procedure di rigetto, che si sarebbero concluse l'11 giugno seguente (dopo soli 84 giorni dalla richiesta) con il decreto di negazione. A Verica allora non resta altro che rivolgersi alla magistratura per ottenere l'annullamento della delibera della Questura. La IV sezione del Tar siciliano (sede distaccata di Catania) prende la sua decisione il 10 novembre 2011, accogliendo finalmente l'appello di Verica. Nella sentenza depositata il 28 novembre (n. 2799/11), i giudici non solo bocciano le tesi accampate dalla Questura di Messina (secondo cui gli accertamenti compiuti presso l'Ambasciata italiana a Pristina dimostrano che in Kosovo la legge tutela i Rom e che da 10 anni non si registrano fenomeni di intolleranza nei loro confronti), ma accolgono, viceversa, quanto scritto nel Rapporto 2011 di Amnesty International. Secondo l'associazione dei diritti umani, in Kosovo non solo "non è cessata la discriminazione contro le minoranze", ma "si sono verificate gravi violenze interetniche". I Rom, in particolare, sono vittime di sgombri forzati e "discriminazioni di massa, anche nell'accesso all'istruzione, all'assistenza sanitaria, all'occupazione" e "pochi hanno potuto avvalersi del diritto a un alloggio adeguato". Il Tar siciliano, quindi, annulla il diniego di concedere il permesso di soggiorno per fini umanitari a Verica, costringendo di fatto la Questura a regolarizzare finalmente la posizione della giovane.
Per fortuna c'è un giudice a Catania. 
                            

sabato 14 gennaio 2012

SERVIZIO (IN)CIVILE

Avviso ai naviganti: chi fosse stato selezionato e ritenuto idoneo al servizio civile 2011 ha un motivo in più (tra i tanti) per dissociarsi dalla Lega Nord, partito razzista e xenofobo per eccellenza. Infatti una norma di dieci anni fa varata dal governo Bossi-Berlusconi, contenendo una previsione sfacciatamente discriminatoria (chi l’avrebbe mai detto?), ha fatto sì che ora si debbano riaprire i termini per la presentazione delle domande, sostenere nuovi colloqui e compiere nuove valutazioni per permettere a chi era stato escluso di partecipare. Ciò comporterà il blocco delle attività di servizio civile (con rinvii di tempo epocali), la loro cessazione immediata per chi le avesse appena iniziate e la perdita della certezza di essere ammessi per chi avrebbe dovuto cominciare in primavera.
Tutto ha inizio il 5 aprile 2002 con l’emanazione, da parte dell’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, del D.Lgs. 77/02, il cui art. 3 prevede che per poter prestare servizio civile occorra essere necessariamente cittadini italiani. Sulla base di tale previsione dal sapore palesemente discriminatorio, il 20 settembre scorso è stato indetto e pubblicato il "Bando per la selezione di 10.481 volontari da impiegare in progetti di servizio civile in Italia e all’estero". Un ragazzo pakistano di 25 anni, Syed Shahzad Tanwiryed - vivendo da 15 anni in Italia, dove ha completato le scuole medie e superiori e oggi frequenta l’università - ha chiesto di essere ammesso al servizio civile presso la Caritas Ambrosiana. Essendo poi stato informato dai responsabili che non sarebbe stato inserito nella graduatoria per la selezione finale perchè privo della cittadinanza italiana, si è rivolto al Tribunale del Lavoro di Milano. Assistito dall'Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e dalla onlus Avvocati per niente (Apn), ha chiesto al giudice di dichiarare il carattere discriminatorio del Bando e, pertanto, di ordinare alla Presidenza del Consiglio – Ufficio Nazionale per il Servizio Civile di sospendere la procedura di selezione, eliminare dal Bando il requisito del possesso della cittadinanza italiana e fissare un nuovo termine per la presentazione delle domande di ammissione. La Presidenza del Consiglio – Ufficio Nazionale per il Servizio Civile si è difesa nel procedimento (servendosi, ovviamente, dell’Avvocatura dello Stato pagata dai contribuenti), sostenendo che all'odierno servizio civile possano accedere solo i cittadini italiani perchè la sua finalità è la stessa del servizio militare - difendere la Patria – con la sola esclusione dell’uso di mezzi militari (come in passato, quando veniva svolto dagli obiettori di coscienza come alternativa alla leva obbligatoria). Il 9 gennaio scorso il giudice Carla Bianchini della Sezione Lavoro del Tribunale milanese, prendendo la sua decisione, ha respinto tutte le obiezioni della Presidenza del Consiglio – Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, sposando invece pienamente le richieste di Syed, Asgi e Apn.
Nell'ordinanza (depositata il 12 gennaio) il magistrato considera il servizio civile (istituito dalla legge 64/2001 quando vigeva ancora il servizio militare obbligatorio e la relativa obiezione di coscienza) completamente autonomo e indipendente rispetto al servizio militare e alla passata versione valida per gli obiettori di coscienza (nel frattempo scomparsa con la sospensione della leva obbligatoria), definendolo “autonoma e libera modalità di contribuire alla tutela dei diritti della persona, all’educazione alla pace dei popoli, alla solidarietà e cooperazione nazionale e internazionale”.
Poiché una delle finalità del servizio civile (elencate dall'art. 1 della legge 64/2001) comprende la difesa della Patria con mezzi e attività non militari, il Tribunale si sofferma sul significato di tale concetto, ricordando che è stato lo stesso Parlamento ad adottare una nozione di "dovere di difesa della Patria" molto ampia, comprensiva di tutte le attività finalizzate alla solidarietà, alla cooperazione nazionale e internazionale, alla salvaguardia del patrimonio ambientale, culturale, artistico e storico, allo sviluppo della pace tra i popoli. Per di più, con le sentenze 228/04 e 431/05, la Corte Costituzionale ha considerato il servizio civile un mezzo per adempiere ai doveri costituzionali di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2) e di concorso al progresso materiale e spirituale della società (art. 4), valutando pertanto il dovere di difendere la Patria (art. 52 Cost.) alla luce del suddetto principio di solidarietà (che consente a ciascuno di esprimere liberamente e spontaneamente la propria socialità). La Consulta, infatti, definisce il servizio civile come "forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della Patria". Rifacendosi alle suddette pronunce, è chiaro che il dovere di difendere la Patria sia collegabile al dovere fondamentale di solidarietà politica, economica e sociale al quale sono chiamati tutti quelli che abbiano scelto liberamente di risiedere stabilmente in Italia. Del resto, qual è il senso del servizio civile, se non quello di svolgere attività senza scopo di lucro che perseguano la solidarietà, la tutela dei diritti sociali, la salvaguardia del patrimonio e il contributo alla formazione civica?
La lezione da trarre è che il cittadino può adempiere al dovere di difendere la propria Patria anche impegnandosi nel sociale. Tuttavia una simile posizione comporta alcune precisazioni in merito ai concetti di "Patria" e "cittadino”, alle quali il magistrato Bianchini non si sottrae. Per la Costituzione e la Consulta, “Patria” non è tanto il confine nazionale, quanto la comunità di persone che vivono all’interno di tali confini, mentre “cittadino” non è sempre e solo il titolare della cittadinanza, ma chiunque appartenga a una collettività che abita e interagisce su un certo territorio.  Inevitabile quindi che il termine “cittadino” comprenda anche gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia che abbiano eletto questo Paese come proprio luogo di stabile dimora e alla cui comunità sentano ormai di appartenere. La conseguenza è che dalla previsione per cui la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino (art. 52 Cost., applicabile, come detto, anche al servizio civile, poiché con esso si tiene fede all'annesso dovere di solidarietà sociale) non possono essere esclusi nemmeno gli apolidi residenti in Italia, poiché trattasi di norma costituzionale di “garanzia” e non di “esclusione”, da cui nessun cittadino può essere esentato senza valido motivo. Tra l’altro la dott.ssa Bianchini sottolinea come le finalità del servizio civile (promozione politica, economica e sociale) siano comuni a ogni realtà nazionale: la stessa norma istitutiva (art. 1 della legge 64/2001) contempla la “promozione di solidarietà e cooperazione nazionale e internazionale con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona e all’educazione alla pace tra i popoli”. Il fatto che sia prevista la possibilità di svolgere il servizio civile anche in uno Stato estero a favore delle popolazioni locali comporta che non vi siano motivi ragionevoli e obiettivi per limitare la partecipazione ai soli soggetti muniti di cittadinanza italiana. E’ di nuovo la legge 64/2001 a prevedere l'ammissione al servizio civile volontario "sulla base di requisiti oggettivi e non discriminatori”, non richiedendo il possesso della cittadinanza (introdotto invece dal D.Lgs. 77/02), dal momento che il servizio civile è sempre stato rivolto a chi appartenesse alla comunità e, come tale, facesse proprio quel dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 Cost.
Anche considerando il servizio civile come un rapporto di lavoro atipico (il volontario percepisce un compenso, presta la sua attività per un certo numero di ore stabilite dall’ente, opera sotto la supervisione di un responsabile del progetto appartenente all’ente e può essere sanzionato sotto il profilo disciplinare), non c'è alcun motivo valido per escludere lo straniero stabilmente residente in quanto tale. Infatti nell'esercizio dei diritti civili (come il concorrere a tutte le proposte contrattuali in materia lavorativa) vige il principio giuridico della parità di trattamento tra italiani e stranieri regolarmente soggiornanti.
Secondo il Tribunale, è incongruente, irragionevole e incomprensibile permettere che il responsabile di progetto (colui che, dirigendo l'attività del volontario, persegue le finalità richieste dalla legge sul servizio civile) possa essere uno straniero, mentre il volontario debba per forza essere italiano. Visto che con la sua scelta quest'ultimo contribuisce allo sviluppo e al bene della collettività cui appartiene, non si vede per quale ragione il possesso o meno della cittadinanza possa essere considerato un requisito per accedere al servizio civile.
Ora, anche se la costituzionalità delle leggi può essere riconosciuta o negata soltanto dalla Corte Costituzionale, il giudice ordinario può fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi, ovvero considerare eventuali interpretazioni che permettano di applicare le norme vigenti in modo conforme ai dettami costituzionali. Ed è proprio quanto ha inteso fare il giudice Bianchini per l’art. 3 del D.Lgs. 77/02. Ella ha ritenuto che il dovere di difesa della Patria (art. 52 Cost.), anche nella forma propria del servizio civile collegata al dovere di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), debba essere esteso a tutti i “cittadini”, intesi non come persone munite di cittadinanza, ma come appartenenti in maniera stabile e regolare alla comunità.
L'inevitabile conclusione del giudice è che la limitazione prevista dall’art. 3 del D.L.gs. 77/02 (ripresa dal Bando del 20 settembre scorso) è certamente discriminatoria poichè esclude senza motivo dalla partecipazione alla selezione tutti gli stranieri residenti stabilmente in Italia (come Syed Shahzad Tanwiryed). Pertanto, perché tale discriminazione venga rimossa, il Tribunale ha ordinato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Nazionale per il Servizio Civile di sospendere le procedure di selezione, escludere dal Bando il requisito della cittadinanza e fissare un nuovo termine per la presentazione delle domande, così da consentire l’accesso anche agli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia.
In conclusione, mi permetto di avanzare (con infinità sobrietà, ci mancherebbe) un piccolo suggerimento a Monti, quando i suoi uffici dovranno correggere il Bando. Dopo “servizio”, evidenzi bene l'aggettivo "civile": qualcuno potrebbe ancora scambiarlo per "incivile".

Aggiornamento del 20 gennaio 2012
Asgi e Apn onlus (le associazioni che hanno sostenuto con Syed Shahzad Tanwiryed il ricorso al Tribunale del Lavoro di Milano) hanno emanato un comunicato stampa, con cui hanno avanzato una proposta al governo Monti per evitare il paventato blocco del servizio civile. Si sono rese disponibili, insieme a Syed, ad accettare di aprire definitivamente il servizio civile anche agli stranieri regolari a partire dal prossimo bando, considerando che "la legge prevede la possibilità di un piano di rimozione della discriminazione anche secondo passaggi graduali, da definirsi in accordo tra le parti". Tale prospettiva garantirebbe una soluzione rapida del problema, facendo coesistere il principio sancito dal giudice Carla Bianchini (parità di trattamento tra italiani e stranieri regolari) e l'esigenza dei volontari già selezionati di veder confermato l'avvio dei loro progetti. Ora non resta che attendere le mosse della Presidenza del Consiglio.

Aggiornamento del 27 gennaio 2012
"Prendiamo atto con rammarico che ad oggi il Governo non ha assunto alcuna iniziativa in esecuzione dell'ordinanza, se non sospendendo le partenze [dei progetti di servizio civile, N.d.A.], nonostante le nostre proposte che prevedevano l'apertura definitiva del servizio civile agli stranieri a partire dal prossimo bando". Ecco le mosse (inesistenti) del Presidente Monti secondo un nuovo comunicato stampa di Asgi e Apn onlus, emanato il 25 gennaio. Così, vista l'assenza del governo dei professori (che sarà anche molto "tecnico" e molto "sobrio", ma quanto al rispetto del diritto e delle pronunce giurisdizionali non sembra essere inferiore al precedente), per superare "i disagi e le ansie vissute in questi giorni dai volontari già selezionati e in procinto di essere assunti in servizio", le due associazioni hanno dovuto agire "in maniera spontanea": hanno chiesto all'Avvocatura dello Stato di domandare - insieme - alla Corte d'Appello (dove la Presidenza del Consiglio, a spesa dei contribuenti, ha presentato ricorso contro il verdetto del giudice Carla Bianchini) di sospendere fino a sentenza definitiva l'esecutività della pronuncia di 1° grado solo per gli effetti sul bando in corso (confermando, quindi, il carattere discriminatorio dell'esclusione degli stranieri regolari). La collaborazione tra Asgi, Apn onlus e Avvocatura dello Stato ha portato i suoi frutti, visto che ieri la Corte milanese ha accolto la loro richiesta. In tal modo, i volontari già selezionati potranno iniziare regolarmente, nonostante Asgi e Apn onlus abbiano sottolineato che durante il processo la Presidenza del Consiglio, confidando esclusivamente nelle proprie ragioni, non si sia mai preoccupata dello stato di avanzamento delle procedure di selezione. 
Tutto è bene quel che finisce bene, se non fosse che le due associazioni abbiano chiesto a Monti di:
- non insistere nella pretesa di sovvertire la decisione della dottoressa Bianchini e rinunciare così all'appello per la parte relativa all'accertamento del carattere discriminatorio dell'esclusione degli stranieri regolari. In tal modo l'ordinanza del Tribunale di Milano diventerebbe definitiva e i prossimi bandi sarebbero certamente indetti anche per una categoria di giovani finora ingiustamente penalizzata;
- introdurre in una delle misure in cantiere (come il decreto sulle semplificazioni) la modifica dell'art. 3 del D.Lgs. 77/02 per chiarire una volta per tutte il diritto dei giovani stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di partecipare al servizio civile;
- rafforzare l'istituto del servizio civile.
Vorrà Monti ascoltare tali richieste e metterle in pratica?
Nota conclusiva: poichè il verdetto d'appello è stato fissato a novembre, Asgi e Apn onlus hanno promesso di presentare apposita istanza per anticipare la decisione dei giudici, in modo tale che arrivi prima dell'emanazione del nuovo bando di servizio civile. 

Aggiornamento del 23 dicembre 2012
Il 20 dicembre 2012 la Corte d'Appello di Milano ha respinto il ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri contro l'ordinanza del giudice del lavoro Carla Bianchini, confermando così la decisione di 1° grado.
Alla luce di due provvedimenti univoci della magistratura, Asgi (Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) e Avvocati per niente onlus hanno emanato un comunicato stampa in cui scrivono di attendersi che "la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione si adoperino affinché il nuovo bando per la selezione dei volontari del Servizio Civile Nazionale, atteso per i primi mesi del prossimo anno, non contenga più il requisito della cittadinanza italiana, ma venga esteso anche ai giovani di cittadinanza straniera regolarmente residenti in Italia".
Speriamo, anche se i precedenti non sono incoraggianti.
Infatti il 23 ottobre scorso, nel rispondere - dopo 8 mesi e mezzo - a un'interrogazione presentata il 7 febbraio a Montecitorio dal deputato dell'Italia dei Valori Fabio Evangelisti, il ministro per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant'Egidio) ha scritto che la Presidenza del Consiglio - Ufficio Nazionale per il Servizio Civile ha chiesto un parere su come comportarsi per i bandi futuri alla stessa Avvocatura generale dello Stato, le cui tesi erano appena state sconfessate dal giudice di Milano. Che cosa avranno mai risposto gli avvocati pagati dai contribuenti? Che altri giudici hanno considerato legittima l'ammissione dei soli cittadini italiani ai bandi di servizio civile. Pertanto i legali hanno suggerito di continuare a prevedere nei bandi l'accesso ai soli cittadini italiani, nel rispetto di quella norma bollata come "discriminatoria" dal giudice Bianchini (l'art. 3 del D.Lgs. 77/02). La spiegazione fornita dall'Avvocatura è imperdibile: "anche in caso di ipotetica soccombenza dell'Amministrazione in singoli giudizi intrapresi da soggetti non cittadini per accedere alla selezione, detta soccombenza non sarebbe di per sé sufficiente - in presenza di una siffatta norma di legge efficace e vincolante - a giustificare una eventuale modifica dei bandi né lo stralcio della clausola che a tale norma di legge si conforma". Riassumendo: un giudice ritiene palesemente discriminatoria una norma, ma gli avvocati pubblici - soccombenti in tribunale - suggeriscono al governo di fregarsene, non cambiando nulla. Il bello (si fa per dire) è che il ministro Riccardi ha sposato in pieno il suggerimento dell'Avvocatura. Ha infatti sostenuto che "nei bandi di prossima adozione sarà prevista la cittadinanza italiana quale requisito di partecipazione al servizio civile, in ossequio al quadro normativo vigente non disapplicabile dall'amministrazione, fatti salvi eventuali interventi legislativi volti a modificare la disciplina in materia", anche se "la reiterata indicazione nei nuovi bandi del requisito della cittadinanza italiana avrebbe potuto essere interpretata come una mancata osservanza della pronuncia del giudice del lavoro". Ora, a parte l'evidente confusione di idee del ministro, probabilmente inconsapevole delle sue preoccupanti contraddizioni (messe addirittura nero su bianco in un atto ufficiale della Camera dei Deputati), Riccardi ignora che il governo di cui fa parte (anzi, il suo ministero - essendo senza portafoglio - rientra nella Presidenza del Consiglio) potrebbe modificare la norma discriminatoria inserendo pochissime parole all'interno di un decreto-legge, oppure presentare in Parlamento la semplicissima modifica normativa in un disegno di legge. Il governo "tecnico", invece, non ha fatto nulla. Mantenendo in vigore una discriminazione.

venerdì 13 gennaio 2012

LE MAFIE RINGRAZIANO

Per quasi 8 mesi in Italia trasportare in maniera illecita rifiuti pericolosi è stato legittimo. Ebbene sì, lo scorso governo Berlusconi ha fatto nuovamente ciò che gli è sempre riuscito fare meglio: legalizzare l'illegalità. 
La notizia emerge (o meglio, sarebbe dovuta emergere, se in questo Paese ci fosse un'informazione degna di tal nome, cioè l'informazione) dalla lettura di una sentenza del Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di Nardò emessa il 26 ottobre scorso dal giudice Giuseppe Biondi. Da essa si apprende, infatti, che il Codice dell'ambiente emanato al termine del secondo governo Prodi (D.Lgs. 152/2006) sanzionava con il carcere fino a 2 anni chi trasportasse rifiuti pericolosi in maniera illecita, cioè senza avere il formulario di identificazione o avendolo, ma con dati falsi o incompleti (come il nome e l’indirizzo del produttore di rifiuti e del detentore; l’origine, la tipologia e la quantità del rifiuto trasportato; l’impianto di destinazione; la data e il percorso del viaggio; il nome e l’indirizzo del destinatario). Poi è arrivato Berlusconi, che prima ha sostanzialmente depenalizzato la fattispecie criminosa (art. 35 del D.Lgs. 205/2010), per poi tornare sui suoi passi e approvare il D.Lgs. 121/2011, reintroducendo la sanzionabilità fino a 2 anni di carcere fino a quando non sia operativo il sistema di tracciabilità dei rifiuti (il Sistri).
Tutto è bene quel che finisce bene?
Non proprio, perchè il Tribunale pugliese rammenta che, non essendo retroattiva la legge penale (artt. 25 della Costituzione e 2 del codice penale), le condotte compiute dal 25 dicembre 2010 al 15 agosto 2011 (ovvero tra il giorno di entrata in vigore del D.Lgs 205/2010 - che ha depenalizzato il reato - e il giorno precedente l'entrata in vigore del D.Lgs. 121/2011 - che ha ripenalizzato il reato) non sono punibili. Pertanto chi, in quegli 8 mesi scarsi, avesse trasportato rifiuti pericolosi senza documentazione appropriata o attestante dati falsi o incompleti va assolto perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Così è stato costretto a sentenziare anche il giudice Biondi in merito all’uso di un documento di trasporto ove si attestava il trasporto di "acqua di vegetazione", mentre si trattava di un liquame scuro e puzzolente, composto da arsenico, azoto ammoniacale, cromo, nichel, selenio, alluminio, vanadio, zinco, COD ed Escherichia coli.
Ora, poiché in Italia (e non solo) il traffico illecito di rifiuti pericolosi è monopolio incontrastato delle mafie, chi avrà maggiormente apprezzato l’ennesima depenalizzazione berlusconiana?

mercoledì 11 gennaio 2012

SE DISCRIMINI, NON ADOTTI

Per poter adottare un minore è necessario che i coniugi (entrambi) siano sposati da almeno 3 anni (oppure che, prima di sposarsi, abbiano convissuto stabilmente e in modo continuativo per lo stesso periodo di tempo), non siano di fatto separati e non lo siano stati negli ultimi 3 anni, abbiano un'età superiore a quella del minore per almeno 18 anni e per non più di 45 e, infine, siano affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere il bambino che vogliano adottare. Proprio quest'ultimo requisito (sancito, come gli altri, dall'art. 6 della legge 184/83) manca alla coppia che manifesti preclusioni sulle particolari caratteristiche del figlio desiderato. E' quanto ha ricordato recentemente la Cassazione (Sezione VI Civile - Ordinanza 28 dicembre 2011, n. 29424). Se, per esempio, un aspirante padre e/o un'aspirante madre pretendono che il loro bambino sia soltanto cattolico, non di origini rom e di pelle bianca significa (sempre secondo i supremi giudici) che la coppia richiedente è spaventata dalle frequenti incognite tipiche del fenomeno adottivo, dalle quali vuole difendersi. Tuttavia simili preclusioni non devono esserci, altrimenti non potrebbe sussistere il presupposto fondamentale per poter adottare: accettare totalmente e senza condizioni il figlio auspicato. Se ciò manca in almeno uno dei coniugi, la coppia non potrà farsi carico di un minore di cui prendersi cura.  

martedì 10 gennaio 2012

"VACANZE" PEDOFILE

Un paio di mesi fa, il 16 novembre scorso, sono state depositate le motivazioni di un'importante sentenza della Cassazione (Sezione III Penale, n. 42053/11), la cui rilevanza dipende dalla novità del tema affrontato. Per la prima volta infatti la Suprema Corte si è soffermata ad analizzare compiutamente il reato di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (il cd. "turismo sessuale").
Il delitto, p. e p. dall’art. 600-quinquies c.p. introdotto nell’agosto 1998 (con l'art. 5 della legge 269/98, primo governo Prodi), prevede una pena compresa tra i 6 e i 12 anni di carcere (e una multa tra 15.493 e 154.937 euro) per chi organizzi o pubblicizzi viaggi aventi l'obiettivo - non necessariamente unico - di favorire l'entrata in contatto con minori a fini sessuali. 
I giudici chiariscono che l’art. 600-quinquies sanziona condotte che facilitano l'incontro tra la domanda e l'offerta nel mondo della prostituzione infantile, ovvero comportamenti che preannunciano l'induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento del meretricio minorile, agevolando il fruitore nel procurarsi le sue giovanissime vittime. Si tratta di una fattispecie criminosa di mera condotta e di pericolo astratto, punitiva nei confronti di atteggiamenti collaterali al favoreggiamento della prostituzione di minori che, se non appositamente previsti dal codice penale, potrebbero non essere punibili ai sensi degli altri reati di pedofilia (come del resto si verificava prima dell’11 agosto 1998, giorno da cui il reato è entrato in vigore). Da qui l’importanza dell’introduzione di una tale tipicità delinquenziale all’interno dell’ordinamento penale italiano. Ma chi ne può rispondere?
Secondo la Cassazione, chi organizza e programma viaggi sessuali per altre persone (preparando il mezzo di trasporto e tutto quanto serva alla trasferta), fornendo loro informazioni, servizi o indirizzi idonei sulla possibilità di venire in contatto con l'universo della prostituzione minorile. Non deve per forza essere un operatore turistico o una persona che svolga un’ attività simile in maniera continuativa e per un nutrito gruppo di pedofili: basta che organizzi e pianifichi anche un solo viaggio per poche persone.
Se qualcuno organizza una gita sessuale solo per sé non commette il reato ex art. 600-quinquies c.p. (la fattispecie prevede che il viaggio debba essere organizzato da altri), ma potrebbe poi commettere altri reati, come la violenza sessuale o la prostituzione minorile.* Stesso discorso vale per i partecipanti alla trasferta, i quali (se si limitano a prender parte alla scampagnata pedofila e nulla più) non commettono alcun illecito penale.
Chi, infine, in vista di un viaggio scambia informazioni così puntuali e mirate da facilitare gli incontri sessuali con ragazzini può rispondere di favoreggiamento della prostituzione minorile (almeno a livello di tentativo).    
La Cassazione, infine, precisa che per poter contestare penalmente l’iniziativa turistico-pedofila non serve che si sia effettivamente verificata la fruizione sessuale di minori. 

* Il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) punisce chi - usando violenza, minaccia o abuso di autorità - costringe o induce qualcuno a compiere o subire atti sessuali. La pena è la reclusione da 5 a 10 anni.
Il delitto di prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.) punisce l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione di minori con la stessa pena prevista per le iniziative turistico-pedofile, ma sanziona anche chi compie atti sessuali con un minore in cambio di denaro. In tal caso, la pena è da 6 mesi a 5 anni di carcere e una multa di almeno 5.164 euro. 




sabato 7 gennaio 2012

MALINCONICHE LEZIONI DI VITA

Secondo Francesco de Vito Piscicelli (imprenditore della "cricca" di Angelo Balducci e Diego Anemone), Roberto Sciò (proprietario dell'Hotel Pellicano, albergo di lusso di Porto Ercole, sull'isola d'Elba) e i Carabinieri del Ros, il neo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per l'editoria, Carlo Malinconico, ha trascorso tra il 2007 e il 2008 diversi giorni di vacanza nella suddetta località marittima senza aver pagato. Perlomeno, non di tasca sua.
Sembrerebbe, infatti, che il pagatore (19.876 euro in tutto) sia stato proprio Piscicelli, il quale, in una recente intervista rilasciata a Marco Lillo per "Il Fatto Quotidiano", ha rivelato la propria versione dei fatti. Invitato dal compare di cricca Angelo Balducci a prendere un aperitivo nel centro di Roma, Piscicelli avrebbe ricevuto da questi una richiesta onerosa: prenotare una vacanza all'Hotel Pellicano di Porto Ercole per Carlo Malinconico, anticipando il pagamento. Sempre secondo Piscicelli, Balducci si sarebbe rivolto proprio a lui perchè al corrente che Piscicelli conoscesse bene il padrone dell'Hotel Pellicano (Roberto Sciò) e che, pertanto, non si sarebbe potuto rifiutare. Piscicelli avrebbe dunque pagato in quella e in altre occasioni (9.800 euro + 685 euro di spese extra solo per la prima vacanza, dal 12 al 19 agosto 2007), senza che ad oggi nessuno gli abbia restituito quei 19.876 euro.
A questo punto, merita di essere riportata la superba replica di Malinconico (ex presidente della Fieg e segretario generale di palazzo Chigi durante il secondo governo Prodi), concessa a Stefano Zurlo per "Il Giornale":
"Chiesi con insistenza all'albergo, a fronte del diniego di farmi pagare, chi avesse pagato. Mi fu risposto che non era possibile dirlo per ragioni di privacy. Per questo mi irritai molto e non misi più piede in quell'albergo".
Peccato che, secondo l'informativa del Ros di Firenze del 7 giugno 2010 consegnata ai Pm, al rientro delle vacanze Malinconico avesse chiamato Balducci per ringraziarlo dello splendido soggiorno offerto ("Ti chiamavo innanzitutto per ringraziarti. Grazie. Benissimo, ottimo il tutto e quindi ti volevo veramente di cuore ringraziare") e Balducci avesse risposto: "Che scherzi? Tutto a posto, ci mancherebbe".
Ma prendiamo per veritiere le spiegazioni del sottosegretario di Monti (forse i testimoni e i Carabinieri hanno preso un grosso granchio, magari all'isola d'Elba. Vai a fidarti delle forze dell'ordine). Ecco come devono essersi svolti i fatti.
Malinconico, al termine della sua lussuosa (pardon, "sobria") vacanza, si reca dall'albergatore per saldare il conto, quando (sorpresa!) l'albergatore risponde: "No, signore, non deve pagarmi nulla. Qualcuno ha già provveduto per Lei". Immaginarsi il volto (malinconico?) di Malinconico e la sua interminabile disperazione nell'apprendere di non poter sapere il nome di un così gentile benefattore, nonostante le sue ripetute ed estenuanti richieste. Roba da far impazzire anche il più tecnico dei "tecnici" e il più sobrio tra i "sobri".
"Mi spiace, signore, c'è la privacy".
"Ma io voglio saperlo, lo devo sapere!".
E giù con le bestemmie, ma niente, l'albergatore è irremovibile.
Quel giorno, allora, il neo sottosegretario del governo Monti (sempre più malinconico) ha appreso un'importante lezione di vita: se qualcuno paga per te "a tua insaputa", non importa conoscerne l'identità. Basta ringraziare.

giovedì 5 gennaio 2012

ANCHE MONTI CADE SULLA GIUSTIZIA  

In merito al cd. "decreto svuota carceri" del Guardasigilli Paola Severino, è interessante leggere un provvedimento del Gip di Paola (Cosenza) Giuseppe Battarino datato 3 gennaio 2012. Riguarda il caso di un individuo arrestato in flagranza di reato (furto pluriaggravato) e posto agli arresti domiciliari dal Pm in attesa della pronuncia del Gip sulla convalida dell'arresto.
Il testo che qui interessa è il decreto con cui il dott. Battarino ha fissato l'udienza di convalida (presso il Palazzo di Giustizia di Paola): si tratta di una delle prime pronunce giurisdizionali sul decreto-legge 211/11 (lo "svuota carceri", appunto).
Il Gip si sofferma sulle modifiche apportate dal ministro Severino all'art. 123 delle norme di attuazione del Codice di Procedura Penale (D. Lgs. 271/89), riguardante il luogo ove celebrare l'udienza di convalida.
La norma prevedeva che essa si svolgesse presso il sito di custodia dell'arrestato, a meno che vi fossero motivi di necessità o urgenza "specifici": in tal caso, il Gip (con una semplice disposizione organizzativa) poteva disporre la comparizione dell'arrestato davanti a sé in Tribunale.
Ora, invece, il decreto del governo Monti fa riferimento a "eccezionali" motivi di necessità o urgenza e obbliga il Gip a emanare un "decreto motivato" (cioè un provvedimento di natura giurisdizionale).
Nel caso di specie posto alla sua attenzione, sentendo l'esigenza di fornire un'interpretazione concretamente praticabile della nuova norma e coerente con il sistema processuale, il giudice Battarino riconosce la sussistenza di "eccezionali" motivi di necessità (come richiesto dalla norma Severino), decretando dunque che l'arrestato compaia davanti a sè nel Palazzo di Giustizia di Paola.
Il primo aspetto interessante da sottolineare è che il principale motivo "eccezionale" riscontrato è la condizione strutturale del Tribunale di Paola: poichè il domicilio dell’arrestato si trova in montagna a 70 km dal Tribunale, l'unico Gip in servizio di turno per le urgenze e l'unico cancelliere destinato alle medesime funzioni dovrebbero assentarsi dalla sede giudiziaria per almeno 4/5 ore per espletare un solo atto. Pena: interruzione del servizio giudiziario in sede. Battarino ricorda che in tale drammatica situazione, dovuta alla scarsità di risorse e all'ampiezza del Circondario (130 km), è analoga a quella di almeno l’80% dei Tribunali italiani.
Dopo aver ricordato il misero stato in cui versa la giustizia italiana (che la casta politica si guarda bene dal risolvere), Battarino torna a occuparsi del decreto cd. "svuota carceri", accennando a "sospetti di contrasto con norme di livello superiore". E qui arriviamo al secondo aspetto degno di nota. Esplicitando la propria valutazione giuridica, il Gip di Paola ritiene che la norma "può essere sospettata di violare l’art. 23 della Costituzione". Infatti, chiedendo al detenuto di mettere a disposizione la propria abitazione affinchè il giudice e chi lo assiste vi organizzino una camera di consiglio (salvo "eccezionali motivi"), si impone all'arrestato una prestazione personale che, per essere legittima, deve essere espressamente prevista dalla legge (cosa che non fa il decreto-legge del governo Monti). Non solo. Battarino ritiene si possano porre questioni di legittimità per quanto riguarda l’intero impianto normativo del decreto legge, in relazione:

- all'art. 81, c. 4 della Costituzione (ovvero alla mancata copertura economica della norma, derivante dal fatto che per le attività di polizia giudiziaria non tiene contro del coinvolgimento di altri Ministeri - come la Difesa e l'Economia -  e del maggior costo delle continue trasferte di magistrati, cancellieri e autisti rispetto alle scorte coordinate di Polizia penitenziaria);

- all’art. 5, c. 1, lett. c) e c. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (secondo cui ogni persona arrestata deve essere condotta il prima possibile dinanzi a un giudice, cioè deve essere materialmente sottratta alle forze dell'ordine che l’hanno privata della libertà).

Come la mettiamo se anche il governo "tecnico" dei "professori" vara norme che, appena approvate, sono già riconosciute passibili di incostituzionalità e illegittimità comunitaria?