mercoledì 29 febbraio 2012

BERLUSCONI E RENZI, TROVA LE DIFFERENZE

Molti si chiedono per quale ragione il Pd continui a mantenere tra le proprie fila un personaggio come Matteo Renzi, attuale sindaco di Firenze. Forse, però, la risposta non è così difficile: assomiglia tantissimo a Berlusconi (li immaginate Bersani & C. cacciare un proprio esponente "solo" per questo? Dovrebbero espellere almeno metà partito!). Indimenticabili la sua visita in segreto (forse per la vergogna) ad Arcore per discettare con il grande statista dei problemi di Firenze, i numerosi apprezzamenti ricevuti dai berluscones (dalla figlia Barbara fino al Mattinale di Paolo Bonaiuti), le menzogne sul referendum del giugno scorso sull'acqua pubblica (disse, con grave sprezzo del ridicolo, che un quesito chiedeva di abrogare una legge firmata da Prodi e Di Pietro, mentre bastava leggerne la data e l'incipit per sapere che si trattava di una delle ultime norme varate da Berlusconi nel 2006) e le inquietanti minacce rivolte nel settembre 2008 a un'imprenditrice vicina al Pd - Sonia Innocenti - in quanto sostenitrice di Lapo Pistelli alle primarie per il Comune di Firenze (Graziano Cioni, candidato come Renzi a quella "competizione", disse a quest'ultimo, teoricamente suo avversario: <<Il voltaspalle lo deve pagare>> e, il giorno dopo, Renzi gli fece sapere che <<alla Sonia quel messaggio che mi avevi detto ieri gliel'ho fatto dare in modo molto brutale>>).
Se già questi elementi vi paiono sufficienti per accostare il nostro giovane "rottamatore" al ducetto brianzolo, sappiate che i due hanno qualcos'altro in comune: i problemi con la giustizia. Ora, Renzi ha solo 37 anni e ha ancora molta strada da fare per eguagliare il maestro, ma per essere già sulla buona strada deve aver fatto tesoro degli insegnamenti ricevuti. Se, infatti, i guai di mastro Silvio riguardano il penale e il civile, quelli di compare Matteo invece toccano la giustizia contabile. La Corte dei Conti - Sezione Toscana, con la sentenza 4 agosto 2011, n. 282, ha ricostruito una storia quasi ignota al grande pubblico, che invece vale la pena di raccontare.
Il 15 gennaio 2010 la Procura Regionale contabile ha citato in giudizio Matteo Renzi, in qualità di ex Presidente della Provincia di Firenze, per chiedere la sua condanna a risarcire il danno erariale causato allo stesso Ente da lui presieduto, grazie ad alcune assunzioni - a tempo determinato - per la propria Segreteria, esterne all'Amministrazione provinciale. Le persone scelte, infatti, non avevano i requisiti necessari perchè fosse loro corrisposto un determinato trattamento economico, troppo elevato. Nonostante il regolamento provinciale all'epoca vigente non richiedesse esplicitamente il possesso di una laurea, le assunzioni esterne non possono mai essere lasciate al mero arbitrio degli amministratori, ma ci deve sempre essere un vincolo di corrispondenza tra la retribuzione e alcuni requisiti minimi culturali e professionali, che giustifichino la corresponsione di quello stipendio, anche in assenza di un titolo universitario. Ciò non significa che gli amministratori pubblici non godano di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni, ma che sono tenuti a rispettare i canoni di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, in modo da consentire che il personale inserito nel pubblico e sfornito dei requisiti generalmente richiesti (come la laurea) offra garanzie necessarie di professionalità e competenza.
Ecco, secondo la Corte, Renzi, concedendo un trattamento economico troppo elevato e sproporzionato, non aveva osservato tali canoni. Infatti, egli aveva:

  • disposto la composizione numerica della propria Segreteria (atto di indirizzo n. 59146 del 15 luglio 2004, fatto proprio dalla Giunta cinque giorni dopo);

  • indicato, quali componenti della propria Segreteria, Eleonora Chierichetti - 22 anni - e Maria Elena Poli - 32 anni (note n. 59149 e n. 59152 del 15 luglio 2004) - assunte rispettivamente il 2 e 9 agosto 2004. La prima era studentessa alla facoltà di Economia e Gestione dei Servizi Turistici, ex hostess alla reception della Fortezza  Da Basso di Firenze, ex responsabile cassa e vendita di un outlet di Ungaro ed ex responsabile del bar di un Tennis Club; la seconda era studentessa alla facoltà di Lettere e Filosofia - corso in Paleografia latina, ex hostess con compiti di accoglienza e guida presso alcune mostre, ex partecipante a un progetto di avvicinamento all'utilizzo dell'euro con i ragazzi delle scuole medie;

  • indicato, quale Responsabile della propria Segreteria, Giovanni Palumbo (26 anni) - nota del 13 gennaio 2005 - assunto il 9 marzo 2005. Iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, era un ex dipendente precario dell'Agenzia di Promozione economica della Toscana, poi assunto in ruolo come istruttore amministrativo-contabile (dopo le sue dimissioni dall'incarico fornitogli da Renzi, era stato sostituito dalla sopra citata Maria Elena Poli, laureatasi nel frattempo in Lettere e Filosofia, con nota del 26 marzo 2007);

  • indicato, quale ulteriore componente della propria Segreteria, Benedetta Perissi - 33 anni (nota n. 725 del 29 novembre 2007) - assunta il 27 dicembre 2007. Diplomata, era un'ex impiegata al centralino dell'Agenzia Toscana Promozione "Villa Fabbricotti", ex impiegata addetta alla gestione commerciale e/o amministrativa della clientela per la Tim, aveva seguito un corso di formazione per addetti amministrativi organizzato da LavoriPiù spa e svolto numerose attività nel settore del commercio e dell'artigianato multiculturali.

Ora, la Corte dei Conti ha giudicato le suddette assunzioni:

  • illegittime, perchè riguardavano soggetti non laureati e, in ogni caso, con curricula non congrui rispetto alla loro scarsa o nulla professionalità e alle mansioni per cui erano stati assunti presso la Segreteria del Presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi;

  • illecite, perchè frutto di comportamenti gravemente colposi di amministratori e/o dirigenti, tra cui lo stesso Renzi, che avevano così prodotto un danno all'erario provinciale.

Secondo i giudici, dal momento che l'attività della Segreteria di un Presidente di Provincia non comporta lo svolgimento di prestazioni per cui serva una specifica e insostituibile competenza - anzi, trattasi di impiego dove la laurea non è necessaria - l'assenza negli assunti di minimi requisiti culturali e professionali rende ingiusta la percezione delle somme erogate, ma legittima pur sempre l'acquisizione di importi inferiori, alla luce delle prestazioni in ogni caso rese. Per cui, secondo la Corte, il danno arrecato da Renzi alle casse pubbliche dell'Amministrazione da lui presieduta è ravvisabile nella concessione di compensi immeritati perchè troppo elevati. Infatti, mentre il Responsabile della Segreteria, Giovanni Palumbo, era stato stipendiato come "laureato esperto" e la Provincia fiorentina aveva speso il 23,26% in più del dovuto, la maggiorazione per i semplici componenti era stata dell'8,31%. Renzi avrebbe dovuto optare per persone oggettivamente capaci di apportare un valore aggiunto all'Amministrazione provinciale, ma non sempre si era comportato in tal maniera. Come tutti gli altri soggetti che avevano partecipato alla scelta e all'assunzione dei suddetti personaggi, era incorso nella grave colpa di non aver applicato e rispettato i criteri generali della buona amministrazione e aver permesso (nonostante la palese irrazionalità) che fossero retribuiti con il trattamento tipico del personale laureato individui non solo privi di tale titolo di studio, ma sforniti di un valido percorso alternativo. L'attuale sindaco di Firenze, dunque, è stato giudicato responsabile di danno erariale per aver indicato nominativamente l'organico della propria Segreteria (i cui curricula non erano certamente idonei al conferimento dell'incarico assegnato) e partecipato alla formazione delle delibere illegittime e illecite, con un apporto decisivo.
Per tali comportamenti gravemente colposi e dannosi di depauperamento patrimoniale arrecato alla Provincia fiorentina (perdurati fino alla scadenza del mandato, il 30 giugno 2009), Renzi è stato condannato a risarcire il 30% dei danni erariali totali accertati alla Provincia di Firenze, ovvero 14.535,12 euro (l'intero danno erariale ammontava a 48.452,18 euro).
Sembrerebbe scontata la tesi per cui un amministratore pubblico che abbia impoverito i cittadini non debba più avere a che fare con il loro denaro, ma evidentemente il Pd la pensa in maniera diversa.

lunedì 27 febbraio 2012

L'ABITO FA IL PRETE (PEDOFILO)

Vi racconto due storie simili, avvenute entrambe ad Alassio ed entrambe riguardanti illeciti approcci sessuali, a cui però hanno fatto seguito reazioni diametralmente opposte.

Fino al 29 dicembre 2009 la parrocchia San Vincenzo Ferreri è stata retta da un giovane parroco, don Luciano Massaferro, classe 1965. Quel giorno gli agenti della Questura e del commissariato di Alassio lo arrestano su mandato del Pm Alessandra Coccoli, in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip di Savona Emilio Fois. Le accuse sono pesantissime: atti sessuali continuati e pluriaggravati nei confronti di una chierichetta di 12 anni, abusata più volte dal sacerdote. Da qui le aggravanti contestate: violenza su minore di 14 anni commessa da persona cui il bambino è affidato, con abuso dei poteri e in violazione dei doveri sacerdotali. Dopo essere stato in galera per 9 mesi (prima a Chiavari, poi a Sanremo), don Massaferro si trova agli arresti domiciliari dal 25 settembre 2010 (prima in un convento di suore, poi nella sua casa di Alassio). Nel frattempo, i suoi parrocchiani non perdono tempo a organizzare fiaccolate e veglie di preghiera, oppure a scrivere in massa messaggi sul web, striscioni e lettere. In solidarietà della giovanissima vittima? No, in difesa del suo stupratore. Tale è don Luciano Massaferro per qualsiasi magistrato che abbia trattato il suo caso. Gli ultimi, il Tribunale di Savona (sentenza del 17 febbraio 2011) e la Corte d'Appello di Genova (sentenza del 18 novembre 2011), i quali lo hanno condannato a 7 anni e 8 mesi di reclusione, a risarcire la famiglia della vittima e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici (anche ai fini educativi). Come hanno reagito i sostenitori del parroco? Dopo la sentenza di 1° grado, ecco il commento della promotrice e portavoce del gruppo, Carla Bisello:
"Con questa sentenza facciamo punto e a capo, e ricominciamo a lottare e sostenere don Luciano. La verità e l'innocenza non possono essere cancellate da nessuna sentenza. Le sentenze sono degli uomini, la verità è superiore. Non ci fermeremo qui. Ha perso la giustizia, oltre ogni immaginazione. E' triste pensare che questa sentenza sia stata emessa proprio da chi dovrebbe garantirci. Non si può stare tranquilli".

Nella notte tra il 3 e il 4 settembre 2011, una ragazza di 21 anni, tornando a casa, viene seguita da un uomo ubriaco, il quale, dopo averla raggiunta, tenta di molestarla e all'invito della giovane di allontanarsi (altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri), la colpisce con un coccio di bottiglia tra il collo e la spalla, ferendola. Soltanto dopo le urla e l'arrivo di una persona, l'uomo scappa, anche se poco dopo viene fermato dalle forze dell'ordine. Mentre la vittima dell'aggressione viene visitata e subito dimessa dal Pronto Soccorso di Albenga con una prognosi di 10 giorni, alcuni alassini - prima che arrivassero gli uomini dell'Arma - vanno in cerca del colpevole, armati di bastoni e delle peggiori intenzioni. La madre delle giovane gestisce un bar nel centro di Alassio, il "No Problem", e il giorno dopo l'aggressione alla figlia rilascia la seguente dichiarazione:
"Ho preso una spranga, se lo prendevo... Gli è andata bene che l'hanno trovato prima i carabinieri"
Non solo, la donna affigge in bella mostra nel suo locale un cartello assai esplicito: 
"Vietato l'ingresso ai marocchini".
Già, perchè il colpevole è Ghalfi El Mustapha, 30 anni, venditore ambulante di occhiali e braccialetti in spiaggia, senza fissa dimora. Ma, soprattutto, marocchino.

Ecco, le due storie sono simili, ma molto diverse. Dimostrano infatti che non tutti i molestatori sessuali sono uguali: se l'ambulante extracomunitario va linciato senza pietà, il sacerdote deve essere difeso sempre e comunque e i giudici devono per forza assolverlo.
Chissà che cosa ne pensa il sindaco di Alassio, Roberto Avogadro, senatore dal 1996 al 2001 eletto nelle fila della Lega Nord (poi passato al gruppo misto). Sul caso dell'aggressore africano, ha detto:
"Non è possibile che un individuo come questo fosse in libertà con i suoi precedenti" (El Mustapha, infatti, solo due settimane prima aveva patteggiato 6 mesi di carcere per aver spintonato e morso due vigili urbani che avevano per l'ennesima volta sequestrato la sua mercanzia contraffatta). E' strano: avendo militato nel partito padano, Avogadro dovrebbe conoscere un’altra persona a piede libero, nonostante sia pregiudicata per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale (4 mesi e 20 giorni di galera), ovvero per aver commesso gli stessi, identici reati di El Mustapha. E' un certo Roberto Maroni e fino a poco fa era nientemeno che il ministro dell'Interno.

E' l'abito a fare il prete (pedofilo), ma a volte anche il colore della camicia (e della pelle) conta.

domenica 26 febbraio 2012

FIAT voluntas tua, iustitia

L'altro giorno si è tornato a parlare dello stabilimento Fiat di Melfi, in merito a un provvedimento giudiziario di reintegrazione in fabbrica per tre operai ingiustamente licenziati. Pur immaginando l'evidente, quanto sottaciuto, imbarazzo di chi in piena crisi economica pensa a ridurre drasticamente i diritti essenziali dei lavoratori (vero Monti, Fornero, Marchionne, Marcegaglia?), in questo post voglio trattare un'altra vicenda legata a quel medesimo stabilimento.
Non tutti forse sanno (e chissà perchè nessuno lo dice) che il rappresentante legale della Fiat di Melfi è imputato per cooperazione in omicidio colposo, violazione delle norme antinfortunistiche sul lavoro e violazione di legge sui contratti d'appalto o d'opera. Nonostante il 1° marzo 2011 il Gup di Melfi abbia negato la celebrazione di un processo, sentenziando il non luogo a procedere, la Cassazione - grazie al ricorso delle parti civili - ha ribaltato il verdetto, annullando la decisione del giudice e imponendogli di mandare a processo l'imputato (sezione IV penale, sentenza 10 febbraio 2012, n. 5420).
I fatti riguardano la fuoriuscita incontrollata di una notevole quantità di materiale, che - avendo intasato un impianto di lavorazione - aveva costretto a interrompere la produzione. Chiamata la ditta di manutenzione Merielettra2 per un pronto intervento, un dipendente della stessa, mentre tentava di rimettere in funzione il macchinario, è stato travolto dal carrello di protezione del nastro trasportatore, il quale - sganciandosi - ne aveva causato la morte, schiacciandolo contro la parete.
Al responsabile legale dello stabilimento Fiat di Melfi viene contestata la mancata elaborazione del Documento Unico di Valutazione dei Rischi, necessario per eliminare i possibili pericoli derivanti dalle interferenze tra le attività di Fiat (appaltante) e di Merielettra2 (appaltatrice). Mentre secondo il Gup non c'era stata alcuna sovrapposizione tra le attività delle due imprese durante l'intervento manutentivo, per la Cassazione l'accezione di "interferenza tra ditte" non può ridursi - come ha inteso il Gup - alle sole circostanze che riguardino contatti rischiosi tra i relativi personali, ma deve essere estesa a tutte le misure preventive di tali contatti, materialmente poste in essere da entrambe le imprese. Quindi, anche se i lavoratori di Merielettra2 avevano operato in maniera autonoma nello stabilimento Fiat, quest'ultima doveva metterli nelle condizioni di conoscere preventivamente i rischi cui sarebbero potuti andare incontro in riferimento al loro lavoro di manutenzione. Poichè la diretta responsabile dell'organizzazione cantieristica era Fiat,  anch'essa aveva il dovere di osservare gli obblighi antinfortunistici e curare la conseguente sorveglianza. In merito, la legge parla chiaro (art. 7 del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626): entrambi i datori di lavoro devono cooperare per attuare le misure di prevenzione e protezione dai rischi cui sono esposti i loro dipendenti, coordinando gli interventi e informandosi reciprocamente per eliminare i pericoli legati alle interferenze tra i lavori delle rispettive imprese. Tuttavia, è il committente (nel caso, Fiat) a dover promuovere la cooperazione e il coordinamento, attraverso l'elaborazione del Documento Unico di Valutazione dei Rischi che indichi le misure adottate per eliminare tali interferenze. Soprattutto quando, come nella vicenda specifica, l'eventuale mancata comunicazione di Fiat non riguardi rischi derivanti dall'attività manutentiva di Merielettra2, bensì dall'anomala tenuta dei mezzi lavorativi dell'industria automobilistica. 
Secondo la Cassazione, soltanto un apposito processo - ingiustamente negato dal Gup - potrà stabilire la sussistenza o meno del nesso causale tra tale omissione e la morte del lavoratore (e quindi condannare o assolvere l'imputato), stabilendo se la comunicazione di Fiat a Merielettra2 sia stata sufficiente. Il fatto che la fuoriuscita di materiale, notevolmente pericolosa, sia stata incontrollata dimostra che Fiat avrebbe dovuto preventivamente determinarla e renderla nota all'azienda appaltatrice, per evitare che i manutentori rischiassero per la propria incolumità. Se il necessario approfondimento dibattimentale dimostrasse una simile omissione di comunicazione, il rappresentante Fiat sarebbe riconosciuto colpevole della morte del dipendente della società di manutenzione, in quanto - essendosi concretamente realizzato il rischio causato - sussisterebbe il nesso di causa con il decesso. Per il momento, invece, Fiat si è persino sempre ben guardata dal fornire una qualsivoglia documentazione utile sullo stato di produzione. 
Ecco perchè la Cassazione ha annullato il verdetto del Gup, imponendogli di rinviare a giudizio il rappresentante Fiat di Melfi: considerando la complessità della vicenda, essa va adeguatamente approfondita  in un processo, essendo le prove acquisite suscettibili di evoluzione e soluzioni aperte (magari sulla scorta di perizie più approfondite). I giudici dovranno anche accertare l'eventuale omesso controllo, da parte dell'imputato, dell'effettiva adozione di misure antinfortunistiche da parte di Merielettra2.
Pertanto, la Fiat di Melfi - nella persona del suo rappresentante legale - sarà processata per la morte di un lavoratore avvenuta all'interno del suo stabilimento, poichè allo stato manca una situazione di innocenza certa, scontata e indiscutibile.    
     

venerdì 24 febbraio 2012

FINCANTIERI OLTRE LA CRISI

Tra i purtroppo numerosi esempi di crisi lavorativa italiana degli ultimi mesi c'è anche il "piano industriale" di Fincantieri, le cui parole chiave sono cassa integrazione, esuberi, licenziamenti, ridimensionamento produttivo, chiusura stabilimenti.
Tuttavia c'è un altro aspetto di Fincantieri che andrebbe evidenziato.
La storia di cui mi occupo oggi riguarda un ingegnere che ha lavorato per i Cantieri Navali Ernesto Breda di Marghera (società poi incorporata da Fincantieri) dal 1955 al 1960 e dal 1969 al 1974 ed è morto di mesotelioma polmonare per le fibre di amianto respirate sul posto di lavoro. Per ben 2 anni e 3 mesi - dalla diagnosi della patologia tumorale al decesso - ha dovuto convivere con una malattia terminale incurabile e gravissime ricadute psichiche. I figli si sono rivolti ai giudici per chiedere a Fincantieri un risarcimento danni e la Cassazione (sezione lavoro - sentenza 16 febbraio 2012, n. 2251) ha dato loro ragione. 
La Suprema Corte, infatti, ha sancito la responsabilità di Fincantieri per aver violato l'art. 2087 c.c. e l'obbligo di adottare misure idonee di prevenzione, a fronte della nota nocività dell'ambiente di lavoro per la diffusione di polveri di asbesto liberate nelle operazioni cantieristiche di costruzione delle navi. Del resto, che lavorare l'amianto fosse molto pericoloso era noto, dal punto di vista legislativo, da ben prima degli anni ’70:
1) il Regio Decreto 14 giugno 1909, n. 442 e il Decreto Legislativo 6 agosto 1916, n.1136 (sul lavoro delle donne e dei fanciulli) includevano la filatura e tessitura dell'asbesto tra i lavori insalubri o pericolosi;
2) il Regio Decreto 7 agosto 1936, n.1720 (sui lavori vietati ai fanciulli e alle donne minorenni) contemplava  la lavorazione dell'amianto tra i lavori pericolosi, faticosi e insalubri;
3) la Legge Delega 12 febbraio 1955, n.52;
4) il Decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n.303;
5) il Decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1956, n. 648;
6) il Decreto del Presidente della Repubblica 21 luglio 1960, n.1169, per cui la presenza di asbesto nei materiali di lavorazione poteva dar luogo all'inalazione di polvere di amianto tale da essere rischiosa;
7) il Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, il quale attribuiva un premio assicurativo supplementare per le lavorazioni per cui si presupponesse una concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi.
Tale legislazione di prevenzione - diretta a evidenziare il contenuto fortemente nocivo della lavorazione dell'asbesto - va però letta alla luce della letteratura scientifica conosciuta all'epoca in cui si è svolta la prestazione lavorativa. Dato che i primi studi scientificamente validi sul rischio tumorale legato all'inalazione di particelle anche minime di amianto sono comparsi in Italia a metà degli anni '60, è solo a partire da tale periodo che è possibile concedere un risarcimento danni. Pertanto la Cassazione non ha potuto considerare la fase lavorativa compresa tra il 1955 e il 1960, ma soltanto quella dal 1969 al 1974.
In base al ruolo dirigenziale della vittima (che le imponeva di trascorrere nel cantiere almeno il 70% del tempo lavorativo) e alle operazioni di taglio dei materiali (che disperdevano polveri di asbesto le quali, pur periodicamente asportate in gran misura, stazionavano sui piani di calpestio, con gravi indici di concentrazione), l'ingegnere, notevolmente esposto alle fibre cancerogene di amianto, aveva contratto la malattia fatale. 
Fincantieri è l'unica responsabile poichè, essendo ben nota all'epoca la pericolosità dell'amianto, avrebbe dovuto adottare misure idonee a ridurre il rischio. Infatti, alla luce delle garanzie costituzionali dei lavoratori (che temo non siano in cima ai pensieri dei vari Fornero, Monti e Marcegaglia), il citato art. 2087 c.c. sanziona l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della possibilità di venire a conoscenza dell'esistenza di fattori di rischio in un preciso momento storico. La violazione da parte di Fincantieri di tale norma deriva dal danno alla salute provocato dalla nocività del cantiere veneziano e dal non aver fatto tutto il possibile per evitarlo, come invece sarebbe stato suo preciso obbligo. Gli specifici dispositivi di sicurezza e di prevenzione che l'azienda avrebbe dovuto adottare riguardano, ad esempio, l'utilizzo delle mascherine, la presenza di aspiratori e un buon uso dei mezzi di rimozione delle polveri.
Ovviamente, la Cassazione ha precisato che limitarsi a rimuovere i residui della lavorazione dell'amianto non è mai sufficiente a rendere salubre l'ambiente di lavoro.
Per quanto riguarda, invece, il dubbio sulla possibile esposizione della vittima alle polveri di asbesto presso un'altra azienda (dove aveva lavorato tra il 1960 e il 1969), il collegio togato ha affermato che non solo non ci sono prove in tal senso, ma che anche se ci fossero state, l'esposizione presso i cantieri navali Breda-Fincantieri aveva procurato un accumulo dell'effetto patogenetico da cui era derivato il radicamento della malattia latente e l'accellerazione del suo innesco. 
In conclusione, Fincantieri è stata giudicata responsabile perchè:
- era stata inadempiente ai propri obblighi di sicurezza;
- aveva leso l'integrità fisica di un suo dipendente;
- aveva causato a quest'ultimo prima intense sofferenze psichiche (la vittima aveva percepito lucidamente l'avvicinarsi della sua fine), poi la morte. 
Avendo, quindi, contribuito in maniera decisiva al tragico evento, Fincantieri dovrà risarcire ai figli della vittima i danni biologici, nei quali sono compresi anche i danni esistenziali.

mercoledì 22 febbraio 2012

SE IL CARCERATO SI SUICIDA, LA GUARDIA DIVENTA ASSASSINA

Un'agente di polizia penitenziaria addetta alla sorveglianza dei detenuti presso il carcere romano di Rebibbia (Cosmina R.) è stata processata e condannata in 1° grado (Tribunale di Roma - giudice monocratico, sentenza dell'11 dicembre 2008), in 2° grado (Corte d'Appello di Roma, sentenza del 9 marzo 2011) e in 3° grado (Cassazione - sezione IV penale, sentenza 20 febbraio 2012, n. 6744) per omicidio colposo. 
Il 26 novembre 2004 (la poliziotta aveva 41 anni) l'unica detenuta sottoposta a regime di sorveglianza a vista, Marina Kniazeva, si era potuta suicidare - impiccandosi alla sponda del letto – perché l'imputata agente di custodia non l’aveva vigilata. La sua responsabilità colposa – per omissione di diligenza – deriva dal non aver impedito alla reclusa di impiccarsi e di non essere giunta in tempo per evitarne la morte, nonostante fosse stata dettagliatamente informata sulla situazione di Marina. Cosmina R. aveva infatti il compito e il dovere di controllarla, ma era venuta meno a tale incarico, dal momento che - pur recandosi continuamente verso la cella - non si era mai seduta dinnanzi a essa, omettendo così di svolgere il servizio di piantonamento secondo le istruzioni ricevute. Non solo, ma essendosi allontanata in alcune occasioni dalla cella, non aveva svolto in modo continuativo il servizio di sorveglianza a vista, disposto proprio perchè erano certamente prevedibili iniziative pericolose e autolesionistiche da parte della carcerata. Comportamento ancor più grave, visto che a Rebibbia non è mai esistita alcuna “cella liscia”, ovvero una cella arredata in modo tale da contrastare l’autolesionismo. 
In conclusione, pertanto, l’omissione della poliziotta aveva precluso il tempestivo avvistamento del suicidio e il conseguente intervento per scongiurare il decesso di Marina, la quale, per di più, non poteva certo arrecare alla sua guardia alcuna offesa o aggressione, visto che era sempre dietro le sbarre.

martedì 21 febbraio 2012

SESSO A SCUOLA



E' recente la notizia di una coppia di quindicenni che, nel bagno di un istituto di ragioneria di Bassano del Grappa (Vicenza), ha fatto sesso e, per tale ragione, è stata punita: 1 giorno di sospensione per il ragazzo, 4 giorni per la ragazza. Tale vicenda mi fornisce lo spunto per soffermarmi sul tema dell'educazione sessuale nelle scuole, del  quale si è occupato il massimo organo giurisdizionale italiano, le Sezioni Unite Civili della Cassazione. 
Con l'ordinanza 5 febbraio 2008, n. 2656, esse hanno sancito il principio di diritto per cui nelle scuole italiane (persino le elementari) è possibile insegnare l'educazione sessuale anche se ciò contrasti con la volontà dei genitori e con i valori coltivati in famiglia. Non vale il ragionamento secondo il quale per insegnare in classe l'educazione sessuale - considerata da alcune madri e padri come espressione di immoralità e ateismo - serva il consenso dei genitori, così da tutelare l'esclusivo diritto della famiglia a educare la prole (ai sensi degli articoli 29 e 30 della Costituzione). Le Sezioni Unite della Suprema Corte, pur riconoscendo il suddetto diritto-dovere, hanno affermato che esso si debba compensare con altri diritti altrettanto costituzionalmente riconosciuti, come la libertà di insegnamento (art. 33) e l'obbligatorietà dell'istruzione inferiore (art. 34). Infatti, la nostra Carta fondamentale contempla un necessario bilanciamento e coordinamento tra diritti e doveri della famiglia e della scuola, i quali devono essere esercitati in un ambito di autonomia delle istituzioni scolastiche, così come riconosciuto anche dall'art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59. Non è un caso che il nono comma parli di "scelta libera e programmata di metodologie, strumenti e organizzazione di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche" e di "ogni iniziativa che sia espressione di libertà progettuale". Di conseguenza, per qualsiasi materia, gli istituti didattici di ogni ordine e grado possono liberamente scegliere programmi e metodi anche contrastanti con le convinzioni dei genitori, non godendo questi ultimi di alcun diritto di veto. Possono, così, interferire con la sfera giuridica di madri e padri, poichè inserire un insegnamento in un programma di studi (anche l'educazione sessuale) attiene alla podestà organizzatoria e all'autonomia di scelta riconosciuta alla scuola, indipendentemente dagli indirizzi educativi della famiglia. I giudici della Cassazione, infine, hanno voluto rammentare la funzione propria dell'istituzione scolastica: certamente istruire, ma anche formare ed educare, in un'ottica complementare a quella familiare.
Perchè, di fronte a un verdetto simile, l'insegnamento dell'educazione sessuale nelle aule italiane è decisamente deficitario e assai poco presente? Ha magari qualcosa a che vedere con la Chiesa cattolica?

lunedì 20 febbraio 2012

IL LATO B DELLA GRECIA

Voglio soffermarmi su un aspetto della Grecia di cui si tende a non parlare, soprattutto in questi tempi dove la crisi economica viene considerata giustificazione sufficiente per dimenticare i diritti umani degli ultimi, dei quali nessuno si interessa.  
Recentemente la sezione II Quater del Tar del Lazio (sentenza 15 febbraio 2012, n. 1551) ha confermato che lo Stato ellenico continua a non essere un Paese sicuro per chi, fuggendo da guerre, epidemie o persecuzioni, vi chieda asilo e protezione internazionale. Tale valutazione, derivante da numerosi e costanti rapporti dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, denota la presenza di leggi e prassi non solo non conformi alle norme europee e internazionali (considerando le preoccupanti difficoltà nell'accesso e nel godimento da parte dei richiedenti asilo di una vera protezione), ma che non garantiscono l'elementare rispetto dei diritti umani. Considerazioni fatte proprie persino dal Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, secondo cui in Grecia i richiedenti asilo sono costretti ad affrontare difficoltà enormi per accedere alla procedura di domanda, non sempre godono di garanzie basilari - come l'assistenza di un interprete e la consulenza legale - e rischiano di essere rispediti in Stati pericolosi per la loro incolumità. Nonostante Atene abbia ratificato e recepito le apposite direttive comunitarie, la situazione dei richiedenti asilo - pur migliorata - è grave e non paragonabile a quella di altri Stati europei. Basti considerare la condanna emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (sentenza del 21 gennaio 2011) nei confronti dello Stato greco (violazione degli articoli 3 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) per aver impartito ai richiedenti asilo trattamenti inumani e degradanti e negato loro il diritto a rivolgersi alle autorità nazionali, non avendo concesso effettive vie di ricorso per contestare il rifiuto delle domande. Sembra incredibile, ma chi chieda asilo in Grecia non viene adeguatamente tutelato nell'accesso alle misure di protezione internazionale e viene persino sottoposto a trattamenti degradanti per la propria dignità umana. Insomma, le condizioni di accoglienza non sono per nulla soddisfacenti. 
La conseguenza è che i governi dell'Unione europea non dovrebbero trasferire in terra ellenica i richiedenti asilo, ma esaminare loro stessi le domande anche quando non sarebbe di loro competenza, secondo il principio enunciato dalla Corte di Giustizia europea in un pronunciamento del 21 dicembre scorso. Non è d'altra parte un caso se alcuni Paesi dell'Ue (il Belgio, la Norvegia, la Gran Bretagna, l'Olanda e la Germania) abbiano sospeso i trasferimenti in Grecia, accollandosi la valutazione delle domande presentate da cittadini extracomunitari. 
L'Italia, invece, continua a trasferirvi cittadini extracomunitari in cerca di aiuto, tanto da aver disposto tale pratica anche il 2 aprile 2010 nei confronti di un cittadino afghano, Karim Ghorayshy, giunto nel nostro Paese proprio dalla Grecia. Il Viminale, delegando per competenza al governo di Atene la valutazione della domanda di protezione internazionale, aveva considerato quello Stato per ciò che non era allora e non è ancora oggi: un luogo sicuro e affidabile per i richiedenti asilo. Per fortuna Karim si è rivolto al Tar del Lazio, il cui collegio giudicante non ha potuto far altro che annullare il provvedimento del Ministero dell'Interno italiano. 
Per quanto riguarda, invece, i governanti ellenici, è sufficiente che riscoprano il loro passato, quando l'accoglienza dell'ospite straniero era considerata prassi indiscussa, sacra e inviolabile. La storia come maestra di vita.

GAETANO LIPARI, INFERMIERE MAFIOSO

Questa è la storia di Gaetano Lipari, infermiere mafioso che non si limitava a iniettare un farmaco antitumorale a Bernardo Provenzano e a provvedere ai relativi prelievi, ma era uno degli ultimi anelli della catena di scambio dei pizzini grazie ai quali il capo di Cosa Nostra comunicava con gli altri mafiosi. 
Dopo essere stato rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e condannato dal Tribunale di Palermo a 13 anni di carcere (sentenza del 5 ottobre 2009), Lipari è stato punito con una pena di 10 anni di reclusione dalla Corte d'Appello palermitana (sentenza del 13 dicembre 2010)  e dalla Cassazione (sezione VI penale, sentenza 15 febbraio 2012, n. 5909).
Interessanti alcuni aspetti sottolineati dalla Suprema Corte, come la differenza tra i reati di associazione mafiosa (il sopra ricordato art. 416-bis c.p.) e di favoreggiamento personale aggravato dall'aver agevolato l'attività mafiosa (art. 378 c.p., art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991 n. 203). Mentre l'associazione mafiosa è contestata a chi appartenga stabilmente e consapevolmente all'organizzazione criminale, con una condotta concretamente utile per l'intera associazione, il favoreggiamento personale aggravato è rivolto a chi, estraneo all'associazione mafiosa, si limiti a favorire qualche suo componente. L'infermiere Gaetano Lipari è stato sempre riconosciuto colpevole di 416-bis dal momento che le sue concrete attività avevano procurato un importante aiuto non a un mafioso qualsiasi, ma al massimo esponente di vertice di Cosa Nostra, con evidenti e immediate ripercussioni sull'attività di tutta la mafia siciliana. 
Ci si potrebbe, però, porre il seguente interrogativo: visto che Lipari aveva garantito a Bernardo Provenzano le cure necessarie al suo stato di salute, non doveva essere assolto per aver agito in tutela della salute e per aver fornito una doverosa e impellente assistenza sanitaria? La risposta sancita dai giudici è stata netta: no. Non solo infatti la somministrazione di cure antitumorali non è di pertinenza di un semplice infermiere, ma Lipari si era interessato al capo corleonese in maniera attiva e propulsiva attraverso i contatti e i canali propri della mafia. Per di più, oltre ad aver garantito a Provenzano il mantenimento della sua capacità gestionale nella difficile situazione della latitanza (con relativo vantaggio per l’intera Cosa Nostra), era stato utilizzato quale canale di comunicazione per far sì che Provenzano mantenesse i suoi collegamenti epistolari mediante scambio di pizzini ed era anche stato coinvolto in questioni diverse dallo stato di salute di Provenzano, come gli interventi per la risoluzione delle liti in seno al gruppo criminale. 
La perdurante e rilevante operatività di Gaetano Lipari non era quindi rimasta confinata in un rapporto puramente personalistico con il latitante Provenzano (difficilmente immaginabile, stante la caratura delinquenziale del personaggio), ma si era espressa in termini di consapevole cooperazione alla vita e all’attività di Cosa Nostra, di cui Lipari veniva comprensibilmente ritenuto partecipe.

domenica 19 febbraio 2012

LEZIONE GIURIDICA (E DI ITALIANO) A DANIELA SANTANCHE'

Tra il 15 e il 17 febbraio scorsi, Daniela Santanchè ha dato il meglio di sè su Twitter e Facebook, regalando a tutti noi frasi memorabili degne di una statista internazionale:

"Gli uomini delle forze dell'ordine anche se sbagliano non sono mai assassini";

"Le forze dell'ordine costrette ad usare le armi per contrastare chi sta violando in maniera violenta la legge possono sbagliare valutazione ma di sicuro non agiscono come chi vuole uccidere. Definirli assassini nel senso comune del termine, è un errore che piace a chi è sempre dalla parte dei banditi e non dalla parte dei tutori dell'ordine";

"La mia dichiarazione su twitter voleva commentare la vicenda attuale del vigile urbano di Milano e non invece quella più complicata del povero tifoso Sandri";

"Sempre con le forze dell'ordine: rischiano la pelle anche quando sbagliano";

"I cimiteri sono pieni di poliziotti e carabinieri che hanno sbagliato a non sparare prima dei criminali. Le carceri sono piene di poliziotti e carabinieri che hanno sbagliato a non sparare dopo i criminali. E' possibile che sbagliano sempre loro???".

Ora, non voglio impartire una lezione di lingua italiana a una ex parlamentare (avrebbe dovuto scrivere "E' possibile che sbaglino sempre loro???". Il congiuntivo non è un optional da richiedere solo ai cittadini extracomunitari). Tuttavia, in primis (è latino, onorevole, non si preoccupi) non si capisce come "la vicenda del vigile urbano di Milano" possa essere considerata "attuale" rispetto a "quella più complicata del povero tifoso Sandri", dato che il 14 febbraio la Cassazione ha definitivamente condannato l'agente di polizia stradale Luigi Spaccarotella (nomen omen; è sempre latino, onorevole, non faccia quella faccia) a 9 anni e 4 mesi di carcere per l'omicidio del "povero tifoso". Siccome poi la logica (questa sconosciuta) dovrebbe avere ancora un senso (anche se in Italia deve essere stata abolita per legge all'insaputa dei parlamentari e, soprattutto, dei cittadini), potrebbe l'ex onorevole Santanchè spiegare come si faccia a mandare in galera poliziotti o carabinieri che non abbiano sparato dopo il criminale di turno? Se non hanno sparato, per quale ragione sarebbero dietro le sbarre? Peraltro, che le carceri strabordino di uomini in divisa è certamente sintomo di un generoso atto di cortesia da parte dell'ex onorevole, avendo ella voluto fornire uno scoop internazionale pari solo al suo livello di conoscenze in materia di giustizia. Ma, si sa, dato che nel nostro Paese gli statisti non possono essere toccati, voglio limitarmi a spiegare alla Daniela nazionale come si sia conclusa (ha visto, ex onorevole, l'uso del congiuntivo non è poi così difficile) la vicenda processuale sulla morte di Gabriele Sandri. 
La rassicuro subito: si è trattato di un omicidio (gli stessi avvocati dell'imputato non si sono mai sognati di chiedere l'assoluzione del loro cliente, cercando solo di fargli ottenere il minimo della pena, qualificando i fatti come omicidio colposo e non volontario), pertanto - vocabolario di italiano alla mano, mi raccomando, non si confonda - Spaccarotella è un "assassino", esattamente come chiunque compia un omicidio, anche se appartenente alle forze dell'ordine. Inoltre, carissima Santanchè, vorrebbe spiegare (almeno al sottoscritto, che - come avrà di certo intuito - è un suo fan sfegatato, a cui sta molto a cuore la sua preparazione, anche linguistica) il concetto di assassino "nel senso comune del termine"? Perchè, esistono più sensi? Ebbene, a parte tali quisquilie, è giunto il momento di far comprendere all'ex onorevole Santanchè (non è più nè parlamentare, nè membro di governo, ma sono certo tornerà presto) quanto sancito dai magistrati sull'omicidio Sandri.
Come già ricordato, cinque giorni fa la Cassazione, confermando la sentenza della Prima Corte d'Assise d'Appello di Firenze (28 febbraio 2011, n. 24), ha condannato in via definitiva Luigi Spaccarotella - agente di polizia stradale, trentunenne all'epoca dei fatti - a 9 anni e 4 mesi di galera per omicidio volontario con dolo eventuale. In attesa delle motivazioni del verdetto della Suprema Corte, è possibile passare in rassegna quanto sancito in appello e convalidato nell'ultimo grado di giudizio.
Innanzitutto, i fatti.
Domenica 11 novembre 2007, mentre Spaccarotella si trovava presso l'area di servizio dell'autostrada A1 di Badia al Pino Ovest, sparò un colpo di pistola d'ordinanza all'indirizzo di un'auto con a bordo 5 persone (tra cui, Gabriele Sandri), mentre stava uscendo dall'area di servizio opposta di Badia al Pino Est. Sandri, colpito alla base del collo, morì. Come anticipato, che si sia trattato di omicidio nessuna delle parti processuali lo ha mai dubitato; la partita giudiziaria si è invece combattuta sulla qualificazione giuridica dei fatti: omicidio colposo per la difesa, omicidio volontario con dolo eventuale per la Procura. Mentre il 14 luglio 2009 in 1° grado la Corte d'Assise di Arezzo ha riconosciuto l'imputato colpevole di omicidio colposo aggravato dall'aver agito nonostante la previsione dell'evento, condannandolo a 6 anni di reclusione (sentenza 7 settembre 2009, n. 1), il 1° dicembre 2010 in 2° grado la Prima Corte d'Assise d'Appello di Firenze (sentenza 28 febbraio 2011, n. 24) ha riqualificato i fatti secondo l'originaria imputazione: omicidio volontario con dolo eventuale. Essendo il reato doloso più grave di quello colposo, la pena è salita a 9 anni e 4 mesi di carcere. 
Ma che cosa era successo con esattezza? 
Spaccarotella si era fermato, aveva puntato la pistola in avanti - con una o entrambe le mani - verso la contrapposta area di servizio (lo stesso imputato non ha escluso di aver esploso il colpo dopo essersi fermato a braccia tese) e con un secondo colpo di pistola (il primo l'aveva sparato in aria) aveva colpito prima la rete metallica posta tra le due corsie autostradali, poi il vetro del finestrino posteriore dell’auto, infine il collo di Gabriele Sandri. Lo sparo mortale non era stato involontario, quindi il poliziotto della Stradale non aveva esploso il colpo accidentalmente: la sua postura indicava chiaramente l’intento di mirare verso qualcosa nell’area di servizio, servendosi dell’arma in suo possesso. Non avevano avuto alcuna importanza né un'eventuale perdita di destrezza alla mano dovuta allo stress, nè un affanno da sforzo, fattori che avrebbero potuto far sì che, senza volerlo, l’imputato avesse azionato il grilletto. Spaccarotella non era coinvolto in un’operazione che mettesse a repentaglio la sua incolumità e non aveva esploso il colpo durante la corsa, ma dopo essersi fermato: aveva in tal modo avuto modo di riprendersi da un eventuale affanno. Per di più, ci vuole un’energia non indifferente per esplodere un secondo colpo e se anche Spaccarotella lo avesse sparato accidentalmente, avrebbe dovuto mantenere inserito il dito in posizione tale da poter azionare il grilletto. Entrambe le circostanze – unite all’esperienza nell’uso delle armi dell’imputato – hanno sbugiardato la tesi del gesto accidentale.
La mancanza di un movente “razionale” non esclude la volontarietà della condotta: essa invero può realizzarsi anche a causa di un movente che trascuri il rapporto tra rischi e benefici, dal momento che l’azione umana può benissimo essere ispirata dall’istinto o dall’impeto. Nel caso specifico, tuttavia, il motivo per cui l’agente Spaccarotella aveva sparato contro l’auto con a bordo anche Gabriele Sandri è ipotizzabile e ravvisabile nella volontà di impedire che si allontanasse.
Non si conosce con precisione l’entità della deviazione della traiettoria del colpo determinata dall’urto del proiettile contro la rete metallica, in quanto non è stato possibile accertare le esatte posizioni di Spaccarotella e dell’auto, nonché la sua velocità di marcia una volta partita. Nondimeno, tale deviazione non deve essere stata particolarmente incisiva, visto che l’impatto con la rete doveva essere stato di entità molto modesta (il proiettile avrebbe solo lesionato lo strato superficiale del filo metallico). E’ vero che senza l’impatto del proiettile contro la rete metallica, verosimilmente non sarebbero stati colpiti né Gabriele Sandri, né l’auto che lo ospitava, ma ciò non escludeva la non intenzionalità dello sparo. In realtà, il colpo era destinato a colpire il veicolo, essendo stato diretto contro l’auto. D’altronde, perché Spaccarotella avrebbe dovuto puntare la pistola all’altezza dell’auto, ma in direzione diversa da quella ove si trovava la macchina, trascurando qualsiasi effetto intimidatorio, ammesso dallo stesso imputato? In più, il colpo aveva colpito il veicolo malgrado la deviazione e ciò è compatibile con l’aver puntato la pistola verso il veicolo e con l’aver esploso il colpo al suo indirizzo, dopo che Spaccarotella aveva percepito l’ubicazione dell’auto. Così, l’agente di polizia aveva potuto puntare la pistola e direzionare il colpo verso il luogo in cui si trovava il veicolo.
Ricostruita in tal modo la vicenda, i giudici non hanno potuto far altro che decretare la sussistenza dell’omicidio volontario con dolo eventuale. Se anche fosse stato provato che le ruote erano visibili dalla posizione di Spaccarotella in modo da avergli fornito la possibilità di mirare a loro per fermare l’automobile, ciò non significherebbe che Spaccarotella fosse convinto di poter effettivamente colpire il bersaglio. Il poliziotto della Stradale, per la sua normale esperienza nell’uso delle armi, era senza dubbio consapevole che alla distanza a cui si trovava l’auto (almeno 50 metri) non ci sarebbe stata alcuna possibilità di attingere il bersaglio con apprezzabile precisione: la pistola che impugnava avrebbe potuto colpire con precisione solo a una distanza decisamente inferiore (circa 25 metri). Non è neppure accreditabile un errore di percezione della distanza: Spaccarotella, per il servizio che svolgeva, conosceva bene i luoghi quale quello in cui stava operando. Inoltre, la presenza della rete metallica davanti a sé avrebbe dovuto indurlo a intuire che il colpo sarebbe stato del tutto verosimilmente deviato per l’impatto del proiettile contro la rete stessa o che comunque questa era un’eventualità assai probabile, tale da poter far assumere qualsiasi traiettoria al proiettile esploso. Quindi, di fronte alla presenza della rete metallica, Spaccarotella non poteva supporre di aver una qualche probabilità di colpire con precisione le gomme dell’automobile; né si può ipotizzare che, pur avendo mirato al veicolo in movimento, avesse potuto contare sul fatto che il colpo, deviato dall’impatto con la rete, avrebbe evitato di colpire l’abitacolo dell’auto, mentre questa era in moto o stava per partire.
Bisogna di conseguenza concludere che l’esplosione del colpo di pistola non poteva che palesarsi allo stesso Spaccarotella soltanto come un irresponsabile azzardo. Del resto, anche i giudici di 1° grado avevano prospettato come ipotesi possibile quella per cui Spaccarotella avesse agito per una reazione quasi incontrollata, vedendo allontanarsi gli individui che voleva bloccare e identificare (in quanto responsabili di una pregressa aggressione), tale da averlo indotto a cercare di ottenere il risultato che si era prefissato a tutti i costi, anche uccidendo. Certo, i precedenti di vita di Spaccarotella non avrebbero portato a ipotizzare una decisione di sparare per uccidere o a costo di uccidere, trattandosi di persona tutt’altro che fanatica delle armi e che non aveva mai tenuto condotte imprudenti o rischiose per l’incolumità altrui. C’è stato pur sempre dolo eventuale, poiché tutti i dati obiettivi e oggettivi acquisiti sono, sul punto, inequivocabili: essi non potevano che rappresentare a Spaccarotella come probabile o niente affatto da escludere il verificarsi dell’evento in realtà accaduto. Ecco, pertanto, spiegata la ricorrenza del dolo eventuale:

- c’è dolo eventuale quando l'imputato conosca la possibilità che il fatto si realizzi concretamente e accetti il rischio (c'è quindi volizione);

- c’è invece colpa con previsione quando l'imputato conosca l'astratta possibilità che il fatto si realizzi, ma nutra una sicura fiducia che in concreto esso non si realizzi (non c'è quindi volizione). La colpa suppone negligenza, imprudenza o imperizia da parte del reo, il quale – sbagliando – abbia giudicato efficaci i fattori impeditivi dell’evento, a lui noti.

Nel caso di Spaccarotella, gli elementi considerati non potevano in alcun modo indurre in lui una sicura fiducia verso il non verificarsi di un evento letale, poi realizzatosi. Pertanto, Spaccarotella è stato ritenuto colpevole di omicidio volontario con dolo eventuale e condannato a 9 anni e 4 mesi di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all'interdizione legale durante l’esecuzione della pena (pur potendo continuare a esercitare la potestà di padre). La pena è stata così determinata: pena base 21 anni, che con le attenuanti generiche è diventata 14 anni e con il rito abbreviato 9 anni e 4 mesi. La pena base (nel minimo) e le attenuanti generiche (nel massimo) sono state motivate con la corretta antecedente condotta di poliziotto.

E’ tutto chiaro, ex onorevole Santanchè?

giovedì 16 febbraio 2012

PER ELUANA

Il 9 febbraio scorso è ricorso il 3° anniversario della morte di Eluana Englaro. Per ricordarla, propongo una lettura sintetica dei provvedimenti giudiziari che ne hanno risolto definitivamente la vicenda:

- Cassazione, sezione I civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748;
- Corte d'Appello di Milano, sezione I civile, decreto 9 luglio 2008;
- Corte Costituzionale, ordinanza 8 ottobre 2008, n. 334;
- Corte europea dei diritti dell'uomo, sezione II, decisione Ada Rossi e altri contro Italia, 16 dicembre 2008;
- Tar Lombardia, sezione III, sentenza 26 gennaio 2009, n. 214;
- Tribunale di Udine (Ufficio del Gip), decreto di archiviazione 11 gennaio 2010.

Qual era la situazione clinica di Eluana Englaro?

A seguito di un incidente stradale avvenuto il 18 gennaio 1992, Eluana Englaro – una giovane ragazza di 21 anni – aveva riportato un gravissimo trauma cranico-encefalico con lesioni irreparabili di alcuni tessuti cerebrali, a cui era seguito prima un coma profondo, poi uno stato vegetativo permanente con tetraplegia (impossibilità di movimento). Pur essendo ancora funzionanti le attività respiratorie, cardiovascolari, gastrointestinali e renali e pur persistendo i riflessi del tronco e spinali, Eluana era totalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, avendo perso qualsiasi percezione, cognizione, emozione e contatto con l'ambiente esterno. Non c’era in lei alcun segno né di attività psichica, né alcuna capacità di risposta agli stimoli visivi, uditivi, tattili e dolorifici. La sua sopravvivenza fisica era assicurata solo grazie all'alimentazione e all'idratazione artificiali somministrate attraverso un sondino naso gastrico.

Tale condizione era irreversibile?

L'irreversibilità di tale condizione è stata dimostrata sia sul piano clinico, sia sul piano dei più accreditati studi medici internazionali, secondo i quali, in un adulto, è permanente e irreversibile lo stato vegetativo di origine traumatica protrattosi oltre i 12 mesi (periodo temporale dal valore non assoluto, ma statistico, dopo il quale è comunque necessario prolungare il periodo di osservazione medica). Tale limite è necessario e sufficiente per prognosticare in maniera attendibile l'irreversibilità dello stato vegetativo. In presenza di uno stato vegetativo che perduri per più di un anno, è impossibile qualsiasi recupero (la probabilità di una ripresa è insignificante), quindi il paziente è inguaribile, poiché nessuna terapia o intervento sarebbero più in grado di modificare lo stato della patologia. Poiché la condizione di Eluana è rimasta invariata dal gennaio 1992 al febbraio 2009 – cioè per oltre 17 anni – non c’era alcuna possibilità che avesse miglioramenti. Eventuali opinioni contrarie sono minoritarie e assolutamente ininfluenti.
Basti rammentare che in Francia era stata disposta l'interruzione dell'alimentazione con sondino nasogastrico a una donna in stato vegetativo da 8 anni, mentre in Gran Bretagna si era intervenuti in tal senso dopo soli 3 anni.

Qual era lo status giuridico di Eluana?

Il 19 dicembre 1996 il Tribunale di Lecco aveva dichiarato Eluana “interdetta per assoluta incapacità” e ne aveva nominato tutore il padre, Beppino Englaro.

Beppino Englaro, in qualità di tutore della figlia, poteva intervenire sul trattamento sanitario di Eluana o avrebbe dovuto limitarsi a curarne i soli eventuali beni patrimoniali?

Qualsiasi paziente incapace può accettare o rifiutare i trattamenti prospettati attraverso un legale rappresentante, che esercita le proprie funzioni sostituendo l’interdetto in ordine al consenso o al rifiuto di una terapia medica. Quindi Beppino Englaro (in qualità di tutore) era legittimamente il soggetto interlocutore dei medici per decidere sui trattamenti sanitari della figlia.

Qual è stato il giudizio su Beppino Englaro?

Non ha assunto un potere incondizionato di disporre della salute di Eluana, né ha tratto alcuna valutazione personale sulla correttezza comportamentale della figlia. Ha agito nell'esclusivo interesse di Eluana, avendo ricostruito la sua volontà presunta e decidendo non al posto di o per, ma con la figlia. Inoltre, ha fornito una rappresentazione della personalità di Eluana lucida, precisa e sempre coerente, dandone un quadro quanto più verace possibile. Di fronte ai giudici, si è espresso in maniera convincente, con un atteggiamento pacato, fermo e preciso. Non è mai trapelata alcuna tendenza a “mettere in bocca” a Eluana parole sue: al contrario, ha più volte voluto precisare che determinate frasi ed espressioni da lui utilizzate erano proprio quelle che aveva pronunciato la figlia. Non aveva alcun interesse personale, poiché Eluana era nullatenente e figlia unica. Per non dubitare dell’affidabilità di Beppino Englaro, inoltre, basti citare una lettera scritta da Eluana ai genitori poco prima dell’incidente stradale in cui sarebbe rimasta coinvolta. In questo scritto, Eluana aveva voluto comunicare al padre e alla madre tutta la fiducia e il grande affetto che provava per loro, la sua riconoscenza per quello che essi erano come persone, per come avevano sempre dialogato con lei, per come le erano sempre stati vicini, per come l’avevano curata, educata, trattata e per quello che erano riusciti a fare di lei. Si può ben concludere che la scelta delineata dal padre non è stata espressione del giudizio del tutore, né è stata dettata o condizionata da interessi, secondi fini o dalla gravosità della situazione, ma semplicemente dall’affetto e dal rispetto verso la volontà della figlia e il suo modo di concepire la dignità e la vita, avendone ricostruito l’identità e la decisione ipotetica che avrebbe preso se fosse stata cosciente. Il padre è stato l’autentica voce della figlia.

Le tesi sulle convinzioni e la personalità di Eluana e la conseguente richiesta di interrompere l'alimentazione e l'idratazione artificiali sono state avanzate solo dal padre Beppino?

No, sono state pienamente confermate dalla curatrice speciale di Eluana, dalla madre Saturna e dalle amiche d’infanzia, le cui testimonianze sono tutte state attendibili, univoche ed efficaci.
La curatrice speciale, avv. Franca Alessio, era stata nominata a seguito dell’ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 della prima sezione civile della Cassazione, in cui la Suprema Corte aveva stabilito che, senza specifiche prove o disposizioni, il solo Beppino Englaro non possedeva un generale potere di rappresentanza degli interessi della figlia e che, di conseguenza, si imponeva un contraddittore imparziale con funzioni di controllo e per verificare la genuinità e trasparenza delle intenzioni e dei fini che avevano mosso Beppino Englaro, onde – eventualmente - depurarli da ogni rischio di interesse egoistico. L’imparzialità dell’attività svolta dall’avv. Alessio è stata dimostrata dall’aver svolto in prima persona indagini sul passato di Eluana, a seguito delle quali era giunta alle identiche tesi del padre-tutore.
Per quanto riguarda, invece, le testimonianze delle amiche di Eluana - indicative della personalità della giovane – sono state talmente attendibili, rilevanti, chiare, univoche, concordanti e ricche di dettagli da aver permesso di dedurre una volontà sicura di Eluana contraria alla prosecuzione dei trattamenti cui era sottoposta. Anche se si è trattato di valutazioni soggettive, provenivano da chi più da vicino aveva conosciuto Eluana, fin dai tempi dell’infanzia. E’proprio nel rapporto di amicizia fra coetanei - ancor più che nel rapporto con i genitori - che solitamente si esprime la maggior parte delle proprie convinzioni, ansie e angosce. Rilevante, inoltre, il fatto che fossero passati molti anni dal momento in cui Eluana si era espressa: solo l’immagine che si era formata nella memoria di chi le era stato vicino sarebbe potuta riuscire a sfuggire ai deleteri effetti del tempo e del distacco.

Le testimonianze di cui sopra hanno ricostruito una sorta di testamento biologico di Eluana?

No, esse hanno solo consentito di accertare che la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre tutore rifletteva appieno gli orientamenti della figlia. Si sono, quindi, limitate a indicare la personalità di Eluana e il suo modo di concepire la dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici.

Qual era la personalità di Eluana?

Indipendente, ribelle, irremovibile nelle proprie convinzioni ed estranea a qualsiasi compromesso o ipocrisia. Eluana aveva un genuino e spiccato spirito di libertà insofferente alle regole, agli schemi e a qualunque imposizione. Inoltre, ha sempre avuto una concezione di “vita degna” solo se vissuta con pienezza di facoltà motorie e psichiche. Proprio il suo grande amore per la vita esprimeva l’idea per cui “vita” era solo quella che poteva essere vissuta muovendosi in libertà, esprimendo una volontà cosciente, interagendo con il mondo attraverso le proprie facoltà intellettive, percettive e cognitive. Si tratta di una concezione personale non rara e non nuova, essendo anzi un antico portato della medicina:
“Solo dal cervello derivano le gioie, i piaceri, la serenità, il riso, lo scherzo, le tristezze, i dolori, l’avvilimento e il pianto. Per merito suo acquisiamo saggezza e conoscenza, e vediamo, sentiamo, giudichiamo, impariamo cos’è giusto e cos’è sbagliato, cos’ è dolce e cos’ è amaro” (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 400 circa a.C.).

Che cosa sono l’idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino naso gastrico?

La comunità scientifica internazionale e la giurisprudenza italiana sono concordi nel qualificare l’alimentazione e l’idratazione artificiali come un trattamento sanitario che sottende un sapere scientifico, praticabile solo da medici grazie all’uso di particolari procedure tecnologiche, con cui al paziente vengono somministrati alcuni composti chimici.

L'alimentazione e l'idratazione forzata mediante sondino nasogastrico sono una forma di accanimento terapeutico?

Non costituiscono in sé una forma di accanimento terapeutico; rappresentano, invece, un presidio proporzionato volto a mantenere il soffio vitale. 

I giudici hanno ordinato il distacco del sondino naso gastrico?

No, hanno solo controllato la legittimità di una scelta nell'interesse di Eluana e – in riferimento al caso specifico – hanno autorizzato la scelta di Beppino Englaro di interrompere il trattamento sanitario cui era sottoposta la figlia.

Perché i giudici hanno accolto la richiesta di Beppino Englaro?

In base a un rigoroso apprezzamento clinico, la condizione di stato vegetativo di Eluana era irreversibile, per cui non c’era alcun fondamento medico che lasciasse supporre che avesse la benché minima possibilità di un recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno. Inoltre, in base a prove chiare, concordanti e convincenti in merito alla personalità, allo stile di vita e ai convincimenti etici, religiosi, culturali, filosofici di Eluana, l’istanza sollevata dal padre-tutore era realmente espressiva della voce di Eluana e della sua volontà presunta. Eluana non avrebbe mai voluto - nemmeno per un breve periodo, figurarsi per 17 anni - essere un mero soggetto passivo di un trattamento finalizzato al mero sostegno artificiale per la sua sopravvivenza biologica, perché considerava radicalmente incompatibile con le sue concezioni di vita uno stato patologico di totale incapacità motoria e di assoluta immobilità e incoscienza che le impedisse di muoversi, sentire e pensare, rimanendo passivamente come un "oggetto" in balìa dell’altrui volontà. Eluana avrebbe quindi ritenuto il suo trattamento di sostegno vitale come una violenza e una lesione della propria dignità.
La straordinaria durata dello stato vegetativo permanente e l’altrettanto straordinaria tensione del carattere di Eluana verso la libertà, nonché l'inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale e irrecuperabile delle proprie facoltà sono fattori che dovevano prevalere sullnecessità di tutelare la vita biologica in sé. L’autorizzazione dei giudici non è stato altro che un estremo gesto di rispetto dell'autonomia di Eluana.

E’ giusto che la magistratura si sia pronunciata su un caso così delicato?

L'autorità giudiziaria si è posta il problema dei limiti dei propri poteri in tale delicatissimo ambito e ha concluso che doveva affrontare e dare risposta – in un senso o nell’altro – alla domanda di Beppino. La magistratura si è quindi fatta carico di una domanda (aveva il dovere di farlo), dandone una risposta: la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana era illegittima poiché contrastava con la sua volontà presunta. Anche se le pronunce dei giudici possono non convincere o suscitare critiche, devono essere rispettate a tutti i livelli, poiché provengono dalla sede propria e imprescindibile in cui la società affronta e risolve le questioni sui diritti che sorgono al proprio interno. 

Non si può supporre che dopo 17 anni Eluana avrebbe potuto cambiare idea?

Eluana possedeva una concezione della vita talmente radicata da non apparire minimamente soggetta a ipotetici ripensamenti che potessero renderla inattuale solo per effetto del trascorrere del tempo e delle esperienze. Eluana è sempre stata determinata, ferma e irremovibile nelle sue opinioni, persino quelle su un tema delicato come il confine tra vita e morte.

Ha importanza la formazione religiosa di Eluana?

No, in quanto Eluana era insofferente verso qualunque imposizione esterna (anche religiosa), per cui l'orientamento della Chiesa cattolica non le avrebbe di certo fatto cambiare idea. Inoltre, Eluana non è mai stata una cattolica praticante. Al di là della sua intima religiosità, ha sempre criticato qualunque richiesta istituzionale di adesione a pratiche o ideologie basate sul principio di autorità. Tuttavia, anche se Eluana avesse avuto una profonda formazione cattolica, ciò non sarebbe stato in contrasto con la sua personalità indipendente e con le sue convinzioni. D’altronde ciascuno, anche se cattolico, è libero di condividere o meno, di applicare o meno le tesi ecclesiastiche, soprattutto in uno Stato laico che tutela la libertà di coscienza. In realtà, il profondo sentimento religioso di Eluana si estrinsecava in una pietà empatica verso le tragedie umane, nella speranza dell’esistenza di una divinità che le risolvesse.

I giudici si sono intromessi nel ruolo legislativo del Parlamento? Hanno emanato provvedimenti politici?

E’ quanto sostenuto dalla Camera dei Deputati e dal Senato con due distinti ricorsi depositati il 17 settembre 2008 presso la Corte Costituzionale, con i quali avevano sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro la Cassazione e la Corte d'Appello di Milano. La Camera e il Senato avevano accusato i giudici di aver usato la loro funzione giurisdizionale per produrre una legge nuova e fondata su presupposti estranei all'ordinamento italiano, la quale, colmando il vuoto normativo sul testamento biologico, aveva introdotto l'autorizzazione a cessare di vivere dei pazienti in stato vegetativo permanente. I giudici avrebbero insomma intenzionalmente usurpato e menomato le funzioni del Parlamento, esercitandone le attribuzioni. Non solo. Le Camere, entrando nel merito, avevano ritenuto che nessuno avrebbe potuto disporre del diritto inviolabile della vita altrui, che la scienza sollevava questioni etico-giuridiche controverse, che l'alimentazione e l'idratazione artificiali non erano una terapia, che la natura dello stato vegetativo permanente era incerta e che eseguire i provvedimenti dei giudici avrebbe significato compiere non solo illegali pratiche eugenetiche per la selezione della specie umana, ma anche  i reati di omicidio volontario, omicidio del consenziente e aiuto al suicidio. Infine, la Camere avevano scritto come si sarebbero dovuti comportare i magistrati per giungere al risultato cui erano giunti: avrebbero dovuto sollevare presso la Consulta una questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli del codice civile, ma, non avendolo fatto, non avrebbero potuto accogliere la domanda posta loro dal tutore di Eluana, evitando di pronunciarsi per infondatezza della pretesa.
La Consulta non ha neppure ritenuto ammissibili i ricorsi, poichè non sussistevano i requisiti per instaurare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Secondo la Corte Costituzionale, solo la magistratura è legittimata e competente a risolvere definitivamente un conflitto di cui sia stata investita, esprimendo una decisione. Nel caso concreto, la Cassazione – ha proseguito la Consulta - aveva sancito un principio di diritto cui la Corte d'Appello di Milano si era attenuta nella sua applicazione. Tali corti giudiziarie non si erano quindi fatte scudo dei loro provvedimenti per esercitare il potere legislativo del Parlamento, di cui non hanno minimamente menomato le attribuzioni. Infatti, i provvedimenti della Cassazione e della Corte d'Appello di Milano possedevano tutte le caratteristiche proprie degli atti giurisdizionali. Invece con i loro ricorsi, sia la Camera, sia il Senato avevano avanzato numerose critiche al modo in cui la Cassazione prima e la Corte d'Appello milanese poi avevano selezionato, utilizzato e interpretato le norme per la decisione, prospettando un iter logico-giuridico alternativo a quello dei giudici. Quindi, non solo non è vero che la magistratura ha assunto il ruolo della politica, ma, anzi, è vero l’esatto contrario: è stata la politica a ergersi a giudice.

La Giunta regionale lombarda, guidata da Roberto Formigoni, ha impedito al personale di ogni struttura del Servizio Sanitario di eseguire i provvedimenti giudiziari. Era legale l’azione della Regione?

Poiché i verdetti della Cassazione e della Corte d’appello di Milano potevano essere revocati solo dal giudice tutelare su istanza di Beppino Englaro o della curatrice speciale, i loro verdetti erano definitivi. La Regione Lombardia, avendo disconosciuto tale effetto, si è posta in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano, con lo Stato di diritto e con il principio di legalità. Aver rifiutato il ricovero ospedaliero a Eluana solo perché aveva esercitato il suo diritto fondamentale di interrompere un trattamento sanitario, ha infatti limitato tale diritto e violato i principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza.
Lo stesso discorso vale anche per una nota del Ministro della Salute Maurizio Sacconi, datata 16 dicembre 2008, inidonea, nonostante le intenzioni, a intaccare il quadro di diritto ricostruito dai provvedimenti giudiziari. Il principio di non discriminazione del disabile, richiamato da Sacconi, non contraddiceva il diritto di Eluana a rifiutare le terapie; anzi, se fosse stata seguita l’impostazione ministeriale - cioè non riconoscere al disabile incapace tale diritto – si sarebbe proprio in quel caso discriminato il paziente nell’esercizio di una libertà costituzionale garantitagli.

Beppino Englaro e i medici che hanno interrotto le terapie di Eluana sono assassini? Eluana è stata uccisa?

Pur essendo stati iscritti sul registro degli indagati dalla Procura di Udine per concorso aggravato in omicidio volontario aggravato, Beppino Englaro e 13 medici e paramedici non sono assassini. Lo ha sancito il Gip di Udine, in accoglimento della richiesta di archiviazione del Pm.
Beppino Englaro e il personale sanitario che ha interrotto il trattamento non hanno commesso alcun reato perché hanno solo dato seguito a un’autorizzazione definitivamente concessa loro dai giudici (che quindi doveva essere eseguita), nell’esercizio di un diritto legalmente riconosciuto e attribuito. In più, il decesso di Eluana non era stato né di natura traumatica, né tossica, perché le pratiche seguite erano state esattamente quelle autorizzate dai giudici, a cui aveva fatto seguito un protocollo operativo predisposto e rispettato da Beppino Englaro e dall’equipe assistenziale, in un prudente e scrupoloso intento di massima trasparenza. Eluana era morta in seguito ad alcune complicazioni dell’apparato cardiovascolare, dovute all’estrema vulnerabilità del suo corpo.

Si è trattato di eutanasia, suicidio assistito o aiuto al suicidio?

Rifiutare vitali terapie medico-chirurgiche anche quando ciò conduca alla morte, non è eutanasia. Essa infatti consiste in un comportamento che intende appositamente e causalmente abbreviare la vita, provocando positivamente la morte, mentre la vicenda Englaro ha riguardato il diritto di esprimere un legittimo rifiuto in base a una scelta insindacabile del malato, per cui la malattia segua il suo corso naturale fino all’inesorabile conclusione. Si è trattato del riconoscimento dell’inesistenza di un dovere individuale alla salute, per cui il paziente sia obbligato ad accettare terapie anche vitali.
Imporre un trattamento medico senza il quale il paziente possa morire, ma da questi sia stato rifiutato in maniera libera e informata, viola la sua integrità fisica e il suo diritto alla vita privata. Il diritto di scegliere di morire rifiutando un trattamento sanitario non si fonda su un diritto ad accelerare la morte, ma sul diritto all'integrità del corpo e a non subire interventi invasivi indesiderati. Poter morire, assecondando un esito naturale.

I tutori delle persone in stato vegetativo permanente e le relative associazioni possono lamentare, in merito al caso Englaro, violazione del diritto europeo e internazionale?

Alla fine del 2008 sei cittadini italiani (persone in stato vegetativo rappresentate dai loro rispettivi tutori) e sette associazioni italiane di parenti e amici di persone gravemente disabili (con medici, psicologi, avvocati al seguito) avevano presentato 8 ricorsi presso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. In essi - affermando che i provvedimenti dei giudici italiani sul caso Englaro colpivano eticamente, psicologicamente, socialmente e giuridicamente le persone affette da gravi lesioni cerebrali – avevano accusato i magistrati italiani di aver provocato danni gravi e ingiusti, di aver gravemente discriminato le persone disabili, di averle lasciate alla mercè di terzi che potevano liberamente decidere della loro vita e di aver, quindi, violato la loro dignità umana. Secondo i ricorrenti, quindi, la Cassazione e la Corte d’Appello di Milano avevano violato gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani (diritto alla vita e divieto di tortura), l’art. 6 della medesima Convenzione per l’iniquità che aveva caratterizzato il processo italiano (i giudici avrebbero dovuto avviare una nuova indagine sull’irreversibilità dello stato vegetativo di Eluana), gli articoli 5, 6 e 7 della Convenzione di Oviedo (consenso libero e informato e tutela delle persone incapaci o con disturbi mentali) e infine l’art. 25 della Convenzione Onu sui diritti dei disabili (diritto alla salute).
Tuttavia, la Corte di Strasburgo ha dichiarato irricevibili tutti i ricorsi. Non solo la Corte ha ritenuto assolutamente equa la procedura tenuta dai giudici italiani, ma ha escluso che i ricorrenti potessero essere considerati vittime dirette o potenziali di una violazione della Convenzione europea, non avendo alcun legame con la famiglia Englaro, né avendo agito per conto di Eluana. Inoltre, non erano stati direttamente coinvolti nel processo Englaro, che ha invece riguardato solo le parti costituite in giudizio e solo i fatti oggetto di giudizio.
Per quanto riguarda i singoli cittadini italiani, pur avendo essi espresso – attraverso i loro legali rappresentanti – una chiara opposizione a ogni procedura di interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, hanno ignorato che la Corte Appello Milano non aveva imposto un qualsivoglia ordine di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale di Eluana, ma aveva solo dichiarato legittima la richiesta di autorizzazione del padre-tutore. Inoltre, non avendo fornito alcuna prova ragionevole e convincente sulla possibilità che avessero personalmente subìto una violazione nei loro diritti, hanno avanzato solo semplici sospetti o congetture. Le decisioni di cui essi temevano gli effetti sono state adottate dalla Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano con riguardo a circostanze concrete e particolari, relative a una terza persona: se i giudici italiani fossero stati chiamati a pronunciarsi sul loro caso, avrebbero considerato i pareri medici e la loro volontà in difesa del diritto di vivere, secondo gli stessi criteri adottati per Eluana Englaro.
Per quanto riguarda, invece, le associazioni italiane, non solo non sono state direttamente toccate dai provvedimenti della giustizia italiana, ma hanno potuto continuare a perseguire i loro obiettivi, visto che il decreto della Corte d’Appello di Milano non aveva alcuna ricaduta sulle loro attività.
Infine, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha statuito il seguente principio di diritto: imporre un trattamento medico senza il consenso del tutore di un paziente giuridicamente incapace è un’offesa all’integrità fisica dell’interessato che può compromettere diritti protetti.

Quale massima bisogna trarre dal caso Englaro?

Chi versa in stato vegetativo permanente è persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dai diritti alla vita e alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. L’estrema tragicità di tale stato - che nulla toglie alla dignità di essere umano di chi ne è vittima - non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale che il Servizio sanitario deve continuare a offrire e che il malato ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la medicina è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive.
Tuttavia - accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest'ultima scelta. All'individuo che, prima di cadere nello stato di totale incoscienza tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato - espressamente o anche attraverso i propri convincimenti, stili di vita e valori di riferimento - l'inaccettabilità per sé dell'idea di un corpo destinato con le terapie mediche a sopravvivere alla mente, l'ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso un rappresentante legale.