giovedì 29 marzo 2012

QUANDO DEVE PAGARE IL SERVIZIO 
SANITARIO NAZIONALE

Il caso che voglio raccontare quest'oggi potrebbe interessare numerose famiglie italiane.
La vicenda riguarda una donna ricoverata perchè gravemente affetta dal morbo di Alzheimer. Ella necessita di terapie continue e di un monitoraggio quotidiano per l'accertamento delle condizioni di salute e la definizione della cura, considerando che ha perso la capacità di deglutire (motivo per cui è stato necessario nutrirla per mezzo di un sondino naso-gastrico), subìto episodi di fibrillazione atriale e compromesso le proprie condizioni polmonari (senza dimenticare la necessità di prevenire le piaghe da decubito).
A chi spettano le spese? 
Secondo la Corte d'Appello di Venezia (sentenza 11 novembre 2005, n. 1775) e la Cassazione (sezione I civile - sentenza 22 marzo 2012, n. 4558), al Servizio Sanitario Nazionale.
Infatti, non possono essere scisse le prestazioni sanitarie da quelle socio-assistenziali, dal momento che le attività sanitarie (quelle che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purchè dirette immediatamente e in via prevalente a tutelare la salute del paziente e si estrinsechino in interventi a sostegno dell'attività sanitaria di cura e/o riabilitazione fisica e psichica) sono connesse con quelle assistenziali, quindi sono interamente a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Ciò a seguito del diritto inviolabile alla salute - garantito dalla Costituzione come ambito intoccabile della dignità umana - e del principio secondo cui lo Stato deve erogare gratuitamente le prestazioni sanitarie entro definiti livelli di assistenza. Come detto, la paziente in questione (che soffre di morbo di Alzheimer) ha bisogno di ricevere ricorrenti terapie, cioè trattamenti prevalentemente sanitari, a fronte dei quali le opere assistenziali sono marginali e accessorie. 
Del resto, è dal 1993 che la Cassazione ha sancito il principio di diritto per il quale se vengano erogate prestazioni sia assistenziali, sia sanitarie, tale attività va considerata comunque di rilievo sanitario, pertanto di esclusiva competenza del Servizio Sanitario Nazionale. Insomma, qualora sussista una stretta correlazione tra opere sanitarie e assistenziali con netta prevalenza delle prime, è competente lo Stato e il cittadino non deve sborsare un solo euro.

martedì 27 marzo 2012

RAZZISMI PADANI

Che la Lega Nord abbia "una modalità di fare politica che si caratterizza per la sistematica destrutturazione dei simboli comuni, primi fra tutti la lingua e il linguaggio (vedi dileggio del tricolore, invettive sprezzanti contro gli extracomunitari, uso della scurrilità per sottolineare la forza delle proprie ragioni) e che si alimenta della risonanza data a scelte e comportamenti spesso platealmente provocatori e del conseguente vittimismo per la ritenuta incomprensione delle ragioni di fondo" è un'opinione diffusa, condivisa persino da un Tribunale in sede civile. Le parole usate, infatti, sono state messe nero su bianco dal giudice Maria Grazia Cassia del palazzo di giustizia di Brescia in un'ordinanza del 31 gennaio scorso.
Vittoria Romana Gandossi (segretaria della Cgil di Adro) - insieme ad Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione) e alla Fondazione Guido Piccini per i diritti dell'uomo onlus - aveva promosso un'azione civile contro la Lega Nord e la sua sezione cittadina di Adro per chiedere il risarcimento dei danni a seguito di una discriminazione subìta. 
Ora, poichè l'unico soggetto giuridico cui va imputato il comportamento discriminatorio è la sezione comunale di Adro, non possono essere considerati giuridicamente responsabili gli altri organi del partito. Infatti non solo non esiste un rapporto tale da poter giustificare una responsabilità delle sezioni provinciali, regionali o nazionali rispetto alle azioni della sezione comunale, ma l'eventuale responsabilità politica dei vertici leghisti verso il comportamento delle camicie verdi di Adro non assume alcuna rilevanza giuridica (anche se lo Statuto del partito padano demanda il controllo ad alcuni organi del movimento, si tratta pur sempre di controllo meramente politico). Del resto, i vertici leghisti non sarebbero potuti intervenire sulla sezione di Adro prima del procedimento civile, visto che sono stati informati dei fatti soltanto con la notifica del ricorso. Escluso dunque dal giudizio il partito, il Tribunale ha condannato Maria Grazia Cassia, Asgi e Fondazione Piccini onlus a rifondere alla Lega Nord le spese legali (2.500 euro).
Data tale premessa e individuato l'unico responsabile (la sezione di Adro della Lega Nord), il giudice è passato all'esposizione dei fatti. Sulla vetrina della sede partitica - situata in centro paese - era stato affisso un manifesto dai seguenti contenuti:
"Cara la me Romana, sono tutti bravi a fare i culattoni con il culo degli altri (tipico dei comunisti: quello che è tuo è tuo, quello che è mio è mio). Portatelo a casa tua il beduino sfrattato (non paga l'affitto da due anni). Noi nella casa del Comune ci mettiamo gente anziana e bisognosa, ma di Adro. Prima i nostri, poi anche gli altri! W la Lega Nord! W Bossi!".
Sono ben note a livello nazionale l'asprezza del dibattito locale sul trattamento da riservare ai residenti extracomunitari e sulle scelte dell'amministrazione comunale della cittadina bresciana ispirate all'ideologia leghista, secondo cui "prima i nostri, poi gli altri". La sola "colpa" di Vittoria Romana Gandossi era proprio stata quella di aver osteggiato tali scelte, essendosi schierata dalla parte di un cittadino extracomunitario e venendo perciò additata come un ostacolo all'applicazione del suddetto principio.  
Il Tribunale ha quindi ritenuto evidente la portata diffamatoria e la valenza razzista del messaggio, stante il disprezzo e l'intolleranza palesate sia verso il segretario della Cgil cittadina, sia verso il cittadino extracomunitario chiamato - per chiara scelta denigratoria - "beduino". Tale squallido comportamento razzista e molesto era stato attuato - sempre secondo il giudice - allo scopo di violare la dignità personale e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo, sulla spinta di un profondo disprezzo verso chiunque venga visto come usurpatore di alcuni diritti (l'odio leghista era stato rivolto a una sindacalista che difendeva le posizioni di un extracomunitario, identificato come tale e non come persona morosa).
Anche se il cartello incriminato era poi stato rimosso, il giudice ha ordinato ai leghisti di Adro di astenersi da ulteriori atteggiamenti molesti, discriminatori e razzisti e li ha condannati a risarcire ai tre ricorrenti non soltanto i danni morali (2.500 euro ciascuno), bensì anche a rifondere loro le spese di lite (3.800 euro totali).
D'altronde, si sa: il razzismo paga.

P.s. Il basso livello culturale degli esponenti leghisti è confermato dal fatto che il segretario della sezione di Adro abbia difeso il suo movimento con una lettera - prodotta in udienza il 25 febbraio 2012 - scritta in una "forma sgrammaticata"
Lega ignorantona, il giudice non perdona!    
   

lunedì 26 marzo 2012

LA SCONFITTA DEGLI OMOFOBI

Non solo la razionalità, anche il diritto sta rifilando una serie di pesanti batoste agli omofobi di casa nostra.
L'ultima in ordine di tempo proviene dalla prima sezione civile della Cassazione, la quale nella sentenza 15 marzo 2012, n. 4184 ha per la prima volta risposto a due interrogativi:

1) due cittadini italiani omosessuali sposatisi all'estero hanno diritto alla trascrizione del loro atto di matrimonio nei registri dello stato civile italiano?
2) l'Italia riconosce e garantisce a persone omosessuali il diritto fondamentale di sposarsi?

La Suprema Corte ha fornito risposta negativa a entrambe le domande.

1) I matrimoni civili di italiani celebrati all'estero sono validi anche nel nostro Paese se abbiano effetti civili nell'ordinamento dello Stato estero e sussistano i requisiti previsti dalla legge italiana, tra i quali la diversità di sesso tra i nubendi. Essa è considerata prerogativa minima indispensabile per l'esistenza stessa del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante, pur non essendo espressamente richiesta nè dalla Costituzione, nè dal codice civile, nè dalle leggi in tema. Si tratta infatti di una conclusione implicita, visto che gli articoli 107 c.c. e 5 della L. 898/70 parlano di "marito" e "moglie" o di "donna" e "marito", secondo una consolidata e ultramillenaria nozione di sposalizio, fatta di antichissime tradizioni culturali, prima ancora che giuridiche (come, ad esempio, la giurisdizione classica romana). Esse trovano recente conferma nell'art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (approvata dall'Assemblea Generale dell'Onu il 10 dicembre 1948) e nell'art. 23 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966), i quali prevedono il diritto di sposarsi e fondare una famiglia per "uomini" e "donne", nonostante all'epoca la condizione omosessuale fosse conosciuta. Pertanto, avendo l'ordinamento giuridico italiano sempre conosciuto - anche tuttora - il solo matrimonio tra uomo e donna, le nozze gay non sono nulle, ma inesistenti, poichè - secondo un'elaborazione di origine medievale - non possiedono il requisito basilare per la loro identificabilità.
Ergo, l'unico sposalizio svoltosi all'estero riconosciuto dal nostro Paese è quello tra uomo e donna.

2) Avendo richiamato e recepito concetti, nozioni e istituti giuridici mutuati dalle leggi vigenti negli anni '40 del '900 (che - elaborati nelle varie branche del diritto - hanno acquisito valore costituzionale), la Costituzione non riconosce agli omosessuali il diritto di sposarsi. 

Tuttavia, da tempo la realtà europea ed extraeuropea mostra:

- sul piano sociale, il diffuso fenomeno di omosessuali stabilmente conviventi;
- sul piano giuridico, da una parte il riconoscimento ad essi - sia da Paesi membri dell'Ue, sia da Paesi europei ed extraeuropei - del diritto al matrimonio o del più limitato diritto alla formalizzazione delle loro stabili convivenze, con i conseguenti diritti; dall'altra un'interpretazione profondamente evolutiva dell'art. 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (diritto al matrimonio) e dell'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (diritto di sposarsi e di costituire una famiglia).

A questo punto, la Cassazione ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale 15 aprile 2010, n. 138, secondo la quale:

- le stabili convivenze gay sono "formazioni sociali" ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, pertanto i membri della coppia omosessuale hanno il diritto fondamentale di vivere liberamente la loro condizione di coppia (derivante anche dall'art. 3 della Costituzione, che, assicurando la pari dignità sociale e l'uguaglianza di tutti senza distinzioni di sesso, vieta qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e qualsiasi discriminazione fondata sull'identità o sull'orientamento sessuale);
- fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto inviolabile, qualsiasi formalizzazione giuridica delle unioni gay richiede necessariamente una disciplina generale che regoli diritti e doveri. Pertanto, spetta alla piena discrezionalità del Parlamento italiano trovare le forme per garantire e riconoscere le unioni omosessuali, attraverso la concessione del matrimonio o di altre forme giuridiche di regolamentazione;
- la Consulta stessa può intervenire per tutelare situazioni specifiche e particolari, dove potrebbe essere doveroso riconoscere un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia sposata e quella della coppia gay.

Da ciò la Cassazione ha dedotto che:

- l'art. 2 della Costituzione non riconosce agli omosessuali il diritto di sposarsi e non vincola il Parlamento a garantire il matrimonio quale unica forma esclusiva del riconoscimento giuridico delle coppie gay;
- il diritto fondamentale di vivere in libertà la propria condizione di coppia gay (derivante dagli articoli 2 e 3 Costituzione) comporta che i suoi componenti abbiano il diritto di chiedere alla Corte Costituzionale lo stesso trattamento giuridico riservato alle coppie sposate, al fine di veder tutelate situazioni precise e particolari (ad esempio, la successione nella titolarità del contratto di locazione di un immobile o l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica).

Poi, i magistrati hanno richiamato un'altra sentenza, emessa il 24 giugno 2010 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui:

- negare il matrimonio agli omosessuali non comporta una violazione degli articoli 12 e 14, in relazione all'art. 8, della Convenzione europea (ovvero il diritto a sposarsi e il divieto di discriminazione, legato al diritto a veder rispettata la propria vita privata e familiare). Infatti, essa è stata adottata in un periodo storico (il 1950) durante il quale il matrimonio era inteso nel solo senso tradizionale (unione di un uomo e di una donna);
- anche se l'art. 12 non concede agli omosessuali il diritto di sposarsi, l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue - il quale riconosce i diritti di matrimonio e formazione di una famiglia - copre la sfera dell'art. 12 e ha un'applicazione più ampia, potendo essere esteso ad altre forme di sposalizio eventualmente istituite dalle leggi nazionali. Esso disciplina i casi ove le normative statali riconoscano modi diversi dal matrimonio per costituire una famiglia e non vieta assolutamente la concessione delle nozze alla coppie omosessuali, ma lascia alle leggi di ogni singolo Paese membro la libera facoltà di prevederla. Insomma, ogni Stato deve garantire i diritti sanciti dall'Unione europea, ma può scegliere in massima libertà se garantire o meno il diritto al matrimonio gay, senza l'obbligo di prevederlo normativamente. Questo è dimostrato dalla notevole differenza tra i vari ordinamenti nazionali, che spaziano dalla previsione delle nozze tra omosessuali fino al loro esplicito divieto. Quindi - anche se non c'è alcuna norma esplicita che preveda che i singoli Paesi debbano facilitare il matrimonio gay - non esiste alcun ostacolo in tal senso. Anzi, in base all'art. 9 il diritto a sposarsi non è più limitato alle coppie eterosessuali;
- il matrimonio ha subìto importanti cambiamenti sociali da quando è stata adottata la Convenzione europea, tanto è vero che - pur in assenza di un consenso generale europeo - alcuni Stati membri della Convenzione permettono le nozze tra omosessuali;
- l'art. 9 della Carta dei diritti Ue (verso cui l'art. 12 della Convenzione è subordinato) ha volutamente evitato il riferimento a uomini e donne, dal momento che comprende un campo di applicazione più vasto;
- la libertà lasciata a ciascun Paese di permettere o negare le nozze gay si giustifica dall'assunto per cui il matrimonio gode di connotazioni sociali, culturali e giuridiche radicate in maniera diversa e spesso profonda da una società a un'altra. La Corte europea quindi non si può sostituire all'opinione delle autorità nazionali, le quali sono in una posizione migliore per valutare le esigenze dei propri cittadini;
- data l'evoluzione sociale e giuridica, la relazione di una coppia gay convivente con uno stabile rapporto di fatto costituisce una famiglia, poichè tale nozione non si limita alle relazioni matrimoniali, ma può comprendere altri legami di fatto tra partner conviventi non sposati (eterosessuali o omosessuali);
- dal 2001 si assiste a una crescente tendenza in Europa verso un riconoscimento giuridico di unioni di fatto stabili tra omosessuali, tanto che sono numerosi i Paesi membri che - a causa di una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali verso le coppie gay - hanno concesso un riconoscimento giuridico a tali unioni;
- esattamente come qualsiasi coppia eterosessuale, anche la coppia gay può godere della vita familiare ai sensi dell'art. 8 della Convenzione europea;
- le coppie gay hanno il diritto di sposarsi e fondare una famiglia, anche se garantirlo è riservato alla libera scelta dei Parlamenti nazionali, i quali non sono obbligati a concedere agli omosessuali il matrimonio. Bisogna dunque tenere separati il riconoscimento e la garanzia del diritto di sposarsi: il diritto comunitario riconosce agli omosessuali i diritti di sposalizio e di fondazione di una famiglia, ma essi sono garantiti soltanto secondo le leggi nazionali in materia.

Dal momento che i giudici nazionali devono interpretare le leggi statali interne in modo conforme alla Convenzione europea (se è impossibile, devono sollevare alla Corte Costituzionale una questione di legittimità della norma per contrasto con la Convenzione, cioè per violazione dell'art. 117 c. 1 della Costituzione, secondo cui lo Stato deve legiferare nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali), essi sono vincolati dall'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.
Quindi, la Cassazione ha stabilito che se il diritto di sposarsi è un diritto fondamentale (in quanto derivante dagli articoli 2 e 29 della Costituzione ed espressamente riconosciuto dagli articoli 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, 12 della Convenzione europea del 1950, 23 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, 9 della Carta diritti fondamentali dell'Ue del 2000/2007), esso spetta ai singoli in quanto esseri umani. Il riconoscimento di tale diritto fondamentale comporta non solo la sua appartenenza al patrimonio giuridico costitutivo indiscutibile del singolo individuo quale persona umana, ma anche l'effettiva possibilità di farlo valere erga omnes e realizzarlo.  
Se la Corte Costituzionale ha stabilito che il riconoscimento del diritto al matrimonio gay non ha uno specifico fondamento costituzionale, quindi il suo riconoscimento e la sua garanzia (ovvero l'eventuale disciplina legislativa volta a regolarne l'esercizio) non sono costituzionalmente obbligati, bensì rimessi alla libera scelta del Parlamento (così come previsto dalle norme europee), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha invece sancito che il diritto a sposarsi include anche le nozze tra omosessuali, fermo restando che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati. Questa riserva assoluta di legislazione nazionale non significa però che i diritti di contrarre matrimonio e costituire una famiglia (previsti dagli articoli 12 della Convenzione europea e 9 della Carta dei diritti Ue) non abbiano alcun effetto nell'ordinamento giuridico italiano fino a quando i nostri parlamentari - liberi di scegliere se e come - non decidano di garantire tale diritto o di prevedere altre forme di riconoscimento giuridico alle coppie gay. Al contrario, i suddetti due articoli - attraverso gli ordini di esecuzione contenuti nelle leggi che hanno autorizzato la ratifica e l'esecuzione della Convenzione europea e della Carta diritti Ue - sono da tempo parte integrante del nostro ordinamento giuridico nazionale e devono essere interpretati in maniera conforme alla Convenzione. Quindi il determinante effetto dell'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo - secondo cui il diritto di sposarsi non deve più essere limitato al matrimonio tra un uomo e una donna - consiste:

- nell'aver fatto cadere l'implicito postulato, nonchè requisito minimo indispensabile a fondamento del matrimonio rappresentato dalla diversità di sesso tra i nubendi;
- di conseguenza, nell'aver ritenuto incluso nell'art. 12 della Convenzione europea anche il diritto degli omosessuali di contrarre nozze.

Insomma, la Corte europea, sulla base della ricognizione delle differenze anche profonde delle leggi nazionali in materia (che spaziano dal permesso al matrimonio gay al suo esplicito divieto), ha "solo" rimosso l'ostacolo - la diversità di sesso dei nubendi - che impediva il riconoscimento del diritto al matrimonio tra omosessuali, anche se poi spetta alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali garantire tale diritto.

Ora, secondo la Cassazione, tutte le finora richiamate decisioni della Consulta e della Corte europea di Strasburgo non lasciano dubbi sul loro senso e sui loro effetti nell'ordinamento giuridico italiano. Se la legge italiana non permette ai componenti della coppia omosessuale conviventi in una stabile relazione di fatto di far valere il diritto a sposarsi e il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero, tuttavia - a prescindere dall'intervento del Parlamento - essi possono rivolgersi ai giudici per far valere - in presenza di situazioni specifiche - il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato alle coppie sposate ed eventualmente, in tale sede, sollevare presso la Corte Costituzionale le eccezioni di incostituzionalità delle norme di legge vigenti applicabili nei singoli casi, in quanto o nella parte in cui non assicurino detto trattamento. Ciò in quanto i componenti della coppia gay sono titolari dei diritti alla vita familiare, alla libertà di vivere la condizione di coppia, alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni e ad altri diritti inviolabili.

Tale conclusione riporta al primo quesito analizzato dalla Cassazione.
L'intrascrivibilità del matrimonio tra persone omosessuali celebrato all'estero non si fonda più - come sostenuto sopra - sull'inesistenza per l'ordinamento italiano (e neppure sull'invalidità), bensì sulla sua inidoneità a produrre un effetto giuridico nell'ordinamento italiano. Quest'ultimo infatti comprende l'art. 12 della Convenzione europea che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nebendi, motivo per cui la tesi del passato - secondo la quale la difformità di sesso è requisito minimo indispensabile per l'esistenza stessa di un matrimonio civile - non è più adeguata all'attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata.

Vengono in mente le dichiarazioni rilasciate il 25 giugno 2011 da Mark J. Grisanti, senatore statunitense repubblicano, subito dopo aver concesso il proprio voto favorevole all'approvazione di una legge che istituisse il matrimonio gay nello Stato di New York:
"Chiedo scusa a coloro che si sentano offesi, ma non posso negare a un essere umano, a un contribuente, a un lavoratore, alla gente del mio collegio elettorale e di questo Stato - lo Stato di New York - e a coloro che lo rendono grande gli stessi diritti che ho io insieme a mia moglie".

domenica 25 marzo 2012

IL PAESAGGIO PRIMA DI TUTTO


Come si risolve la contrapposizione tra la salvaguardia del paesaggio e la realizzazione di opere infrastrutturali? Secondo la prima sezione del Tar dell'Umbria (sentenza 1° marzo 2012, n. 67), la tutela paesaggistica rappresenta un interesse più alto, dunque prioritario.
La vicenda di cui si sono occupati i giudici amministrativi riguarda l'installazione nel territorio comunale di Perugia di un impianto di telecomunicazione per delocalizzare l'emittente Umbria Tv. Il 30 settembre 2009 il Comune - amministrato da una giunta di centrosinistra - aveva rilasciato l'autorizzazione paesaggistica e ambientale, ma due mesi e mezzo dopo, il 16 dicembre, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell'Umbria l'aveva annullata perchè mancavano le valutazioni tecnico-giuridiche giustificative dell'opera e l'esplicitazione di forme e contenuti progettuali per la legittimità del progetto e la sua compatibilità con il paesaggio (non era nemmeno stata redatta la relazione paesaggistica). Inoltre, il traliccio teletrasmittente era troppo alto (35 metri), così da provocare un enorme impatto visivo in un'area di notevole valore panoramico. Secondo i magistrati, tale spropositata altezza pregiudica la percezione scenico-panoramica, dequalificando il paesaggio. D'altra parte, è lo stesso codice delle comunicazioni elettroniche - D.Lgs. 1° agosto 2003, n. 259 - a precisare all'art. 86 c. 4 che "restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali".
Il buon senso spesso non basta, bisogna ricorrere ai tribunali. 
Per fortuna esistono. 
         

martedì 20 marzo 2012

QUANDO EQUITALIA VIOLA LA LEGGE


La storia che segue ha come protagonista un cittadino italiano il quale - essendogli stato addebitato il mancato pagamento di ben 9 cartelle esattoriali (7 multe per violazione del codice stradale e 2 mancati versamenti del bollo auto, nel 1998 e nel 2001) - non si è visto solo ipotecare da Equitalia un immobile di sua proprietà per la somma di 3.111,80 euro, ma ha persino subìto l'esecuzione forzata del provvedimento, nonostante le Commissioni Tributarie non avessero ancora valutato la fondatezza dei verbali di accertamento e l'esistenza stessa del debito.
E' legittima l'azione di Equitalia?
No, secondo il giudice Alessio Liberati del Tribunale civile di Tivoli, che nella sentenza di 1° grado del 14 marzo scorso (n. 257/2012) ha addirittura escluso l'ipotecabilità del bene, poichè - data la modesta entità dell'importo debitorio contestato - una tale iscrizione non può mai essere disposta. La legge (che Equitalia non solo dovrebbe conoscere, ma applicare) è infatti assai esplicita nel sancire che "l'agente della riscossione può procedere all'espropriazione immobiliare se l'importo complessivo del credito per cui si procede supera i 20.000 euro. Il concessionario non procede all'espropriazione immobiliare se il valore del bene è inferiore a 20.000 euro" (art. 76 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602). Anche a seguito della drastica riduzione di tale soglia a 5.000 euro prevista dal governo Berlusconi con il decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (convertito in legge 28 gennaio 2009, n. 2), il caso di specie riguardava pur sempre un credito di importo inferiore (3.111,80 euro), per cui non si sarebbe potuto procedere ad alcuna iscrizione ipotecaria. Avendo invece agito diversamente, Equitalia deve cancellare - a proprie spese - il suo provvedimento nullo e illegittimo.
Così come illegittima è anche la maggiorazione della somma relativa alle 7 multe per violazione del codice stradale. Invero, in caso di ritardo nei pagamenti, l'art. 203 c. 3 del Codice della Strada prevede la sola iscrizione della metà del massimo stabilito per la sanzione, non anche gli aumenti semestrali del 10%. Avendo anche in quest'ambito fatto il contrario (e avendo così violato la legge per la seconda volta), Equitalia aveva richiesto illegittimamente una somma - da lei stessa calcolata - non dovuta.
Il giudice, infine, ha bocciato clamorosamente l'obiezione mossa dalla società (secondo cui le notifiche delle cartelle esattoriali non sono riferibili al suo operato, limitato esclusivamente alla riscossione), ricordando che la riscossione presuppone sempre una verifica del titolo e dei presupposti, di cui Equitalia deve farsi carico prima di attivare qualsiasi procedura esecutiva o di incasso.
La sua condotta è stata talmente grave (per aver iscritto un'ipoteca in maniera imprudente, considerato che il minimo richiesto dalla legge non era stato raggiunto e che non aveva alcun diritto di procedere a esecuzione forzata per l'esigua somma contestata) da essere stata condannata a risarcire al cittadino i danni subìti, quantificati per un ammontare di 7.000 euro.

lunedì 19 marzo 2012

UN NUOVO LAVORO 

Questo post è dedicato a Emma Marcegaglia, Elsa Fornero, Sergio Marchionne, Mario Monti e a tutti coloro che vorrebbero licenziamenti facili, senza troppi fronzoli. Pazienza se quelli che per lorsignori sono "ostacoli che impediscono la crescita economica" siano in realtà "diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione":

- l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dello Stato (art. 3);
- il lavoro per tutti e il dovere dello Stato di promuovere le condizioni per renderlo concreto (art. 4);
- il ricorso a un giudice per tutelare i propri diritti e interessi legittimi (art. 24);
- la tutela del lavoro e la formazione professionale (art. 35);
- una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma pur sempre sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa (art. 36);
- il riposo settimanale e le ferie annuali retribuite (art. 36);
- l'uguaglianza tra lavoratori e lavoratrici, alle quali va assicurato l'adempimento della loro specifica funzione familiare e materna (art. 37);
- la corresponsione di mezzi idonei alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38);
- un'organizzazione sindacale libera, con il solo obbligo di registrazione (art. 39);
- la stipulazione di contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie a cui il contratto fa riferimento (art. 39);
- lo sciopero (art. 40);
- la sicurezza, la libertà e la dignità umana sul posto di lavoro (art. 41);
- la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende (art. 46).

Ora, cari Marcegaglia, Fornero, Marchionne e Monti, non credete che la migliore riforma del mercato del lavoro sia quella di iniziare finalmente a rispettare e far rispettare tali norme di rango costituzionale, in vigore da più di 64 anni, ma ancora bistrattate e palesemente ignorate?
Possibile non sappiate (nel qual caso, sareste "tecnicamente" ignoranti) che limitare l'operatività dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori  - secondo il quale il giudice dichiara inefficace o nullo il licenziamento intimato senza una giusta causa o un giustificato motivo, ordinando anche la reintegrazione del lavoratore - sarebbe incostituzionale e illegittimo, ai sensi del sopra ricordato art. 24 della Costituzione?
Quando vi renderete conto che - soprattutto in tempo di crisi - il lavoro e i diritti non devono mai essere l'uno alternativo agli altri, ma complementari tra loro?
Se proprio volete che gli imprenditori possano licenziare senza alcun "disturbo", potete sempre invitarli a cambiare mestiere. Infatti - come ha di recente rammentato la sezione lavoro della Cassazione con la sentenza 12 marzo 2012, n. 3868 - l'art. 18 non si applica (dunque licenziare è un atto totalmente libero e incontrastabile) se il datore di lavoro non imprenditore svolge - senza fini di lucro - un'attività politica, sindacale, culturale, di istruzione, religiosa o qualunque altra che sia prevalentemente ideologica, priva di natura economica e carattere imprenditoriale (che, insomma, non preveda tasse di iscrizione, non remuneri i servizi, non paghi le attività svolte dai dipendenti, non ottenga ricavi per la concessione in uso di locali o attrezzi, ...).
Chissà, Marchionne potrebbe lasciare la Fiat per dirigere una scuola di catechismo (il cui motto principale sarebbe il comandamento "non avrai altro Dio all'infuori di me"), Marcegaglia potrebbe abbandonare l'azienda di famiglia per presiedere un'Università del Tempo Libero, Monti e Fornero potrebbero scappare da Palazzo Chigi per fondare e guidare il sindacato dei Pensionati Ancora Vivi, in modo da avere la soddisfazione di essere una volta tanto eletti da qualcuno.
Così, tanto per provare l'ebbrezza di licenziare chiunque vogliano e vedere l'effetto che fa.

domenica 18 marzo 2012

LE IMPRESE POSSONO LICENZIARE PER CRISI

Se viene provata l'esistenza di una crisi di settore per cui è tanto necessario tagliare posti di lavoro, quanto impossibile ricollocare gli esuberi in altre mansioni, un'impresa ha il diritto di licenziare, anche se la diminuzione di lavoro è dovuta unicamente all'introduzione di nuove tecnologie necessarie per mantenere la società competitiva sul mercato (potendo infatti beneficiare di un cospicuo risparmio di tempo, essa si ritrova ad avere un organico in esubero).
E' quanto sancito dalla sezione lavoro della Corte d'Appello di Palermo e della Cassazione (sentenza 8 marzo 2012, n. 3629).  
La vicenda ha avuto inizio dal ricorso di un dipendente licenziato nel 2004 per crisi di settore e conseguente riduzione di personale. Invocando l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, si era rivolto alla magistratura al fine di riottenere l'impiego, poichè convinto dell'inesistenza dell'invocata crisi e della possibilità di un suo ricollocamento. 
Le due Corti hanno invece ritenuto dimostrata la crisi di settore posta a base del licenziamento, aggiungendo che la scelta di licenziare era caduta proprio su di lui perchè i suoi colleghi avevano competenze specifiche o erano in maternità. Di conseguenza, il licenziamento è legittimo. La relativa lettera - pur avendo usato una formula talmente sintetica da impedire di stabilire se l'azienda avesse voluto far riferimento all'esistenza di una perdita economica o di un calo di commesse - aveva richiamato la necessità di tagliare posti di lavoro, l'impossibilità di ricollocamento in altre mansioni e una generica crisi settoriale comportante la riduzione di personale. In questo modo, la ditta aveva inteso giustificare la sua scelta con riguardo a una diminuzione di attività dovuta all'introduzione di nuove tecnologie necessarie per mantenerla competitiva sul mercato. Così intesa, la crisi di settore è stata provata grazie all'effettiva introduzione di tali innovazioni tecniche e al conseguente notevole risparmio di tempo, che aveva creato un organico in esubero. 
E' infine irrilevante l'ipotesi - fornita dal lavoratore, ma non dimostrata - di un collegamento tra diverse società del medesimo gruppo, dal momento che il dipendente licenziato non aveva saputo indicare nè l'esistenza di ambiti idonei per un suo diverso impiego, nè il nome di una sola società considerata parte del gruppo dove avrebbe potuto essere impiegato, nè quali mansioni vi avrebbe assunto.

giovedì 15 marzo 2012

SUL CONCORSO ESTERNO
IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA

"Il concorso esterno pone problematiche diverse da quelle dell’associazione mafiosa. E’ un reato autonomo creato dalla giurisprudenza, che prima lo ha creato, usato e dilatato e ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali. In Cassazione sono rare le condanne per concorso esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più".
Queste parole pronunciate sei giorni fa dal Sostituto Procuratore Generale della Cassazione Francesco Mauro Iacoviello nell'ambito della requisitoria nel processo Dell'Utri hanno suscitato numerose polemiche. Basti infatti ricordare che la "creazione" del reato di concorso esterno in associazione mafiosa va addebitata ai magistrati del pool di Palermo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli (Paolo Borsellino era da alcuni mesi Procuratore di Marsala), i quali misero nero su bianco la propria "invenzione" nell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162 del 17 luglio 1987:
"Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa convergenza di interessi col potere mafioso che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonchè, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali".
Per questa ragione, come ha scritto su "Il Fatto Quotidiano" Gian Carlo Caselli (uno dei magistrati italiani più competenti e attivi in indagini antimafia), bisogna colpire il "livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici e professionisti vari", poichè "la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove, nelle complicità, collusioni e coperture. Non indagare anche su questo versante significa fare antimafia solo a metà, rinunziando alla possibilità stessa di vincere davvero la guerra alla mafia. E l'unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è il concorso esterno. Per realizzare i loro affari le mafie hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, amministratori e politici, notai e giuristi. Un intreccio perverso che costituisce la spina dorsale del potere mafioso e che si può contrastare - ripeto - soltanto con la figura del concorso esterno".
E' facile intuire, dunque, che se proprio si sentisse l'esigenza di rivedere normativamente il concorso esterno in associazione mafiosa, sarebbe bene impegnarsi per rafforzarlo, cancellando quella serie di sofismi giuridici eccessivamente ricercati, tanto agognati da certi politici e magistrati per depotenziare e - di fatto - abrogare l'idea del pool palermitano. Non è un caso che vi siano in circolazione numerosi soloni a rivendicare addirittura l'inesistenza della fattispecie delittuosa in questione, bollandola come frutto della fervida immaginazione delle toghe politicizzate (Caponnetto e Falcone?). E' bene allora chiarire subito la clamorosa falsità di tale assunto: il concorso esterno in associazione mafiosa esiste, per il semplice motivo che la sua presenza nell'ordinamento penale italiano è stabilmente riconosciuta dalla giurisprudenza del massimo organo giurisdizionale, le Sezioni Unite della Cassazione. Si ricordino le sentenze del 5 ottobre 1994, del 27 settembre 1995 e del 30 ottobre 2002 (imputato il giudice Corrado Carnevale), riprese anche dalla spesso invocata sentenza Calogero Mannino (Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza 20 settembre 2005, n. 33748). Tale pronuncia non solo ha confermato per l'ennesima volta la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa - "ormai incontroversa in giurisprudenza e pressochè unanimemente asseverata dalla dottrina" - ma ne ha fissato i requisiti:

1) punisce chi, pur non stabilmente inserito nella struttura organizzativa del gruppo mafioso e pur non facendone parte, abbia fornito dall'esterno un tangibile, specifico, consapevole e volontario contributo alla realizzazione - anche parziale - del programma criminale;

2) il responsabile deve aver realizzato tutti gli elementi essenziali del reato di associazione mafiosa e la sua condotta deve essere collegata con quegli elementi;

3) non è punibile il tentativo di concorso esterno, ovvero l'essersi accordati o l'aver accolto l'istigazione per la commissione del reato, poi però non commesso;

4) il contributo del concorrente esterno, operante in piena sinergia con i boss mafiosi, deve essere stato condizione necessaria sine qua non per la concreta realizzazione dei crimini collettivi e per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative del clan mafioso. L'intervento del concorrente deve aver comportato una reale ed effettiva efficacia condizionante, attraverso la presenza di un preciso nesso di causa tra tale condotta esterna e la realizzazione del reato di associazione mafiosa. Insomma, bisogna provare - oltre ogni ragionevole dubbio - che il contributo agevolatore del concorrente esterno abbia realizzato un apporto causale significativo per la realizzazione dell'attività mafiosa, avendo portato un contributo reale e materiale che abbia effettivamente influenzato i fatti delittuosi;

5) il concorrente esterno deve aver agito con la consapevolezza e la volontà di interagire sinergicamente con le condotte dei mafiosi nella produzione del reato. Il concorrente esterno deve aver saputo e voluto non solo che il suo sostegno fosse utile per la sopravvivenza o il potenziamento del clan mafioso, ma che fosse anche diretto a realizzare - pur solo in parte - il programma delinquenziale del gruppo. In sostanza, il concorrente esterno deve aver avuto presente e voluto il reato di associazione mafiosa e il contributo causale recato a vantaggio dell'organizzazione;

6) non è configurabile il concorso esterno se l'imputato si sia limitato ad accettare il rischio che si verificasse l'evento delittuoso, ritenuto solo probabile o possibile;

7) il concorrente esterno, pur senza far parte dell'associazione mafiosa, deve essere stato consapevole dei metodi e degli scopi della stessa, a prescindere dalla sua personale condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per tali metodi e fini;

8) non è sufficiente che il contributo esterno venga giudicato (con prognosi di pericolosità ex ante) idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del reato. 

E' configurabile il reato di concorso esterno in associazione mafiosa persino nel caso di un politico che, contiguo alle mafie, abbia stretto con loro un patto di scambio (per cui il politico chiede appoggio elettorale alla mafia e, in cambio, si impegna a usare i poteri pubblici seguiti all'esito favorevole del voto per ringraziare e avvantaggiare i clan, assicurando loro dall'esterno l'accesso ai circuiti finanziari e al controllo del denaro pubblico, mediante la concessioni di appalti): le promesse di attivarsi - una volta eletto - a favore dei criminali possono già di per sè costituire un concorso esterno, indipendentemente dalla successiva esecuzione dell'accordo. Invero, sono possibili talmente tante forme di patto elettorale collusivo che la loro punibilità non può certo essere sancita per la sola fattispecie prevista dall'art. 416-ter c.p. (accordo elettorale politico-mafioso in termini di scambio denaro/voti), essendo doveroso qualificare come concorso esterno ogni tipo di accordo tra mafia e politica diverso dallo scambio denaro/voti (tra l'altro, quasi mai contestabile, poichè difficilmente un politico ringrazia il sostegno elettorale mafioso con la concessione dei propri soldi personali. Motivo per cui da anni i magistrati antimafia chiedono - inutilmente - al Parlamento di inserire nel codice la locuzione "denaro o altra utilità", in modo da comprendere gli appalti pubblici).
Tuttavia, non devono mai venir meno i sopra ricordati requisiti del concorso esterno: il dolo e il nesso causale del contributo. Non bastano la sola disponibilità o vicinanza, nè che gli impegni presi dal politico siano stati seri e precisi (per l'affidabilità e la caratura dei protagonisti dell'accordo, per l'importanza criminale dell'organizzazione mafiosa, per il contesto storico e per i contenuti dell'accordo). La promessa del politico di elargire favori può essere considerata concorso esterno (cioè un apporto dall'esterno  alla conservazione o al rafforzamento del clan mafioso) solo se di per sè abbia inciso immediatamente ed effettivamente sull'operatività della mafia, avendole procurato vantaggi concreti per mezzo dell'interazione con i boss. Il magistrato inquirente deve trovare le prove utili a dimostrare l'esistenza di fatti materiali, dai quali - ex post - si possa dedurre che il patto politico-mafioso abbia prodotto risultati positivi per il reale rafforzamento o consolidamento dei clan. In caso contrario, il Pm non può prendere in considerazione un eventuale contributo del politico in chiave psicologica (nel senso che, in virtù del sostegno politico, sarebbero automaticamente rafforzati il senso di superiorità, il prestigio criminale dei boss, la loro fiducia di sicura impunità e i crediti del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento).
E' quindi configurabile il concorso esterno in associazione mafiosa nell'ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso se gli impegni assunti dal politico:
- siano stati seri e puntuali (per l'affidabilità e la caratura dei protagonisti dell'accordo, per l'importanza criminale dell'organizzazione mafiosa, per il contesto storico e per i contenuti dell'accordo);
- abbiano causalmente, effettivamente e significativamente inciso sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera associazione mafiosa (a prescindere dall'eventuale successiva esecuzione dell'accordo).
Serve un apporto reale da parte del politico, al di là di generiche disponibilità, vicinanze, relazioni personali, incontri e frequentazioni con esponenti mafiosi, penalmente irrilevanti. Tali episodi, anche se accertati, rimarrebbero confinati nella riprovazione etica e sociale, perchè di per sè estranei al reato di concorso esterno.
Dal momento che sono le stesse Sezioni Unite della Cassazione ad aver ammesso l'estrema difficoltà di accertare e provare un simile delitto proprio a causa degli stretti vincoli da lei stessa posti, sarebbe forse il caso di allentare tali "rigorosi paletti garantisti" (Gian Carlo Caselli), per evitare che scompaia l'antimafia prima della mafia.

lunedì 12 marzo 2012

OMOFOBIE DEMOCRATICHE

Ieri, intervistata da Maria Latella per Sky Tg24, il Presidente del Partito Democratico, Rosy Bindi, ha rispolverato il suo repertorio omofobo, forse per celebrare il 5° anniversario delle dichiarazioni rese il 12 marzo 2007 in qualità di ministro per la Famiglia del secondo governo Prodi al convegno romano "Tempi moderni e famiglia":
"Il desiderio di maternità e di paternità un omosessuale se lo deve scordare. Il legislatore deve tutelare il bambino, compreso quello che vive solo, dalle suore, o in un istituto trattato male, o in Africa. Paradossalmente è meglio che stia in Africa nella tribù, piuttosto che cresca con due donne o con due uomini. Non ho dubbi da questo punto di vista".
Ieri ha voluto commemorare tale massima filosofica, concedendo il bis:
"Non userei mai la parola matrimonio, perchè credo che quello sia un istituto previsto dalla nostra Costituzione e dalla tradizione giuridica del nostro Paese che lega quella parola al fondamento di una famiglia e a un'unione eterosessuale".
D'altra parte, Rosy Bindi è in buona compagnia all'interno del suo partito.
Intervistato da Diego Bianchi (in arte, Zoro) alla festa Pd di Ostia, il 9 settembre 2011 il prescritto Massimo D'Alema (per un finanziamento illecito di 20 milioni di lire al Partito comunista italiano, ottenuto a metà degli anni '80 da un imprenditore della sanità pugliese legato alla Sacra Corona Unita), nominato viceconte del Vaticano e Nobil Uomo del Pontefice il 20 novembre 2006 quando era Ministro degli esteri dello stesso governo Prodi, ha riesumato idee già manifestate nel 2007:
"Il matrimonio come è previsto dalla Costituzione del nostro Paese - se non la si cambia - è l'unione tra persone di sesso diverso, finalizzata alla procreazione, tra l'uomo e la donna. Questo dice la Costituzione. Oltretutto, le organizzazioni serie degli omosessuali italiani non hanno mai rivendicato di poter andarsi a sposare in chiesa. Hanno posto un problema diverso: che vengano riconosciuti i diritti delle persone che si uniscono, tra cui i diritti all'eredità e all'assistenza, perchè due persone che convivono hanno diritto di vedere riconosciuta e tutelata questa loro condizione". Secondo D'Alema, bisogna "riconoscere questi diritti anche fuori dal matrimonio, sulla base del fatto che si determina un'unione di fatto che viene registrata fuori dal matrimonio. Siccome una parte importante del nostro Paese ritiene che il matrimonio è un sacramento, io penso che il sentimento di questi italiani vada rispettato ed è possibile rispettarlo senza comprimere i diritti delle persone omosessuali che devono essere riconosciuti. Cioè, in definitiva, è possibile trovare un compromesso ragionevole".
Ora, a parte la stravagante singolarità di dividere le organizzazioni omosessuali "serie" da quelle evidentemente superficiali e la preoccupante confusione tra matrimonio civile e religioso (gli omosessuali rivendicano il primo perchè vengano loro riconosciuti alcuni sacrosanti diritti civili, non ecclesiali), consiglio ai due esponenti "democratici", Bindi e D'Alema, di leggere la sentenza 15 aprile 2010, n. 138 della Corte Costituzionale. Se infatti l'avessero fatto (e ne avessero capito il contenuto), saprebbero che:
1) il matrimonio civile previsto dall'ordinamento italiano si riferisce soltanto all'unione tra uomo e donna;
2) la diversità di sesso dei coniugi è un requisito fondamentale per l'esistenza e la validità di un matrimonio;
3) tali principi derivano da una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio;
4) l'aspirazione al riconoscimento delle coppie omosessuali si può realizzare anche senza equipararle al matrimonio;
5) l'art. 29 della Costituzione italiana "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio";
6) l'articolo seguente (il 30) tratta la tutela dei figli naturali, la quale non smentisce la potenziale finalità procreativa del matrimonio, che lo differenzia dall'unione gay;  
7) l'Assemblea Costituente trascurò completamente la questione delle coppie gay, nonostante tale condizione fosse nota. Sancì così la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore in età fascista (nel 1942), secondo cui - come oggi - è necessaria la diversità sessuale dei coniugi;
8) l'esclusivo matrimonio tra uomo e donna è costituzionalmente legittimo e non discriminatorio, poichè le coppie gay non possono essere considerate omogenee al matrimonio.
Tuttavia, l'art. 2 della Costituzione italiana obbliga la Repubblica a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'essere umano, sia come singolo, sia nelle "formazioni sociali" in cui si svolga la sua personalità. Ebbene - per la Consulta - la nozione di "formazione sociale" comprende anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza e comunità tra due persone del medesimo sesso, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione. Le coppie omosessuali hanno quindi il diritto fondamentale di vivere liberamente tale loro condizione e di ottenere un riconoscimento giuridico - con i conseguenti diritti e doveri - nei tempi, nei modi e nei limiti regolabili necessariamente da una disciplina generale di legge. Secondo la Corte, è perciò compito del Parlamento - nell'esercizio della sua piena discrezionalità - trovare le forme di riconoscimento delle unioni gay. Comunque, in attesa che il legislatore colmi il riconosciuto vuoto normativo - la Consulta ha già ora il potere di intervenire per tutelare situazioni particolari e specifiche, sancendo anche la necessità e la legittimità costituzionale di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia sposata e quella di una coppia omosessuale.
La Corte Costituzionale, effettuando una chiara (ma forse non per tutti) esegesi dell'art. 29 della Costituzione, rammenta altresì che quando l'Assemblea Costituente ha definito la famiglia "società naturale" non ha voluto intendere quello che molti opinionisti un tanto al chilo spacciano senza alcuna vergogna (ovvero una società che si basi sull'unione di un uomo e di una donna, secondo quanto previsto dalla natura), bensì ha inteso evidenziare che la famiglia possiede alcuni diritti originari preesistenti allo Stato, da quest'ultimo doverosamente riconoscibili. Non si possono pertanto bollare come "cristallizzati" i concetti di "famiglia" e "matrimonio" con riferimento all'epoca in cui la Costituzione è stata scritta (1946/1947), in quanto essi possiedono la duttilità tipica di ogni principio costituzionale, per cui devono essere interpretati tenendo conto delle trasformazioni dell'ordinamento e dell'evoluzione della società e dei suoi costumi.
Come menzionato sopra, è il Parlamento l'unico organismo a poter colmare l'intollerabile vuoto legislativo in materia di unioni omosessuali. Tale precetto è confermato anche dall'art. 12 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali e dall'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, secondo i quali l'affermazione dei diritti di sposarsi e formare una famiglia è rinviata alle leggi nazionali di ciascuno Stato. Come appare evidente (ma forse non per tutti), le norme europee non vietano affatto la concessione dello status matrimoniale alle unioni omosessuali, ma delegano la relativa previsione normativa alla volontà di ogni assemblea parlamentare.
Sperando di aver fatto comprendere ai lettori la mostruosità delle dichiarazioni esposte in pubblico con grave sprezzo del ridicolo dall'ex democristiana Rosy Bindi e dall'ex comunista Massimo D'Alema, voglio comunque riconoscere loro un'attenuante non di poco conto: in fondo, sono solo deputati della Repubblica italiana.   

P.s. Non c'entra nulla con le coppie dello stesso sesso, ma ricordo che la legge 164/1982 - varata durante il primo governo Spadolini, in cui la Democrazia Cristiana controllava il ministero dell'Interno con Virginio Rognoni - concede la possibilità, a seguito di sentenza definitiva della magistratura, di riconoscere a una persona un sesso diverso rispetto a quello di nascita. Pertanto, i transessuali non solo hanno il diritto di vedere riconosciuta dalla legge la propria fondamentale esigenza di far coincidere corpo e psiche, ma possono tranquillamente contrarre matrimonio con un partner di sesso diverso (ad esempio, un soggetto nato femmina, ma riconosciuto come uomo a seguito di vari interventi chirurgici, può sposare una donna). Chissà se qualcuno ha informato Bindi e D'Alema: c'è il rischio che ne restino scandalizzati.

domenica 11 marzo 2012

ELEMENTARE, SIGNORA MARCEGAGLIA

Firenze, auditorium del Palazzo dei Congressi, convegno nazionale di Federmeccanica dal titolo "Industria metalmeccanica: la via della ripresa passa da qui". E' la mattina di martedì 21 febbraio 2012. Nel suo intervento, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia espone alla platea perle rare di saggezza come "vorremmo avere un sindacato che non protegge gli assenteisti cronici, ladri, quelli che non fanno il proprio mestiere", "vogliamo poter licenziare quelli che non fanno il loro lavoro", "tutte le multinazionali mi dicono: <<Fino a quando non sono in grado di licenziare un fannullone, un assenteista cronico, in questo Paese non vengo a investire>>. Questo è un problema vero". E giù con gli applausi.
Peccato che sia tutto clamorosamente falso.
Se la leader di Confindustria studiasse prima di aprire bocca in pubblico, saprebbe che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è costante nell'affermare un preciso principio di diritto: se un lavoratore si comporta in modo tale da venir meno ai suoi doveri fondamentali può essere licenziato, anche se non abbia violato alcuna specifica norma del codice disciplinare aziendale. Infatti tale facoltà del datore di lavoro - derivante dalla sussistenza di una giusta causa o giustificato motivo secondo la previsione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori - deriva direttamente dalla legge. 
Quindi, se un dipendente:
- ha ingannato l'azienda, ad esempio timbrando una scheda diversa da quella personalizzata fornita dalla ditta, in modo da non essere individuato (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 23 agosto 2006, n. 18377);
- si è assentato senza giustificazione, anche per un lungo periodo di tempo (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 29 febbraio 2012, n. 3060);
- ha prolungato le proprie ferie senza autorizzazione, anche per pochissimi giorni (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 14 maggio 2002, n. 6974);
- ha usato un certificato di guida di automezzi speciali falso e si è servito dell'assenza per malattia dal posto di lavoro per frequentare un corso di scuola guida al fine di conseguire il certificato autentico (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 14 settembre 2009, n. 19770);
- lavorando come cassiere di un supermercato, ha accreditato i punti della spesa effettuata dai clienti privi della tessera soci sulla propria carta personale (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 18 settembre 2009, n. 20270);
- è stato ubriaco sul posto di lavoro (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 10 settembre 2010, n. 19361);
- si è rifiutato di eseguire gli ordini dei superiori opponendo un proprio inesistente stato di invalidità (Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 28 gennaio 2011, n. 2114),
può benissimo essere licenziato, poichè ha tenuto un comportamento illecito e vietato dalla legge, palesemente contrario all'etica comune, agli obblighi fondamentali di un rapporto di lavoro, al vincolo fiduciario tra impresa e dipendente e agli interessi aziendali. 
Ciò dimostra che anche in presenza del tanto vituperato art. 18 l'imprenditore può licenziare chiunque, a condizione che fornisca una giusta causa o un giustificato motivo. 
Elementare, signora Marcegaglia.

venerdì 9 marzo 2012

DEMOCRAZIA AL LAVORO

Se il lavoratore con contratto di formazione e lavoro (durata massima di 2 anni, non rinnovabile, applicabile ai giovani di età compresa tra i 15 e i 32 anni) non riceve nessun tipo di formazione - nè teorica, nè pratica - deve essere necessariamente assunto a tempo indeterminato, essendo venuto meno il presupposto basilare del contratto, secondo il quale il datore di lavoro è obbligato a fornire al dipendente un adeguato addestramento pratico affinchè questi acquisisca la professionalità necessaria per poter entrare definitivamente nel mondo del lavoro.
Tale massima non proviene da un sindacalista Fiom - organizzazione sindacale che proprio stamane ha organizzato a Roma una manifestazione nazionale con lo slogan "Democrazia al lavoro" - bensì dal Tribunale civile di Teramo (sentenza 15 giugno 2005), dalla Corte d'Appello civile dell'Aquila (sentenza 9 novembre 2006) e dalla Cassazione civile (sentenza 8 marzo 2012, n. 3625).
Chissà che cosa ne pensa il premier Mario Monti, feroce critico del posto fisso. Spero almeno non si rivolga alla collega Fornero per un consulto "tecnico": a furia di lacrimare, potrebbe rovinargli il loden.

giovedì 8 marzo 2012

MARIA CONCETTA, UNA DI NOI

Maria Concetta Cacciola
La storia di cui mi occupo oggi è stata definita da Fulvio Accurso, giudice di Palmi (Reggio Calabria), "triste, drammatica ed emblematica". In occasione dell'8 marzo, voglio dedicarla a tutte le donne che - come la protagonista - hanno lottato e lottano per la propria e altrui libertà, nelle diverse forme in cui tale valore può essere declinato.

Maria Concetta Cacciola nasce a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, il 30 settembre 1980. A 13 anni conosce Salvatore Figliuzzi, classe '73, insieme al quale compie la "fuitina". A 16 anni lo sposa. Nascono tre figli: Alfonso (1995), Gaetana (detta Tania, 1999) e Anna Rosalba (2004). Ciò nonostante, Cetta (come viene chiamata) non ama Salvatore, non lo ha mai amato. Il loro non è un matrimonio felice. Persino un litigio per futili motivi non è assimilabile alla normalità: in un'occasione, ad esempio, Salvatore arriva a puntare una pistola contro la giovane consorte, eppure - raccontando l'episodio al padre - la donna si sente rispondere: "Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita". Dal 2003 il marito è in carcere a Larino, in Molise, per scontare due condanne per 416-bis, associazione mafiosa. Non deve quindi sorprendere che le nozze siano state decise con il solo scopo di imparentare alcune famiglie di 'ndrangheta. Già, perchè la famiglia di Maria Concetta, residente a Rosarno (Reggio Calabria), è mafiosa.
Il padre, Michele Cacciola, classe '58, è noto al commissariato di Polizia di Gioia Tauro fin dagli anni '70, i cui rapporti informativi lo descrivono come soggetto socialmente pericoloso fin da giovanissimo, dedito al crimine e poco amante del lavoro. Dall'età di 17 anni è autore e promotore di danneggiamenti con esplosivi a scopo estorsivo a danno di operatori economici del centro di Rosarno. Ha solidi legami con i clan di 'ndrangheta Pisano e Bellocco (in particolare, con il boss latitante Antonio), con cui è anche imparentato (la sorella, Teresa Cacciola, ha sposato Gregorio Bellocco). Dedito più volte alla latitanza, fin da ragazzino è attenzionato, arrestato o condannato per reati come furto, associazione per delinquere, omicidio, sequestro di persona, occultamento di cadavere, detenzione abusiva di armi ed esplosivi e delitti legati alla droga.
Il fratello di Maria Concetta, Giuseppe Cacciola, classe '81, segue le orme del padre da quando non ha ancora compiuto 14 anni. Anch'egli arrestato, gli sono stati addebitati delitti come ricettazione, falso, associazione mafiosa, traffico di armi, usura e riciclaggio. I suoi compagni di vita sono giovani pregiudicati, membri delle nuove leve di 'ndrangheta.
Questa è la famiglia in cui è nata e cresciuta Maria Concetta.
Con il marito in galera per mafia, vive - insieme ai tre figli - in un appartamento al 1° piano della casa dei genitori, a Rosarno, in via don Gregorio Varrà 26, ma il padre, la madre (Anna Rosalba Lazzaro, classe '64) e il fratello le vietano di uscire di casa e di avere amici, imprigionandola tra le mura domestiche. Non c'è da meravigliarsi: tra l'onore mafioso e la felicità di una figlia, la 'ndrangheta sceglie sempre il primo. Maria Concetta è così costretta a vivere nella disperata solitudine di un simile isolamento forzato, obbligata peraltro a crescere da sola tre figli piccoli. 
La mattina del 4 novembre 2007 esce di casa con il figlio Alfonso per consegnare una medicina a un'amica, ma al suo rientro viene rimproverata dal padre, il quale le ribadisce il divieto di uscire di casa perchè il marito è in carcere. Quello stesso giorno, Cetta, in una lettera, scrive:
"A cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatti con nessuno? Come posso campare così se non posso nemmeno respirare? Cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo? Gli piace vedermi disperata dalla mattina alla sera. Mi alzano le mani, ti chiudono in casa, non puoi uscire, non puoi avere amicizie".
Un altro esempio riguarda quella volta in cui trascorre una mattinata a Reggio Calabria in compagnia di un'amica. Il tempo è inclemente e non riesce a tornare a casa dei genitori entro l'orario abituale, motivo sufficiente al padre per schiaffeggiarla in presenza dell'amica.
Alla completa privazione di libertà di autodeterminazione si unisce anche un non indifferente costringimento psicologico, con cui Maria Concetta deve fare i conti fin dall'adolescenza. Nonostante tutto, però, la donna non si dà per vinta e nel 2009, di nascosto dai parenti, riesce ad avviare una relazione sentimentale con un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Purtroppo, nel giugno 2010, alcune lettere anonime svelano tutto alla famiglia.
Tale scoperta, unita al desiderio di separarsi dal marito carcerato, fa sì che per Maria Concetta inizi un vero e proprio calvario. Viene continuamente pedinata alla frenetica ricerca di prove del suo tradimento da alcuni cugini e dal fratello Giuseppe, il quale - insieme al padre - le impartisce diverse punizioni, riempiendola di botte così violente e brutali da provocarle persino la rottura o l'incrinatura di una costola. In tale circostanza alla povera Cetta non è neppure permesso di recarsi in ospedale: i familiari chiamano a casa un medico loro amico, tale dottor Ceravolo (che potrebbe essere Michele Ceravolo, arrestato il 28 marzo 1994 per favoreggiamento nei confronti di un membro del clan mafioso dei Pesce), che, per i 3 mesi di degenza, visita la donna sempre e solo a domicilio, non raccomandando alcuna radiografia, nè rilasciando un certificato medico che attesti le lesioni.
La situazione è talmente insostenibile da portare Maria Concetta più volte a desiderare la morte. Nell'ottobre 2010, a causa delle selvagge botte inferte dal padre, tenta il suicidio attraverso l'ingestione di una gran quantità di pillole, che, essendo di un farmaco diuretico, non portano ad alcuna conseguenza. Il 20 aprile 2011 compone il numero di telefono di un centro antiviolenza femminile, ma riattacca prima ancora che qualcuno le risponda. In ogni caso, una piccola, buona notizia c'è: negli stessi giorni conosce un uomo, Pasquale Improta, tramite una chat-line, con cui presto sboccia una relazione sentimentale, caratterizzata da frequenti scambi di telefonate, grazie alle quali Maria Concetta può sfogarsi. E' sempre più in preda al terrore, soprattutto dopo che la cognata (la moglie del fratello Giuseppe) insiste nel convincerla che Giuseppe avrebbe installato una microspia nell'appartamento. Sarà un caso, ma i familiari riescono a venire in possesso dei tabulati telefonici delle conversazioni con Pasquale. 
Cetta teme per la sua stessa sopravvivenza, vivendo con la costante e logorante minaccia di essere uccisa dai suoi stessi consanguinei da un momento all'altro per aver tradito il marito galeotto. In particolare, il suo terrore deriva dall'idea che un giorno il fratello si presenti a casa per dirle di seguirlo, per poi farla sparire. Considera il fratello - verso cui nutre una paura indescrivibile - capace di uccidere non solo lei, ma anche il suo amante, una volta ottenuta una qualche conferma della loro relazione.
Maria Concetta non ce la fa più: grazie all'esempio di "Giusi" (sua cugina Giuseppina Pesce, che - diversamente da Maria Concetta - è una "pentita", ovvero una donna arrestata perchè gravemente indiziata di aver commesso reati di mafia), si rivolge ai Carabinieri di Rosarno per testimoniare i "discorsi di malavita che era costretta ad ascoltare e che a lei non piacevano" (come racconterà l'amato Pasquale). Sceglie di andarsene, conscia del fatto che, tradendo il marito mafioso in carcere, ha compromesso l'onore della famiglia, per ristabilire il quale il padre e il fratello sarebbero arrivati persino a toglierle la vita. "La famiglia queste cose non le perdona, l'onore non lo perdonano", confessa a un'amica. Dunque, per paura di essere ammazzata, Maria Concetta fugge, chiedendo aiuto allo Stato, senza tuttavia fare i conti con i suoi rimorsi materni. Infatti affida temporaneamente i tre figli minorenni alla madre, confidando che - da mamma a mamma - avrebbe compreso il suo dolore, non rendendosi conto, invece, di lasciare i suoi bambini nelle mani dei suoi stessi persecutori. 
E' l'11 maggio 2011 quando Cetta si presenta ai Carabinieri di Rosarno. Seppur convocata per il sequestro del motorino del figlio Alfonso, non si lascia sfuggire l'occasione e racconta agli uomini dell'Arma le proprie vicende familiari e il terrore di essere uccisa. Scandisce ripetutamente un concetto: "se la mia famiglia viene a sapere che sono qua a raccontare queste cose mi ammazza".
Rendendosi conto della gravità della confessione ricevuta, i carabinieri la invitano a tornare in caserma. Vi torna il 15 maggio e ribadisce le sue profonde paure, soprattutto nei riguardi del fratello Giuseppe: "mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire". Se, infatti, il padre Michele potrebbe essere calmato dall'intercessione della madre, il fratello è molto più testardo, avendo altresì già acquisito il "rispetto" dei cittadini rosarnesi. Perciò Maria Concetta esprime ai carabinieri il desiderio di raggiungere un'amica nel Nord Italia, nonostante molte di loro si siano nel frattempo allontanate da lei, dal momento che la sua famiglia avrebbe potuto fare del male a loro o ai loro figli, se l'avessero in qualche modo aiutata a scappare (tante volte aveva acquistato presso un'agenzia di viaggi i biglietti per la fuga, ma si era sempre tirata indietro non solo per paura, ma anche per non coinvolgere altre persone).
Alla sua terza visita ai carabinieri di Rosarno (23 maggio), Maria Concetta manifesta invece la volontà di raggiungere il suo amante a Napoli.
Il quarto (e ultimo) colloquio con le forze dell'ordine, lo tiene il 25 maggio presso la Caserma Porto di Gioia Tauro di fronte ai Pm antimafia. Maria Concetta deve scegliere da che parte stare. Sceglie lo Stato, a cui - affidando la propria vita - chiede di essere sottoposta a misure di protezione per le dichiarazioni già rese e per quelle ancora da rendere. Il giorno seguente i magistrati antimafia di Reggio Calabria, consci della sua intenzione di raccontare fatti sulle cosche mafiose Cacciola e Bellocco, propongono l'adozione di un piano provvisorio protettivo come testimone di giustizia.
Così, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, Maria Concetta viene prelevata dai carabinieri del Ros di Reggio Calabria e portata in una località protetta presso Cassano all'Ionio (Cosenza). Qui trascorre tutto il mese di giugno e gran parte di luglio presso il villaggio agrituristico "Colle degli Ulivi". E' allegra, aperta, solare e socievole. Riceve anche una breve visita (un paio di giorni) dell'amato Pasquale Improta. Poi, il 22 luglio, viene provvisoriamente trasferita a Bolzano, in un'altra località protetta. Avendovi ospitato un pluripregiudicato per reati contro la persona e il patrimonio, il 27 luglio è di nuovo trasferita, stavolta a Genova. Rimane nel capoluogo ligure fino alla sera del 2 agosto, quando - enormemente provata dalla lontananza dei figli lasciati a Rosarno - telefona alla madre, rivelandole di trovarsi vicino l'ospedale Gaslini e lasciandole capire di volerla incontrare (in seguito, si sarebbe pentita di questa chiamata, con la quale si è  necessariamente "indebolita"). Chiede - inutilmente - di mandarle i tre figli, ma la madre intuisce che essi sono il solo legame ancora sussistente con la famiglia. Pensa, così, di usarli per convincere Maria Concetta a tornare in Calabria: se avesse inviato Alfonso, Gaetana e Anna Rosalba in Liguria, si sarebbe potuta scordare definitivamente il ritorno a casa della figlia. Senza alcun tipo di scrupolo, i genitori iniziano quindi a sfoderare una sapiente, costante e gigantesca arma di ricatto. Le resistenze di Maria Concetta vengono erose lentamente, come un terribile stillicidio interiore: non solo decide di incontrare il padre e la madre - i quali partono da Rosarno in Mercedes, destinazione Genova - ma parte con loro per tornare a casa, in Calabria. Prima di partire, tuttavia, non convinta di ciò che sta facendo, lascia l'indirizzo dei genitori agli operatori dei Nop (Nuclei Operativi di Protezione, ovvero gli uomini del Servizio centrale di protezione che operano in ambito regionale e interregionale). Emblematiche le reazioni dei coniugi Cacciola quando, durante il viaggio, la figlia racconta loro ciò che aveva detto ai magistrati: se la madre mostra rabbia e disperazione, il padre prima usa un tono apparentemente rassicurante, tentando di convincere la figlia di non preoccuparsi, poi si innervosisce per lo "sgarro" ricevuto e invita Maria Concetta a fare scena muta con i giudici: "Tu non sai niente, tutto quello che hai detto non è vero".
Nella notte del 3 agosto, durante una sosta a Reggio Emilia, la giovane testimone di giustizia torna sui suoi passi e invia alcuni messaggi al Servizio centrale di protezione per farsi trovare e ricondurre in una località protetta. Il mattino seguente viene prelevata e riportata a Genova, mentre i genitori sono obbligati a tornare a Rosarno da soli. Prima di giungere a destinazione, però, Michele Cacciola riceve una telefonata del figlio Giuseppe e - dopo aver chiesto a quest'ultimo di fissargli un appuntamento con un avvocato - concorda con lui un piano per far ritrattare Maria Concetta, pensando di costringerla a scrivere una lettera sotto loro dettatura: "Prima la scriviamo, tanto lei non capisce niente. A lei la teniamo noi, al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta".
Da questo momento, i familiari aumentano le martellanti pressioni psicologiche, esortando la povera figlia "a lasciar stare tutte cose" e a ritrattare tutto. La madre, al telefono, prima cerca di convincerla a ripensare la sua scelta (promettendole che sarebbero andate a vivere insieme in un altra casa), poi - insistendo di contattare l'avvocato - le dice: "O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, che tu non sapevi niente. Tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente". Non solo: torna a usare i figli di Maria Concetta, promettendole che glieli avrebbe mandati a Genova. Una simile, terribile strategia, adottata fin dall'inizio dai coniugi Cacciola, tende a sfruttare l'unico punto debole della figlia - l'amore per i suoi bambini - per convincerla a tornare e a ritrattare tutto con gli inquirenti. Del resto, non potrebbe essere più netta l'alternativa fornita alla figlia: "O con noi o con loro devi stare".
Nella notte tra il 4 e il 5 agosto Maria Concetta manda il seguente sms all'amato Pasquale:
"Se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l'onore e la dignità e io glieli ho toccati entrambi. Ma finchè ho l'ultimo mio respiro io ti amerò. Buona notte, amor mio, ti amo".
Il suo animo è tremendamente travagliato dalla tentazione di tornare a Rosarno per riabbracciare i tre amati figlioli, ma altresì consapevole di rischiare la vita e compromettere definitivamente la libertà conquistata con dispendiosa fatica. E' una giovane donna sola, piena di ansie e di paure. Il 6 agosto confida alla sua amica del cuore - Emanuela Gentile - che i familiari erano riusciti - chissà come - a procurarsi i tabulati telefonici delle conversazioni intrattenute con l'amante e che era terrorizzata dal pensiero che essi ne conoscessero l'identità e l'indirizzo di casa (dove si erano addirittura recati):
"Sai perchè ho un po' di paura? Mi fanno tornare apposta, così dicono <<ritratti quello che hai detto>>. Questo è quello che mi fa paura, Manuela, le sappiamo come vanno queste cose nelle nostre famiglie, no?! Almeno nella mia famiglia. Dentro di me un po' ho paura, anche se lei mi dice di ritornare. Sono sua figlia, lo so, però sappiamo come sono fatti gli uomini lì da me! Dicono <<Scendi, così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto>>. Già mi hanno detto in partenza che io da casa non mi muovo, tranne quando esco con mia mamma. Allora penso: chi cazzo me lo fa fare di tornare, se poi campo un altro anno, anno e mezzo?".
Quello stesso 6 agosto, conversando al telefono con Pasquale, parla della madre nei seguenti termini: 
"Mi confonde le idee, quando la sento sembra che tocco il cielo. Va bene, è giusto così perchè sono sua figlia, a lei manco, però mi confonde le idee. Non ce la faccio a tornare perchè so già come andrà a finire. Lei no, non credo, ma mio padre e mio fratello sì. Tania [la figlia con cui Maria Concetta aveva mantenuto contatti, N.d.A.] mi ha detto che l'altra sera parlavano da soli, non davanti a mia madre, e quando non parlano davanti a mia madre io capisco perchè lo fanno. Quando ti portano a casa, ti fanno ritrattare, ti fanno firmare, ti fanno fare tante cose".
La sera del 7 agosto la chiama per avere notizie dei figli, ma, nella circostanza, apprende che lei, il fratello Gregorio e una delle figlie sono partiti per raggiungerla a Genova. Il giorno seguente, tentando di opporre una strenua resistenza alle nuove, immancabili pressioni psicologiche, Maria Concetta si inventa una scusa per non incontrare i parenti, ma l'arma del ricatto morale è - come al solito - troppo forte. Il fratello Gregorio, di fronte alle titubanze della sorella, le fa ascoltare per telefono il pianto e le grida della figlia. E' a quel punto che si arrende: non potendo resistere al desiderio di riabbracciare la piccola, decide di incontrare i parenti in visita vicino alla Questura genovese. Ecco la conversazione telefonica con il fratello:
"Gregorio: Cetta, chi devi chiamare? Perchè devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?
Maria Concetta: Digli di stare tranquilla.
Gregorio: Che sta tranquilla, Cetta, questa qua sta morendo!".
Dopo essere rimasta in loro compagnia per alcune ore, li segue a Rosarno, ma prima invia un messaggio al Servizio centrale di protezione, il cui personale - è il 9 agosto - si reca al suo residence genovese per trasferirla nuovamente (visti i suoi frequenti contatti con i familiari), trovando la porta dell'appartamento socchiusa con le chiavi nella serratura. Nel frattempo, la donna arriva a Rosarno, constatando presto ciò che aveva sempre temuto: contrariamente a quanto assicuratole dai genitori per convincerla a tornare a casa, il loro solo scopo è ed è sempre stato quello di farle ritrattare le dichiarazioni rese ai Pm. Il clima domestico le risulta sempre più ostile, tanto che le vengono requisiti e bruciati tutti i documenti procurati dal Servizio centrale di protezione. La situazione è disperata. Ecco che cosa risponde all'amato Pasquale il 12 agosto, quando le chiede come sia trattata:
"Mia madre bene, ma mio fratello all'inizio mi ha detto di tutto e di più e ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati per farmi ritrattare, dirgli che uso psicofarmaci e che l'ho fatto per rabbia. La loro freddezza verso di me mi fa paura. Vado via se vedo male, ma di buono qui non vedo nulla. Non voglio stare qui".
Prega Pasquale di contattare il Maresciallo Capo del Ros di Reggio Calabria, Salvatore Esposito, per informarlo che i suoi familiari la stanno portando da diversi legali per farle ritrattare le accuse:
"Digli che per colpa della mia leggerezza sono qui. Cosa posso fare?".
Sa, infatti, che di lì a poche ore i genitori l'avrebbero costretta - con una mossa pianificata e studiata nei minimi dettagli e con le assidue violenze psicologiche e minacce di non farle più vedere i figli - a registrare presso uno studio legale un'audiocassetta. Il giorno seguente - 13 agosto - Gaetana (detta Tania) confesserà al padre detenuto in una conversazione telefonica: "Appena l'ho vista, sono scoppiata a piangere". Nella registrazione, Maria Concetta viene infatti obbligata a ritrattare tutto e a ricondurre le sue rivelazioni contro i propri parenti unicamente alla sua rabbia nei loro confronti e a una sua vendetta personale: 
"I magistrati hanno fatto pressione. Io, presa di rabbia, mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perchè ce l'avevo con loro e gliela volevo far pagare. A Bolzano avevo intenzione di tornare indietro, perchè mi stavo rendendo conto di quello che stavo combinando, perchè per rabbia dicevo cose che non c'erano. Sempre sentito dire. Io dicevo cose di cui sentivo parlare le persone, però io mettevo sempre mio padre e mio fratello anche se non c'erano solo per rabbia. Poi, a Bolzano, avevo capito che volevo parlare con un avvocato, perchè mi stavo rendendo conto di quello che stavo combinando, perchè non era giusto quello che stavo combinando per la rabbia, stavo mettendo delle persone che non c'entravano poi alla fine. Gli ho detto che voglio un avvocato, ma loro mi dicevano che non posso avere avvocati perchè la legge non lo permette. Gli facevo capire che volevo tornare indietro e loro mi dicevano <<non tornare, perchè ci sono i tuoi. Renditi conto: la famiglia, il paese non t'accettano per quello che hai fatto, la famiglia non ti perdona. Se prima ti volevano far fuori perchè supponevano una relazione, pensa adesso quello che ti succede>>. In quel momento io sapevo che quello che avevo combinato era troppo grande e avevo paura di tornare veramente indietro, però facevo capire che volevo parlare con un avvocato e che volevo tornare sui miei passi. Quando sono salita in macchina con mio padre, ho capito che mi aveva già perdonato e mi sentivo niente. Però avevo sempre paura non di mio padre, ma di tornare in Calabria. Adesso voglio nominare gli avvocati per tutelarmi. E' da tre giorni che sono a casa mia, tra mio padre, mia madre, i miei fratelli e i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei essere lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno".
Durante l'incisione del nastro, Maria Concetta non è sola, ma è accompagnata dai genitori (al termine della registrazione, si sente una donna che suggerisce alcune parole), i quali rivolgono le loro costanti pressioni anche per persuadere la figlia ad andare a trovare il marito in carcere. In un fitto scambio di sms tra il 13 e il 14 agosto con l'amante Pasquale, si sfoga: 
"Mi sento in gabbia, come posso fare? Come posso uscire da 'sta cosa? Mi vergogno delle cose che ho detto [nella registrazione appena effettuata, N.d.A.]".
Pur rinnovandogli la richiesta di prendere contatto con il maresciallo Esposito per "spiegargli come erano andate le cose" e chiedergli di rientrare nel programma di protezione per testimoni di giustizia, il 17 agosto è lei stessa a chiamare il carabiniere, utilizzando un telefono sconosciuto ai familiari. Vuole continuare a essere difesa, rifugiandosi in una nuova località protetta, ma avendo paura di allontanarsi da sola persino in piena notte, propone di simulare una convocazione in caserma o addirittura un suo arresto. Il 18 agosto pianifica l'ennesima fuga, ma commette un nuovo errore: è convinta di avere dalla sua la complicità o, perlomeno, il favore della madre. Prova a convincerla a prestarle aiuto, ma ottiene sempre e solo la medesima, alterata risposta: "No, Cetta, assolutamente!". Tuttavia, dopo aver ricevuto gli ennesimi, ossessivi tentativi di indirizzare le sue scelte, Maria Concetta trova il coraggio per sbottare:
"Mamma, devi finirla! Madonna mia! Mi stai facendo morire. Me ne vado io, mamma!".
Sono giorni concitati, la giovane testimone di giustizia è dilaniata più che mai nel suo animo. Che fare? Rientrare nel programma di protezione - ma separandosi per sempre dai tre figli per cui è appena tornata a Rosarno - o proseguire a sostenere un'esistenza da reclusa, vittima della sua stessa famiglia? Ulteriore motivo di angoscia è costituito dalla modalità con cui eventualmente scappare:
"Non è facile il modo di uscire di qua, perchè poi mio padre se la prende con mia madre".
Infatti Maria Concetta può uscire di casa solo in compagnia della madre (che ha assunto il ruolo di vigilante), ma, in caso di dipartita notturna, Michele Cacciola non se la sarebbe potuta prendere con la consorte. Lo stesso 18 agosto, però, nell'ultima conversazione telefonica con il maresciallo dei Ros Salvatore Esposito, chiede di rinviare il suo prelevamento, evocando la malattia di una delle figlie, anche se molto probabilmente si tratta di un pretesto al fine di guadagnare tempo prezioso per prendere la sofferta decisione.
Da questo momento, Maria Concetta non comunica più con nessuno.
Il pomeriggio del 20 agosto scende nello scantinato di casa, varca la soglia del bagno e si suicida, ingerendo acido muriatico da un flacone. Muore, senza aver ancora compiuto 31 anni.
Tre giorni dopo, a funerali non ancora celebrati, Michele Cacciola e la moglie si recano spontaneamente alla Procura di Palmi per depositare un esposto-denuncia e consegnare l'audiocassetta (con relativa trascrizione) incisa dalla figlia 8 giorni prima di togliersi la vita, ma spacciata come suo ultimo lascito, in spiegazione del suo gesto fatale. I genitori sostengono di fronte ai magistrati che i Carabinieri di Rosarno - approfittando della debolezza psicologica di Maria Concetta, dovuta a una sua depressione psichica - l'avevano convinta a testimoniare, avendole subdolamente promesso una vita migliore da tutti i punti di vista, anche da quello economico. Ciò - proseguono i coniugi Cacciola di fronte agli inquirenti - aveva fatto sì che la figlia si inventasse tutto, spronata dagli uomini dell'Arma, per ingraziarsi le simpatie dei magistrati. Sarebbe, insomma, stata ingannata con la facile promessa di una vita migliore e più agiata, solo per farle confessare fatti inesistenti e inventati. I genitori hanno pure avuto la faccia tosta di affermare che, una volta ricongiuntasi con loro, Maria Concetta aveva finalmente ritrovato la serenità, frutto delle loro amorevoli attenzioni.
Fortunatamente, i magistrati non si lasciano ingannare e qualificano come totalmente infondata e spudoratamente falsa la versione dei coniugi Cacciola, funzionale all'esclusivo scopo di avvalorare la fantasiosa tesi di una figlia confusa, depressa e inattendibile, sfruttata per di più psicologicamente dalle autorità dello Stato. Anzi, il 9 febbraio scorso vengono arrestati il padre e la madre (mentre il fratello Giuseppe non viene trovato, dunque risulta latitante), su ordine del Gip di Palmi Fulvio Accurso, emesso cinque giorni prima. L'uomo viene portato in carcere, mentre ad Anna Rosalba Lazzaro vengono concessi i domiciliari, con possibilità di comunicare soltanto con i coinquilini e i legali. I reati loro addebitati in concorso morale e materiale sono maltrattamenti in famiglia da cui è derivata la morte e tentata induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria, anche se il Gip - al contrario della Procura - ha riqualificato quest'ultima ipotesi delittuosa in una diversa fattispecie di reato, leggermente più grave: violenza e minaccia per costringere a commettere un reato (il reato contestato dai Pm - tentata induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria - è punito con una pena massima di 4 anni di reclusione, mentre quello mosso dal Gip - violenza e minaccia per costringere a commettere un reato - è punito con una pena massima di 5 anni di reclusione). Secondo il Gip Accurso, infatti, avendo costretto la figlia o la sorella a ritrattare forzatamente le sue precedenti veritiere rivelazioni ai Pm, avevano usato la violenza (fisica e psicologica) e le minacce per indurla a commettere i reati di falsa testimonianza (una volta chiamata a parlare in un aula di Tribunale), favoreggiamento (a vantaggio dei familiari, per la falsa testimonianza estorta) e autocalunnia (accusarsi di aver calunniato il padre e il fratello). Per quanto riguarda, invece, i maltrattamenti tra le mura domestiche causa di morte, il Gip non ha potuto far altro che constatare la lunga serie di maltrattamenti, soprusi, vessazioni, sofferenze e umiliazioni inflitte per ben 8 anni dai congiunti, i quali - ritenendosi disonorati da quella figlia o sorella "ribelle" per aver tradito il marito mafioso in carcere e intrapreso una relazione con un altro uomo - l'avevano malmenata con brutalità, impedito di uscire di casa e pedinata. Il tutto, con la possibilità assai concreta di ucciderla da un momento all'altro. Tali condotte erano state avallate anche dalla madre di Maria Concetta, Anna Rosalba Lazzaro, che non solo non aveva fatto nulla per garantire alla figlia una vita migliore, ma - al contrario - pur consapevole delle percosse arrecate dal marito e dal figlio, si era sempre schierata dalla loro parte, tentando anche di persuadere la figlia a tornare in famiglia e a ritrattare le dichiarazioni esposte agli inquirenti. Per ottenere tale scopo, aveva ripetutamente usato i figli di Maria Concetta, ovvero i suoi nipotini: da un lato per informare la figlia che se avesse voluto rivederli sarebbe dovuta tornare a Rosarno, dall'altro per abbattere una volta per tutte le resistenze di Maria Concetta, raggiungendola a Genova in compagnia di uno di loro. Infine, si era rifiutata di aiutarla a scappare.
Tale clima di sopraffazioni è stato costante e persistente negli anni, così da aver portato la testimone di giustizia al suicidio, causato esclusivamente e direttamente dallo stato di profonda prostrazione e disperazione determinato dal comportamento dei genitori e del fratello Giuseppe. Con il gesto estremo di togliersi la vita, si era sottratta alle costanti sofferenze fisiche e psichiche.
L'arresto dei tre individui è motivato non solo dal pericolo di inquinamento probatorio (se liberi, potrebbero verosimilmente convincere i testimoni a ritrattare, tra i quali Pasquale Improta, che rischierebbe anche pericolose ritorsioni), ma anche dal pericolo che essi (soprattutto Michele e Giuseppe Cacciola) possano reiterare i loro delitti nei confronti dei figli di Maria Concetta (orfani di mamma e con il padre in carcere), tutti minorenni, la cui incolumità fisica e psicologica non può non essere tutelata al meglio. Restando a contatto con i nonni e lo zio, infatti, rischierebbero di subire le stesse costrizioni e violenze patite per anni dalla madre.
Il Gip si sofferma anche a spiegare che cosa significhi vivere in una famiglia di 'ndrangheta: tra le mura domestiche vengono praticate "le regole ferree dell'appartenenza proprie di una famiglia contigua alla 'ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell'esistenza, in ossequio al quale nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso - a chi non lo condivide - di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita. Maria Concetta Cacciola ha pagato con la vita il doloroso prezzo che le ha inflitto il destino, che è stato quello di farla nascere in una famiglia che ha praticato il culto dell'Onore e che non l'ha mai protetta. Una donna che decideva di riferire agli uomini dello Stato quanto aveva appreso tra le mura della sua prigione domestica, nell'illusione di ricevere in cambio l'opportunità di poter prendere finalmente in mano le redini della sua vita, incoraggiata probabilmente in questa sua scelta così coraggiosa da quella analoga che poco tempo prima aveva intrapreso una sua cugina, Giuseppina Pesce, vissuta anch'ella in un ambiente familiare omologo al suo. La cronaca degli ultimi giorni di vita della povera Maria Concetta ci spiega quanto peso abbia avuto il suo rimorso di madre nella sua scelta di ritornare a casa, tanto che sarà proprio quel tarlo interiore a indurla ad abbandonare per sempre quel progetto di riscatto che pensava di avere intrapreso quasi d'istinto, per ragioni di sopravvivenza, ma che non le aveva consentito di calcolare quanto una madre possa essere intimamente e indissolubilmente legata alle persone che ha generato, le cui lacrime e le cui grida di dolore le venivano peraltro fatte ascoltare al telefono dai suoi familiari per farla tornare in Calabria". Insomma, Maria Concetta ha avuto la sfortuna di nascere, crescere e vivere in "un sistema valoriale che antepone la tutela dell'onore familiare mafioso al rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, quali la libertà, l'autodeterminazione e la possibilità di operare liberamente le proprie scelte di vita. Cultura che porta ad anteporre l'interesse a evitare conseguenze giudiziarie per i membri della famiglia a quello di salvaguardare la stessa vita di uno di tali membri, che aveva osato ribellarsi alle regole della famiglia, alle continue vessazioni e aveva cercato la libertà, fisica e morale. Maria Concetta aveva cercato la libertà, ma non vi era riuscita fino in fondo per l'amore verso i propri figli, che avrebbe voluto far vivere in un contesto diverso da quello in cui essa stessa era stata costretta a vivere". Purtroppo, confessa il giudice Accurso, la triste vicenda qui raccontata è solo "la punta dell'iceberg di una fenomenologia sociale assai diffusa da diversi lustri in strati della popolazione calabrese non di trascurabile importanza. E' il ripetersi di altre storie, specie di donne, drammaticamente conclusesi in modo analogo, ma è la riprova che molte persone come Maria Concetta ancora oggi vivono all'interno di famiglie che non consentono il minimo spazio alle aspirazioni di vita diversa e libera, che non tollerano ribellioni, essendo piuttosto da preferirsi la soppressione fisica o l'annientamento del soggetto ribelle alla messa in discussione dei valori mafiosi e del falso, vacuo e fuorviante concetto dell'onore che, solo, può consentirne la perpetuazione".

Per concludere il racconto della storia di Maria Concetta Cacciola, mi sembra doveroso lasciare a lei l'ultima parola. Quello che segue è il contenuto della lettera - scritta a mano su un quaderno - che, con la morte nel cuore, ha indirizzato alla madre nel maggio 2011, prima di lasciare per la prima volta la casa dei genitori per affidare la propria esistenza alle forze dello Stato:
"Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto. Tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia. So il dolore che ti sto provocando, ma spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione. Non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona a cui volevo più bene. Eri tu e per questo ti affido i miei figli: dove non ce l’ho fatta io, so che puoi. Ma di un’unica cosa ti supplico, non fare il mio errore. A loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me… dagli i suoi spazi… se la chiudi è facile sbagliare, perchè si sentono prigionieri di tutto. Dagli quello che non hai dato a me. Ora non ce la faccio più a continuare, voglio solo dirti di perdonarmi, mamma, per la vergogna che ti provoco, ma pian piano mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutto e tutti. Non volevo il lusso, non volevo i soldi, ma la serenità, l'amore che si prova quando fai un sacrificio, avere soddisfazioni, ma a me la vita non ha dato nulla, ma solo dolore, e la cosa più bella sono i miei figli che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti per non farlo capire ai miei figli. Datti forza per loro, non darli a loro padre, non è degno di loro. Stai vicino ad Alfonso perchè in fondo è stato sfortunato, ne ha subite da piccolo, è per questo che ha il carattere in quel modo. So che le femminucce so che ti sentono e per questo sto tranquilla, ma bada di più a lui, è più debole. Io vivrò finchè Dio mi lascia vivere, ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa. Mamma, perdonami, ti prego. Ti chiedo perdono per tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco più a parlare. So solo io quello e come lo sto scrivendo, ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto. So che non ti abbraccerò, nè ti vedrò, ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene, mamma. Abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me. Non lasciarli a loro, non sono degni. Mamma, addio e perdonami, se puoi. So che non ti vedrò mai perchè questa sarà la volontà dell'Onore della famiglia, per cui avete perso una figlia. Addio. Ti vorrò sempre bene. Perdonami, ti chiedo perdono. Addio".

Aggiornamento del 25 aprile 2012
Dopo 2 mesi e mezzo di latitanza il fratello di Maria Concetta Cacciola, Giuseppe, è stato arrestato dai carabinieri a Paderno Dugnano (Milano) mentre usciva da un centro commerciale. La misura cautelare stabilita per lui dal Gip di Palmi Fulvio Accurso con l'ordinanza del 4 febbraio scorso è la custodia in carcere.