lunedì 30 aprile 2012

INFORTUNI SUL LAVORO: DI CHI E' LA COLPA?

Il 19 marzo scorso la IV sezione penale della Cassazione ha depositato le motivazioni di due suoi pronunciamenti (sentenze n. 10712 e 10720), da cui si evince un interessante principio di diritto.
Se un operaio - mentre sta lavorando - perde l'equilibrio, cade da un ponteggio e precipita al suolo, il datore di lavoro risponde di lesioni colpose o di omicidio colposo nel caso in cui non abbia dotato il proprio dipendente delle fondamentali, obbligatorie e idonee protezioni (come, per esempio, la cintura di sicurezza). Ciò anche se l'operaio abbia contribuito al verificarsi dell'incidente con il proprio comportamento negligente e trascurato: è infatti l'imprenditore che deve esigere il rispetto delle norme di sicurezza da parte dei propri operai, essendo garante della correttezza del loro agire.
Se invece un operaio - formato dall'impresa e in possesso delle misure di sicurezza fornitegli - cade per non aver allacciato adeguatamente la cintura di sicurezza, è lui solo il responsabile - materiale e giuridico - dell'incidente, la cui causa è stata assolutamente imprevedibile e inevitabile. Il titolare dell'impresa non può infatti verificare persistentemente e costantemente l'utilizzo dello strumento di sicurezza da parte dei suoi dipendenti.

domenica 29 aprile 2012

GLI ASSASSINI NEGLI APPALTI PUBBLICI


Cosa prevede la legge nel caso in cui un'impresa il cui amministratore abbia subìto una condanna penale partecipi a una gara d'appalto pubblica?
La risposta è contenuta in una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sezione VI, Sentenza 27 marzo 2012, n. 1799): o il bando di gara impone incondizionatamente alle imprese partecipanti di dichiarare qualsiasi condanna penale riportata (l'omessa dichiarazione sarebbe sanzionabile in sede di gara), altrimenti (se il bando si limita a far riferimento all'art. 38 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, ovvero del Codice degli appalti) l'azienda può ritenersi esonerata dal menzionare infrazioni penali di lieve entità, ragionevolmente irrilevanti per fatti scarsamente offensivi o non attinenti agli interessi per la partecipazione alla gara. Una tale evenienza, tuttavia, non ricorre ove sia stato commesso un reato obiettivamente grave, direttamente incidente sull'affidabilità dell'impresa rispetto all'osservanza delle norme di sicurezza a tutela dei lavoratori. Pertanto, se è innegabile la gravità della condanna riportata anche parecchi anni prima della gara d'appalto, l'impresa è sempre obbligata a farne menzione (pena l'esclusione dalla gara) così da consentire alla stazione appaltante pubblica di esprimere le opportune valutazioni e prendere la decisione finale. E' certamente grave - hanno concluso i giudici del Consiglio di Stato - una condanna per omicidio colposo commesso per "imprudenza, imperizia, negligenza e colpa specifica, consistente nella violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro". Una simile pronuncia di responsabilità penale accertata nei confronti di un amministratore aziendale riguarda infatti un delitto che incide su beni e interessi importanti per l'affidabilità della ditta partecipante a un appalto pubblico, chiamata a rispettare sistematicamente le condizioni di sicurezza dei lavoratori. Poi la rilevanza o meno del fatto che la condanna sia intervenuta molti anni prima della gara è oggetto di valutazione spettante unicamente alla stazione appaltante, non all'impresa.
Insomma, gli assassini travestiti da imprenditori sono sempre obbligati a dichiarare di essere tali, sperando che l'ente pubblico organizzatore della gara abbia la dignità e il buon senso di non concedere un solo appalto a quei delinquenti che vogliano arricchirsi con il denaro dei cittadini a spese della vita di chi lavora.

mercoledì 25 aprile 2012

FERROVIE DELLO STATO E AMIANTO


Due ottimi reportages realizzati da ilciriaco.it (23 dicembre 2011) e da ilfattoquotidiano.it (24 aprile 2012) raccontano in poco meno di mezz'ora la storia dell'Isochimica Spa di Avellino. Nei suoi 6 anni di attività - dal 1982 al 1988 - 330 operai hanno avuto il compito di grattare via un'enorme quantità di amianto dalle carrozze di proprietà delle Ferrovie dello Stato. Tutto però a mani nude, senza protezioni, senza mascherine, senza impianti di areazione, con un semplice stecchetto di ferro. Si è calcolato che i lavoratori dell'Isochimica Spa abbiano liberato dall'asbesto 499 elettromotrici e 1.740 vetture passeggeri, per un totale di oltre 2.000 tonnellate di amianto, poi interrato in buche profonde 4/5 metri all'interno dell'azienda oppure raccolto in buste di plastica e smaltito - forse illegalmente - in discariche esterne oppure convogliato dal silos della fabbrica nei tombini della rete fognaria pubblica. Fino a quando il 13 dicembre 1988 la Procura di Firenze ha ordinato la chiusura dello stabilimento. A causa delle indegne condizioni di lavoro sopportate dai lavoratori campani, a oggi si conterebbero 7 morti, 2 malati terminali, 1 suicida e almeno 105 operai affetti da tumori correlati all'asbesto.
Tuttavia, tale triste e desolante rapporto tra Ferrovie dello Stato e amianto non è purtroppo nuovo. Basti ricordare una sentenza della sezione lavoro della Cassazione (14 gennaio 2005, n. 644), con la quale - confermando interamente i verdetti dei due precedenti gradi di giudizio - i giudici hanno condannato le ex Ferrovie dello Stato (divenute nel frattempo RFI - Rete Ferroviaria Italiana) a risarcire un loro ex dipendente per il danno biologico patito a causa di un carcinoma epidermoidale provocato dall'esposizione ad amianto. Il danno è stato quantificato in 145.904.820 lire. Le Ferrovie dello Stato, infatti, si erano rese responsabili della sopravvenuta patologia tumorale per aver violato l'art. 2087 del codice civile, il quale - allo scopo di tutelare le condizioni di lavoro - impone all'imprenditore di adottare tutte le misure necessarie per garantire l'integrità fisica e la personalità morale di chi lavora. La società ferroviaria, al contrario, non aveva tempestivamente adottato le iniziative opportune in difesa dei lavoratori, nonostante fosse scientificamente nota - almeno dagli anni '60 - la pericolosità cancerogena dell'amianto. Proprio l'uso di amianto è stato il fattore sufficiente ed esclusivo per l'insorgere della patologia tumorale, visto che le lavorazioni cui era stato addetto l'operaio dal 1959 al 1971 lo avevano esposto a un notevole rischio di inalazione delle polveri di asbesto. Si era insomma verificato un contatto continuo e non certo occasionale con vetture e materiali per cui era stato utilizzato l'amianto (in particolare, il rilascio delle fibre proveniva dalle casse dei rotabili e dalle pasticche frenanti). La violazione da parte dell'azienda pubblica di trasporto dell'art. 2087 c.c. è resa palese dal non aver mantenuto fede all'obbligo di adottare una serie di misure (e un modo di organizzare l'impresa) tali da garantire attrezzature e servizi idonei alla salvaguardia della salute dei propri operai. Pur trattandosi di una grande azienda pubblica diffusa sull'intero territorio nazionale e dotata di un apposito organismo - il Servizio Sanitario - che si avvaleva di un organico di medici (pertanto non certo privo di competenze scientifiche adatte a tutelare e garantire la salute dei ferrovieri), le Ferrovie dello Stato sono state inadeguate e/o difettose nel rilevare e segnalare tempestivamente al vertice gestionale il concreto, quanto serio pericolo rappresentato dalle fibre di amianto diffuse nel materiale rotabile, non suggerendo alcun rimedio tra quelli già allo studio della comunità scientifica internazionale. Anche se la pericolosità dell'amianto era conclamata da numerosi allarmi manifestati dalla medicina già tempo prima dell'arco temporale 1959/1971, la responsabilità di Ferrovie dello Stato ex art. 2087 c.c. non si è limitata alla violazione di norme d'esperienza o di regole tecniche già collaudate, ma si è estesa al non essersi presa cura dei propri dipendenti, non avendo adottato - come invece avrebbe per legge dovuto fare - tutte le misure e le cautele necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. In un contesto storico - lo si ripete per l'ennesima volta - in cui erano diffusamente risapute le conoscenze scientifiche in materia di pericolosità e cancerogenicità dell'amianto.
   
IL FASCISMO CHE SI RIORGANIZZA

Pochi forse conoscono il primo comma della XII disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione: 
"E' vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista"
E' verosimile che ancora meno persone sappiano esattamente interpretare il significato di tale previsione normativa di rango costituzionale. Per fortuna sono giunte in soccorso tre autorevoli spiegazioni, provenienti dalle sentenze della Corte Costituzionale 26 gennaio 1957, n. 1 (la Consulta era presieduta dall'ex Presidente della Repubblica Enrico De Nicola) e 6 dicembre 1958, n. 74 e da una pronuncia della terza sezione penale della Cassazione del 16 gennaio 1958.
Secondo i collegi giudicanti, la XII disposizione pone sì un divieto, ma non di ordine penale (in tal senso, le norme sono state introdotte nel nostro ordinamento con leggi del 1947 e del 1952). Enuncia "solo" un principio e un indirizzo generali, la cui portata va inquadrata nel contesto storico, politico e sociale da cui ha tratto ispirazione. Tra il 25 giugno 1946 e il 22 dicembre 1947, l'Assemblea Costituente ha riconosciuto la necessità di impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista a tutela del regime democratico che si stava costruendo dopo vent'anni di dittatura. Per garantire ciò, non si sarebbe potuta limitare a considerare i soli atti finali e conclusivi della riorganizzazione in maniera completamente distaccata rispetto a ogni loro antecedente causale; ha fatto così riferimento a tutti quei comportamenti tali da essere sufficientemente idonei a produrre atti ricostitutivi, pur non avendo le caratteristiche di una riorganizzazione vera e propria. Avendo avuto come scopo quello di impedire la rinascita di un partito fascista, i Padri Costituenti non hanno voluto permettere il verificarsi di atti che costituissero un semplice, ma apprezzabile pericolo del riprodursi di un movimento fascista. L'inciso "in qualsiasi forma" della XII disposizione finale e transitoria denota proprio la preoccupazione di non irrigidire il precetto entro limiti formali e di vietare quindi non solo atti riorganizzativi strettamente intesi, ma anche quelli idonei a crearne un mero, ma effettivo pericolo. In tale ottica può essere penalmente proibito dalla legge ogni atto in cui si manifesti tale idoneità, ove si riscontri la volontarietà di una qualsiasi azione tipica del partito fascista. E' chiaro allora che la norma costituzionale non vieta e non punisce una qualsivoglia parola o gesto che ricordi il fascismo o i suoi esponenti (come l'espressione di pensieri o sentimenti di una persona che indossi la camicia nera, intoni un canto di regime o lanci un grido di esaltazione mussoliniana), poichè ciò è tutelato dall'art. 21 della medesima Costituzione quale libera manifestazione di pensiero. Quello che al contrario la XII disposizione vieta e punisce sono le manifestazioni usuali del partito fascista che possano creare il pericolo che il fascismo si riorganizzi come partito. Il fatto incriminato può benissimo essere commesso da una sola persona, ma - a seconda del contesto ambientale e temporale in cui sia compiuto - deve necessariamente trovare circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di idee favorevoli a ricostituire organizzazioni fasciste (come, ad esempio, manifestazioni pubbliche di piazza capaci di impressionare le folle in tal senso). Conseguenza inevitabile è che il reato di apologia di fascismo non consiste in una difesa elogiativa, ma in un'esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista vietata dalla XII disposizione costituzionale. Si tratta, in altre parole, di un'istigazione idonea ed efficiente a commettere un fatto rivolto alla riorganizzazione del partito mussoliniano. L'apologia deve pertanto essere sostenuta da mezzi idonei ed efficaci a far sorgere il pericolo che rinasca un partito fascista, affinchè si impedisca il ritorno - anche attraverso altre manifestazioni proprie del fascismo - di una qualsiasi forma di regime antidemocratico e incostituzionale.
Come quello instaurato alcuni decenni fa da Benito Mussolini.    

martedì 24 aprile 2012

DEPRESSIONE POST PARTUM

Nel caso in cui una donna soffra di depressione post partum e il marito la aggredisca frequentemente (fisicamente o moralmente), quest'ultimo risponderebbe del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p. - fino a 5 anni di carcere, fino a 8 anni se deriva una lesione personale grave, fino a 15 anni se ne consegue una lesione gravissima) solo se il suo comportamento sia stato abituale e generato dalla consapevole volontà di indurre la moglie in una situazione di costante soggezione, asservimento e timore psicologici, avendole imposto un regime di vita vessatorio volto a mortificarne la personalità. Se invece le aggressioni dell'uomo si siano manifestate attraverso singoli episodi allo scopo di cercare di "scuotere" la moglie dal proprio stato di torpore depressivo - senza quindi alcun desiderio di prevaricazione - possono pur sempre sussistere altre ipotesi delittuose, come lesioni personali (art. 582 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.) o minaccia (art. 612 c.p.); tuttavia la pena sarebbe nettamente inferiore. L'imputato, infatti, rischierebbe solamente una condanna a 3 anni - pertanto niente galera - o una multa di 516 euro.
Così si è recentemente espressa la VI sezione penale della Cassazione, con la sentenza 23 aprile 2012, n. 15680.

lunedì 23 aprile 2012

MAFIOSI FUORI DAL COMUNE

Con la sentenza di 1° grado emessa dal Gup di Milano Claudio Castelli il 20 giugno 2011 (con motivazioni depositate il 19 luglio seguente), Antonino Belnome - nato 40 anni fa a Giussano (Milano) e detenuto presso il carcere di Opera - è stato condannato a 11 anni e 6 mesi di reclusione per associazione mafiosa, omicidio premeditato, detenzione e porto in luogo pubblico di armi e ricettazione, il tutto commesso a San Vittore Olona e nel milanese allo scopo di agevolare l'attività della 'ndrangheta. Belnome, infatti, era uno dei capi e degli organizzatori della locale di Seregno e Giussano, le cui amministrazioni comunali si sono volute costituire come parti civili nel processo per chiedere un risarcimento danni al boss mafioso. Il giudice ha accolto pienamente tale richiesta, condannando l'imputato a risarcire l'"eclatante", quanto "rilevantissimo" danno d'immagine (quantificabile in sede civile, anche se Belnome ha dovuto da subito versare alle due casse comunali una provvisionale di 10.000 euro ciascuna) arrecato loro dall'operatività dell'organizzazione mafiosa nel proprio territorio e dal conseguente clamore mediatico che ciò aveva necessariamente suscitato. Ergo, un importante boss mafioso assassino è tenuto a risarcire le comunità di Seregno e Giussano per aver fatto sì che queste siano state associate alla presenza di associazioni criminali e al pericolo provocato dai conseguenti delitti commessi e potenziali. Non solo: Antonino Belnome deve anche rifondere ai due Comuni tutte le spese legali sostenute (2.500 euro l'uno).
Pertanto, le Amministrazioni di Seregno e Giussano non solo hanno svolto appieno il loro ruolo istituzionale - schierandosi apertamente contro le 'ndrine - ma ci hanno pure economicamente guadagnato, sottraendo il denaro a un boss malavitoso. Quindi la domanda non può che sorgere spontanea: perchè molti Comuni italiani non si costituiscono parte lesa nei procedimenti di mafia, dimostrando una preoccupante inettitudine (se non una piena complicità mafiosa) e rinunciando a mettere le mani in tasca ai delinquenti più efferati e pericolosi?
         

lunedì 16 aprile 2012

PER CARLO PETRINI 

Stamane è morto Carlo Petrini, 64 anni, ex calciatore di Genoa, Milan (allenato da Nereo Rocco), Torino, Roma e Bologna, autore di numerose denunce pubbliche (raccolte in numerosi libri e in un meraviglioso documentario intitolato "Centravanti nato") sul doping nel calcio, sul calcioscommesse anni '80 e sull'omicidio del collega Donato Bergamini (calciatore del Cosenza trovato morto il 18 novembre 1989 sulla strada statale 106 Jonica, ucciso - secondo Petrini e non solo - dalla 'ndrangheta per aver scoperto di essere stato usato inconsapevolmente come corriere della droga).
Ecco alcune sue recenti dichiarazioni, rilasciate in un'intervista a "Il Fatto Quotidiano" pubblicata il 28 dicembre 2011:

"Ho tumori al cervello, al rene e al polmone. Ho un glaucoma, sono cieco, mi hanno operato decine di volte e dovrei essere già morto da anni. Nel 2005 i medici mi diedero tre mesi di vita. E’ stato il calcio, ne sono certo. Con le sue anfetamine in endovena da assumere prima della partita e i ritrovati sperimentali che ci facevano colare dalle labbra una bava verde e stare in piedi, ipereccitati, per tre giorni. Ci sentivamo onnipotenti. Stiamo cadendo come mosche";

“Sono un presuntuoso, un coglione, uno che credeva di essere un semidio e morirà come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo tutto e ora non ho niente”;

"I miei errori iniziarono a metà degli anni '60, al Genoa. Siringhe, sostanze. La chiamavano la bumba. Avevo 20 anni. Non smisi più. Il nostro allenatore, Giorgio Ghezzi, ex portiere dell’Inter, ci faceva fare strane punture prima della gara. Un liquido rossastro. Se vincevamo, si continuava. Altrimenti, nuovo preparato. Rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren o le terapie selvagge ai raggi X significava essere eliminati. Fuori dal circo. Indietro, in cantina, senza ragazze o macchine di lusso.
Continuai ad assumere sostanze proibite ovunque andassi. A Roma il massaggiatore ce lo diceva ridendo: “A ragà, forza, fa parte der contratto”. A Milano, dove mi allenava Rocco, feci invece i raggi Roengten per guarire da uno strappo muscolare. Non so se Nereo sapesse. 
Hanno sperimentato su di noi. Non ci curavano, ci uccidevano. Vorrei sapere con quali ausili gli eroi contemporanei disputano 70 incontri l’anno.
Allenatori, calciatori, presidenti hanno nascosto tutto. Ai nostri tempi le punture le faceva chiunque e un minuto dopo sentivi un mostro che ti sollevava e ti faceva volare.
Parliamo di gente che ha inseguito una sfera e muore nell’indifferenza in una guerra non dichiarata. Non può non esserci una relazione tra le mie malattie e quelle di altri calciatori";

"Salvai la Juve. Nell’80 giocavo con il Bologna. Bettega ci propose l’accordo. Tutto lo spogliatoio del Bologna scommise 50 milioni sul pareggio. Prima della partita, nel sottopassaggio, chiesi a Trapattoni e Causio di rispettare i patti: “Stai tranquillo, Pedro, calmati”, mi risposero.
Tutta la Juve sapeva. Finì 1-1: errore del nostro portiere e autogol di Brio. Bettega ce lo diceva, durante la partita: “State calmi, vi faccio pareggiare io”. La gente ci fischiava e tirava le palle di neve. Una farsa. Quando lo scandalo esplose, Boniperti e Chiusano mi dissero di scovare Cruciani e convincerlo a non testimoniare contro la Juve: se li avessi aiutati, loro avrebbero aiutato me. Fui di parola, incontrai Cruciani al cancello 5 di San Siro, ero mascherato. Lui accettò e la Juve si salvò dalla retrocessione".


Ora, poichè uno dei suoi libri (tutti pubblicati dalla casa editrice Kaos e tutti di grande successo, quindi censurati dai media) si intitola "Scudetti dopati. La Juventus 1994-98: flebo e trofei", voglio ricordare Carlo Petrini, facendo memoria di come si sia concluso il processo penale intentato all'ex responsabile del settore medico dei bianconeri (dott. Riccardo Agricola) e all'ex amministratore delegato (Antonio Giraudo). I principali reati contestati erano frode sportiva e somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute. Con la sentenza 31 maggio 2007, n. 21324, la seconda sezione penale della Cassazione ha definitivamente stabilito che entrambi i delitti sono stati commessi tra il 1994 e il 1998, ma sono caduti in prescrizione. Infatti ai giocatori della Juventus venivano sistematicamente somministrate sia sostanze lecite al di fuori del contesto autorizzativo individuato dal Ministero della Salute (o, comunque, in forme non consentite), sia sostanze vietate (i corticosteroidi). Al contrario, invece, per quanto riguarda l'eritropoietina (meglio conosciuta come Epo), sussistevano soltanto probabilità e sospetti, non certezze. Insomma, in esecuzione di un unico disegno criminoso, per ben quattro stagioni consecutive (dove la Juventus di Marcello Lippi ha vinto tutto, tra scudetti e trofei internazionali) la società torinese ha ordinato e somministrato ai propri giocatori enormi quantitativi di farmaci per indicazioni terapeutiche incompatibili con lo stato di salute degli atleti - mettendo così in pericolo la loro incolumità - al solo scopo di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento delle partite, truccando e falsando gli incontri attraverso un uso distorto, sconsiderato e ingiustificato di farmaci (anche illeciti).
Come già denunciato da Carlo Petrini nel 2005, due anni prima del verdetto della Cassazione.

domenica 15 aprile 2012

QUANDO EQUITALIA VIOLA (ANCORA) 
LA LEGGE 

Su questo blog ho già avuto modo di raccontare le violazioni di legge di Equitalia riconosciute dalla magistratura giudicante. Tuttavia, se un mese fa il caso riguardava la decisione presa da un singolo giudice del Tribunale civile di Tivoli (Alessio Liberati), la sentenza di cui mi occupo oggi è stata invece adottata dal massimo organo giurisdizionale italiano - le Sezioni Unite della Cassazione - composto da ben 9 magistrati. Con la pronuncia 12 aprile 2012, n. 5771, esso si è occupato di un'iscrizione ipotecaria effettuata da Equitalia su due terreni per il mancato pagamento di una cartella esattoriale di 2.028,66 euro (contributi per opere irrigue realizzate da un consorzio di bonifica tra il 2000 e il 2003).
I Supremi giudici hanno rammentato alla società pubblica incaricata di riscuotere i tributi che il sistema normativo cui essa deve vincolare le proprie azioni è delineato dagli articoli 76 e 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, i quali impediscono l'iscrizione di ipoteca per importi inferiori a 8.000 euro (soglia minima per l'espropriazione immobiliare sancita dal decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito in legge 22 maggio 2010, n. 73. Da notare che all'inizio il limite minimo era addirittura pari a 20.000 euro, poi passato a 5.000 euro e infine a 8.000 euro). Infatti, l'ipoteca - come del resto il fermo di beni mobili registrati del debitore - è un atto preordinato all'espropriazione, per cui fa fede il margine minimo fissato per quest'ultima (8.000 euro, appunto). Pertanto, avendo Equitalia iscritto un'ipoteca per un credito di soli 2.028,66 euro - nettamente inferiore rispetto all'importo minimo previsto dalla legge - la Cassazione ha annullato definitivamente l'ipoteca per violazione degli articoli 76 e 77 del DPR 602/73.
Gli esattori delle imposte avranno finalmente imparato la lezione (giuridica)?


venerdì 6 aprile 2012

UN MAFIOSO IN THAILANDIA 


La sera del 30 marzo scorso Roberto Vito Palazzolo è stato fermato all'aeroporto di Bangkok (Thailandia)  grazie a un'operazione dell'Interpol. Nato a Terrasini (Palermo) il 31 luglio 1947, vive da latitante in Sudafrica dalla fine di dicembre del 1986. Condannato in via definitiva per associazione mafiosa a 9 anni di carcere nel 2009 (pena mai scontata), quando è stato bloccato dalla polizia locale stava per tornare proprio in Sudafrica.
Il personaggio è citato più volte nell'Ordinanza-Sentenza dell'8 novembre 1985 contro Abbate Giovanni + 706 redatta dall'Ufficio Istruzioni Processi Penali del Tribunale di Palermo, composto dai giudici Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli. Si tratta del documento giudiziario con cui il pool antimafia palermitano - rinviando a giudizio 475 presunti mafiosi - avviò il celeberrimo maxiprocesso (celebrato in primo grado dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987).    
Secondo i magistrati, Roberto Vito Palazzolo era coinvolto nel riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga, tanto da essere particolarmente vicino a Filippo Salomone, elemento di spicco di Cosa Nostra, abitante negli Stati Uniti e addetto al reimpiego dei soldi frutto del traffico di stupefacenti. Nel 1983 si occupò del viaggio di una nave trasportante un carico di 233 chili di eroina dalla Thailandia (dove Palazzolo sarebbe stato fermato dalle forze dell'ordine 29 anni più tardi). Proprio Palazzolo avrebbe dovuto incontrare alla fine di maggio del 1983, presso l'hotel Sheraton di New York, un tale Koh Bak Kin, importante intermediario di Singapore nella fornitura di ingenti partite di droga. Quest'ultimo, per l'affare dell'eroina trasportata via mare, ricevette a Zurigo un acconto di ben 700.000 dollari da tal Roberto, giunto su una Mercedes guidata da Antonio Ventimiglia, anch'egli originario di Terrasini. e molto legato al compaesano Roberto Vito Palazzolo, all'epoca residente in Svizzera e già coinvolto in un procedimento penale per traffico di droga presso il Tribunale di Roma. Per Falcone, Borsellino e gli altri colleghi, i rapporti con Koh Bak Kin non potevano affatto essere gestiti da una singola famiglia mafiosa - quella di Partanna Mondello capeggiata dal boss Rosario Riccobono - ma solamente da coloro i quali si occupavano del traffico di sostanze stupefacenti con gli Stati Uniti e potevano chiedere e pagare enormi quantità di droga. Insomma, i giudici palermitani scoprirono un importante canale di collegamento internazionale che - attraverso Roberto Vito Palazzolo, Antonio Ventimiglia, Antonino Rotolo, Nunzio La Mattina e Tommaso Spadaro - faceva capo direttamente ai vertici di Cosa Nostra, i soli a poter godere delle gigantesche disponibilità finanziarie necessarie per simili operazioni criminali. Pertanto, all'inizio degli anni '80, anche attraverso la Thailandia, Koh Bak Kin forniva alla mafia siciliana centinaia di chili di eroina, trasportati via mare da appositi corrieri.
Ma Cosa Nostra non si limitava a importare droga dal Sud-Est asiatico. Ad esempio, nel 1982 i mafiosi acquistarono 400 chili di morfina base dal turco Yasar Avni Mussullulu al prezzo di 6,5 milioni di dollari (ovvero 13.000 dollari al chilo). I pagamenti di denaro - giunto in Svizzera dagli Stati Uniti - venivano effettuati da Antonino Rotolo a Lugano e a Zurigo (sarebbero poi arrivati a 17 milioni di dollari). La prima consegna - 5 milioni di dollari - avvenne in un ufficio di Palazzolo a Lugano, in sua presenza, visto che si occupava degli spostamenti di denaro, motivo per il quale era spesso in compagnia di Rotolo. Palazzolo era collegato anche con Antonino Madonia, all'epoca residente in Germania e indicato da Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno quale membro della pericolosissima famiglia mafiosa di Resuttana, vicina ai Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Nei confronti di Roberto Vito Palazzolo, l'11 giugno 1985 lo stesso Ufficio Istruzione di Palermo emise un mandato di cattura per associazione per delinquere - anche di stampo mafioso - finalizzata al traffico di ingenti quantitativi di stupefacenti. Tuttavia, il pool siciliano stralciò la sua posizione dal procedimento poichè erano necessari ulteriori approfondimenti investigativi. Ora, dopo 27 anni, il fermo di Palazzolo è sicuramente uno dei modi migliori per ricordare gli anniversari delle morti di tre magistrati del pool di Palermo: 20 anni fa furono barbaramente assassinati Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992), mentre 10 anni or sono venne a mancare Antonino Caponnetto (6 dicembre 2002).

lunedì 2 aprile 2012

UNO STATO NEMICO DEI BAMBINI

Oggi propongo ai lettori del mio blog un piccolo indovinello.
Sapreste indicare il nome dello Stato cui si riferiscono le seguenti parole tratte dall'ultimo rapporto annuale di Amnesty International (2011, presentato a Roma il 12 maggio 2011, dati del 2010)?

"Non ha adempiuto in modo sufficiente ai propri obblighi internazionali in materia di protezione dei minori";

"Ancora una volta, non ha presentato il suo 2° rapporto periodico sulla Convenzione per l'infanzia (che doveva presentare nel 1997), nè il rapporto iniziale sulla Convenzione contro la tortura (che doveva presentare nel 2003)";

"Costante fallimento nell'affrontare correttamente il problema dei diffusi abusi sessuali su minori degli ultimi decenni. Tale fallimento ha compreso la mancata rimozione dei presunti responsabili dai loro incarichi in attesa di indagini adeguate, la mancata cooperazione con le autorità giudiziarie per portarli davanti alla giustizia e il non aver garantito un'adeguata riparazione alle vittime";

"Il suo diritto interno non include l'obbligo di denunciare i casi alle autorità per le indagini penali. La segretezza è obbligatoria durante tutto il procedimento".

Ebbene, avete indovinato? No?
Allora sono costretto a rivelarvelo: si tratta della Città del Vaticano, della quale la nota associazione per i diritti umani si è occupata per la prima volta in un apposito capitolo del suo rapporto annuale.

domenica 1 aprile 2012

VIOLENZA ISLAMICA

Un cittadino marocchino di fede islamica costringeva la figlia di 12 anni a studiare il Corano fino all'una di notte e la percuoteva quotidianamente ogniqualvolta non ne avesse saputo ripetere perfettamente a memoria i versi. Alla povera bambina il padre imponeva sistematicamente una vita infernale, impedendole di dormire per un numero di ore sufficiente per il suo sviluppo psico-fisico e colpendola persino con un manico di scopa. Per fortuna lo zio della piccola (il fratello del padre violento) si era comportato in maniera divergente: dopo che una volta la nipotina si era rifugiata da lui e il fratello voleva riprendersi la figlia usando la consueta violenza, si era schierato in difesa della ragazzina e aveva chiamato i carabinieri.
Processato, l'uomo è stato condannato per maltrattamenti e lesioni aggravate in tutti i gradi di giudizio: prima dal Gup di Ravenna (sentenza del 12 novembre 2007), poi dalla Corte d'Appello di Bologna (sentenza del 2 marzo 2010), infine dalla Cassazione (sezione VI penale - sentenza 30 marzo 2012, n. 12089).
L'imputato - attraverso i suoi legali - si era difeso sostenendo di aver agito per finalità educative in un contesto culturale e familiare rigidamente patriarcale, che lo avrebbe fatto sentire legittimato a comportarsi da "padre padrone", secondo il proprio codice etico-religioso. Se era ricorso all'uso della forza, insomma, era stato solo per il bene della piccola figlia; per di più, essendo egli estraneo al processo di evoluzione del costume e delle scienze pedagogiche, ciò avrebbe dovuto costituire un motivo di giustificazione (la non conoscenza delle norme italiane).
Nessun giudice però ha potuto condividere tale formulazione difensiva, dal momento che è assolutamente irrilevante l'ignoranza della legge penale quando le condotte dell'imputato - come nel caso trattato - abbiano palesemente violato i diritti fondamentali della persona umana riconosciuti dalla Costituzione italiana, giacchè questi ultimi rappresentano uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione nella società di prassi, usi e costumi "antistorici" rispetto ai risultati raggiunti con l'affermazione e la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo. Secondo i magistrati, il comportamento violento e intenzionalmente vessatorio dell'imputato è stato frutto di una consapevole, quanto ingiustificabile scelta a fronte di un sistema di valori costituzionali opposto.