lunedì 24 settembre 2012

DON PEDOFILO

Il sacerdote ritratto in fotografia è un pedofilo.
Si chiama don Luciano Massaferro, è nato a Savona nel gennaio del 1965 e fino a tre anni fa esercitava il proprio ministero in qualità di parroco della chiesa di San Vincenzo Ferreri ad Alassio (della sua storia mi sono già brevemente occupato nel febbraio scorso).
Ora, dopo essere stato ritenuto colpevole da tutti i magistrati – di ogni ordine e grado – occupatisi di lui, l’ulteriore conferma (definitiva) è arrivata anche dalla Cassazione.
Il 20 luglio 2012, infatti, la III sezione penale della Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Genova (che a sua volta aveva confermato il verdetto di 1° grado del Tribunale di Savona), ritenendo il sacerdote colpevole del reato di atti sessuali continuati con minore di anni 14 commessi da persona cui il minore è affidato, con abuso dei poteri e in violazione dei doveri sacerdotali e condannandolo a:

- 7 anni e 8 mesi di reclusione;
- interdizione perpetua dai pubblici uffici;
- interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente la tutela e la curatela;
- interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, da ogni ufficio e servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori;
- interdizione legale durante l'esecuzione della pena;
- risarcimento dei danni cagionati alle parti civili (180.000 euro alla piccola vittima e 10.000 euro alla madre); 
- rifusione a favore delle parti civili delle spese legali sostenute;
- pagamento delle spese processuali;
- pagamento delle spese di mantenimento in carcere.

Per questo don Luciano è stato portato al carcere di Chiavari, per poi essere trasferito in quello di La Spezia, dove si trova tuttora.
Almeno per il momento.
Già, perché dopo il suo arresto – avvenuto il 29 dicembre 2009 in esecuzione di un’ordinanza di custodia in carcere richiesta dal Pm Alessandra Coccoli e firmata dal Gip di Savona Emilio Fois - il parroco ligure ha prima trascorso 9 mesi in galera, poi 1 anno e 10 mesi agli arresti domiciliari fino al 20 luglio scorso, quando - a condanna definitiva - è tornato in carcere. Qui rimarrà circa 10 mesi, poi verosimilmente andrà in affidamento ai servizi sociali e nuovamente agli arresti domiciliari.
Il calcolo è presto fatto.
Avendo già scontato – tra carcere e domiciliari - 2 anni e 7 mesi, rimangono 5 anni e 1 mese, a cui però vanno tolti 3 anni di affidamento ai servizi sociali e 1 anno agli arresti domiciliari. Resta 1 anno e 1 mese, al quale devono essere sottratti ulteriori 3 mesi per aver partecipato “all'opera di rieducazione”, ovvero per non aver creato problemi e aver fatto il bravo detenuto. 
Ma come si è arrivati a una simile condanna?
Per scoprirlo, basta leggere le motivazioni della sentenza emessa il 18 novembre 2011 dalla Prima Sezione Penale della Corte d’Appello di Genova, resa definitiva dalla Cassazione.

I fatti si svolgono ad Alassio nel maggio 2009.
Approfittando dell'autorità conferitagli dal ruolo di parroco, don Luciano Massaferro costringe in più occasioni una bambina non ancora dodicenne (manca poco più di un mese al compimento dei 12 anni), affidata alle sue cure in quanto abituale frequentatrice dell'oratorio e chierichetta della parrocchia, a compiere e subire atti sessuali.
Gli abusi si svolgono in tre momenti diversi dello stesso pomeriggio:

1) dopo aver convinto la piccola ad accompagnarlo (come chierichetta) durante il giro di benedizioni delle case prima di Pasqua, mentre si trova con lei in sella al ciclomotore utilizzato per spostarsi da una casa all'altra, la informa di essere nudo sotto la tonaca, inducendola ad afferrargli e stringergli il pene, dicendole che più forte avesse stretto più veloce sarebbe andato il ciclomotore;

2) ultimate le benedizioni, invita la bambina a seguirlo nel capanno degli attrezzi presso il suo orto e - una volta all'interno e chiusa la porta - si sfila la tonaca rimanendo nudo, costringendo la ragazzina a masturbarlo. Le prende la mano, la porta sul proprio pene, le mostra il gesto e le dice: "tocca, tanto non puzza", quindi tocca la piccola nelle parti intime, sotto le mutandine e sotto la maglietta;

3) dopo aver lasciato l'orto, accompagna la giovane vittima presso la propria abitazione (la canonica) attigua alla chiesa. All'interno della biblioteca la palpeggia nuovamente sul seno e nelle parti intime, facendole giurare di non raccontare quanto successo, avvertendola che - altrimenti - Dio l'avrebbe punita e lui avrebbe detto a tutti di averla vista nuda.

La bambina comprende subito che se dovesse parlare, sarebbe obbligata ad affrontare la vergogna e il peso del sospetto di aver mentito. Così decide di non fare parola con nessuno delle reiterate violenze subite dal sacerdote.
Per ben 2 mesi si tiene dentro tutto: ansie, timori, vergogne e sofferenze.
Fino a luglio, quando racconta tutto ad alcune bambine di 9/10 anni (dunque più piccole di lei), mentre insieme attendono gli educatori su una panchina alla fine di una giornata di vacanza al campo estivo di Alassio. Le giovanissime interlocutrici sospettano della serietà del racconto: sono troppo affezionate a don Luciano per credere a un racconto così raccapricciante. Tuttavia, nessuna di loro dice nulla ai propri familiari, rispettando la raccomandazione dell'amica, la quale ha paura di essere esclusa dal ruolo di chierichetta (a cui tiene molto) e teme che il parroco metta in atto la minaccia di rivelare a tutti di averla vista nuda.
In ogni caso, la rivelazione della sua storia agli adulti non tarda ad arrivare, anche se in via incidentale.
Il 13 agosto 2009 la madre la rimprovera per la condotta di cui si sono lamentati gli educatori del campo estivo. A quel punto, solo a quel punto, la dodicenne reagisce, avvertendo l'ingiustizia che sta vivendo, proprio lei che è stata vittima di colui che tutti stimano.
Così rivela di aver subito abusi sessuali dal parroco, prima alla madre, poi agli altri familiari.
Da quel momento non ha più esitazioni, neppure dinanzi allo stesso don Luciano, che vuole incontrare per accusarlo - con coraggio - di fronte ai propri familiari, benché costoro l'avessero avvertita che se avesse mentito, le conseguenze sarebbero state molto gravi.
I membri della famiglia non solo sono molto sbigottiti, ma sono i primi a chiedersi se credere alla piccola congiunta. E' proprio per dare risposta a tali loro dubbi che decidono di accompagnarla all'ospedale Gaslini di Genova. 
E' il 17 settembre 2009. 
Dalle rivelazioni esternate alla madre è trascorso più di un mese, non certo per caso.
Al Gaslini la bimba racconta la triste esperienza vissuta a una psicologa. Gli operatori sanitari verificano la serietà delle parole della dodicenne e - in maniera del tutto autonoma - segnalano gli abusi alle autorità, all'insaputa del parroco. I magistrati aprono d'ufficio un'indagine, proprio in seguito alla segnalazione inoltrata loro dal personale dell'ospedale genovese.
Nasce così il procedimento penale nei confronti di don Luciano Massaferro, senza alcuna denuncia presentata dai familiari della vittima. Non solo essi non querelano il parroco, ma gli assicurano di non aver alcuna intenzione di sporgere denuncia nei suoi confronti. Addirittura, mentre dubitano che la propria congiunta racconti un sacco di bugie, i familiari si preoccupano per la salute del parroco: per lui non auspicano il carcere, al massimo un semplice trasferimento.
Poi è tutto un susseguirsi di fatti: il 20 novembre 2009 la vittima ripete il racconto in Questura, a Savona, con la presenza di una psicologa; il 29 dicembre don Luciano Massaferro viene arrestato e portato nel carcere di Chiavari; un mese dopo, il 29 gennaio 2010, la piccola ripete i suoi racconti al Gip e a un perito nel corso dell'incidente probatorio.
Nel frattempo, come da lei stessa richiesto, la bambina continua a frequentare la parrocchia dove si trova a suo agio e può frequentare le sue amiche, finchè ai familiari viene fatto capire che sarebbe stato meglio se non avesse più frequentato gli ambienti parrocchiali. 
Così avviene, nonostante la ragazzina partecipasse sempre alle attività parrocchiali, piena di entusiasmo, passione e con una certa dose di ambizione personale: sarebbe tanto voluta diventare "chierichetto cerimoniere". Il suo allontanamento "forzato" provoca così in lei nuova sofferenza e il pentimento di aver parlato, visto che è a causa delle sue parole se perde quasi tutte le amicizie. E' persino costretta a ricevere la cresima ad Albenga.
Intanto, ad Alassio, parte una strenua campagna d'opinione dal duplice scopo: difendere strenuamente il sacerdote e denigrare spudoratamente la sua piccola accusatrice.
Iniziano a moltiplicarsi le voci - concordi - di educatori, bambini, insegnanti e mamme su un anomalo comportamento della vittima, la quale viene indicata come troppo vivace, agitata, manesca, violenta, triviale, pronta a discolparsi accusando gli altri quando venga rimproverata, dotata di un'aggressività incontenibile.
Ciò non si ferma alle voci all'interno della comunità, ma approda nelle aule di giustizia, dove si celebra il processo contro don Luciano Massaferro.
Infatti, durante il dibattimento, molte testimonianze descrivono la vittima con tinte sempre più fosche.
Viene pubblicamente additata di esercitare molestie nei confronti degli altri bambini, arrivando persino a essere impietosa con gli animali; viene accusata - lei che è parte lesa di reiterate violenze sessuali - di esercitare condotte sessuali perverse: ad esempio, alcuni testimoni rivelano sotto giuramento che in terza elementare si fosse invaghita di un compagno e lo avesse tormentato, fino a aver tentato di baciarlo e palpeggiarlo contro la sua volontà; che in mensa fosse solita toccare il pene ai maschietti; che mordesse i genitali dei compagni sotto i tavoli; che mostrasse le mutande come quelle delle adulte; che andasse in giro senza mutande; che salisse in groppa ai maschi solo per toccarli nelle parti intime.
Persino i giudici rimangono sorpresi dell'ostinazione con cui molti testimoni abbiano parlato di numerose bugie della piccola (anche risalenti nel tempo) e riferito di sue intemperanze ai rimproveri, come se fossero stranezze incomprensibili dell'infanzia.   
Insomma, dal racconto dei testimoni a difesa dell'imputato, si assiste a una vera e propria vocazione alla menzogna e alla perversione sessuale da parte della bambina.
L’imputato diventa vittima e la vittima diventa imputato. E' il mondo alla rovescia.
E dire che gli educatori della parrocchia, ascoltati alle prime udienze del processo, avevano sì affermato la difficoltà incontrata nel rapportarsi con una ragazzina che non ubbidiva e non rispettava nessuno, ma non avevano mai parlato di interessi per gli organi sessuali. Secondo gli stessi educatori, la piccola era solo maleducata e irrequieta, trasandata nell'igiene e nella cura della propria persona, insensibile ai rimproveri. Ma nulla di più.
Poichè i limiti della vittima sono stati decisamente amplificati nel corso del processo, i giudici ritengono che la sua immagine sia stata distorta.
Perciò la riportano alla realtà.
La vittima ha raccontato i fatti con pacatezza e senza accanimento; ha descritto particolari che non avrebbe potuto conoscere alla sua età se non li avesse visti personalmente; ha ricordato con spontaneità infantile i toccamenti del parroco sul petto, affondando le mani anche nelle parti intime, nella "zona da cui escono i bisogni".
Ha descritto lo smarrimento provato, ha spiegato che si era chiesta che cosa volesse quest'uomo e se fosse matto, per concludere mestamente di aver capito di essersi "sviluppata". 
Ha quindi spiegato che anche altre volte il parroco le aveva toccato il petto, quando era sola con lui e gli altri bambini si trovavano in un altro locale della canonica, mimando con le mani il gesto dell'uomo sul suo corpo e sottolineando la particolare attenzione per "le tette".
Dalle immagini dell'incontro in Questura del 20 novembre 2009, si desumono un comportamento composto e risposte chiare, pacate e coerenti.
Si è limitata a esporre i fatti, non senza un comprensibile imbarazzo.
Ha espresso il suo disorientamento e la sua delusione per essere stata vittima di una persona verso cui nutriva fiducia.
Non ha inveito, nè esagerato, nè aggiunto particolari al racconto che aveva reso alla madre.
Ha esternato un forte rammarico per l'isolamento cui è stata condannata dalla società alassina, dal momento che quasi tutti la scansano o le rivolgono rimproveri per aver osato accusare il parroco.
Ha espresso il timore di incontrare nuovamente il suo carnefice, spiegando che tutte le mattine, per recarsi a scuola da Alassio ad Albenga, deve aspettare il pullman proprio alla fermata vicino alla chiesa.
Ha risposto con equilibrio e logica a ciascuna domanda, sapendo distinguere il livello culturale dei suoi cari ed esponendo i suoi obiettivi futuri: laurearsi ed entrare in Polizia.
Ha spiegato i suoi rapporti con gli altri, mantenendo autocontrollo e apparendo matura, consapevole ed equilibrata.
Non ha manifestato alcun segno di crescita precoce, né di particolare attenzione per il mondo maschile, negato anche dalle coetanee: a nessuno è risultato avesse un fidanzatino.
Da tutto ciò i giudici traggono una conclusione semplice e chiara: la bambina non è una visionaria che vive nel mondo della fantasia, incapace di distinguere tra realtà e immaginazione. Anzi, è pienamente attendibile, tanto da dover essere evidenziate le sue piene capacità, confermate anche da un punto di vista clinico.
E dire che, fin da quando il racconto della vittima si era diffuso nell'ambiente della canonica, Don Luciano Massaferro e altri avevano cercato di scoraggiarla, agendo all'unisono al fine di creare le premesse per screditare la piccola: se la famiglia stessa avesse chiesto per lei un supporto psicologico, sarebbe stata la prova della consapevolezza di un disagio della bambina e quindi non sarebbe stata minimamente creduta da nessuno. 
Per di più, la vittima non nutriva alcun astio nei confronti del suo parroco, ma gli era affezionata non meno degli altri parrocchiani, anche perché era l'unica persona che le offriva diverse opportunità di svago e divertimento. 
Perchè avrebbe dovuto architettare accuse infondate, pur consapevole del rischio di perdere chi le offriva una vita serena? Per mettersi al centro dell'attenzione?
Secondo i giudici, una simile tesi è "priva di concretezza": la ragazzina conosceva altri mezzi per attirare l'attenzione su di sé, se non fosse almeno per la sua non ignorabile vivacità. Sapeva benissimo che chiunque avrebbe creduto al parroco e non a lei e che - se lo avesse accusato - sarebbe stata bandita e non avrebbe più potuto frequentare l'ambiente in cui si trovava a suo agio. Prova ne è il fatto di aver taciuto per tanto tempo per la paura di non essere creduta. 
Aveva parlato con le amichette, convinta che non si sarebbe esposta a conseguenze, mentre avrebbe continuato a tacere con gli adulti, se la madre non l'avesse inconsapevolmente provocata con i suoi rimproveri.
Inoltre, la piccola vittima avrebbe avuto tante occasioni per confondersi, cambiare versione, accentuare o sminuire le vicende, dimenticare, accattivarsi le simpatie di chi non le credeva e farsi perdonare; invece ha sempre affrontato con linearità e coerente determinazione le conseguenze della rivelazione del suo segreto, senza mai trascendere dal racconto pacato e dall'atteggiamento di distacco (mai di odio) nei confronti di chi aveva tradito la sua fiducia.
Ora la sua vita è drasticamente cambiata: ad Alassio si trova a disagio, ha perso quasi tutti gli amici (tanto che una sola bambina - delle 6 a cui aveva confidato il suo terribile segreto - si definisce ancora oggi sua "amica"), viene malvista, ma soprattutto ha abbandonato in maniera brusca il mondo dell'infanzia, subendo prima gli abusi sessuali da parte del parroco, poi il discredito e il disprezzo della comunità (ben manifestato nelle parole dei testimoni a difesa di don Luciano durante il processo).
In conclusione, i giudici si soffermano sul contesto che ha portato - e spesso porta - una persona insospettabile a compiere atti pedofili.  
La famiglia della piccola vittima non viene certo dipinta dai magistrati come esempio di buone cure: la madre non corrispondeva alla figura ideale di mamma, ovvero sensibile ai bisogni della figlia e idonea a contenerne la vivacità e ad impartire il rispetto delle regole e degli altri; con il padre naturale (separatosi dalla madre) la bambina non aveva alcun rapporto; il padre affettivo (che chiamava “papà”) era poco presente; l’affezionata zia abitava in un'altra città e non poteva incontrarla spesso.
Insomma, desumono i giudici, i familiari non accudivano adeguatamente la loro piccola bambina.
Perchè è importante sottolineare la situazione familiare della vittima?
Perchè si ricava l'immagine di una dodicenne piuttosto diversa dai coetanei, non solo più irrequieta e ribelle, ma anche priva della sorveglianza e delle cure costanti che gli altri bambini ricevevano dai genitori.
Ecco, questo costituisce il contesto d'azione perfetto per un pedofilo, soprattutto se trattasi di persona insospettabile come un sacerdote: tra un "uomo di Dio" e una bimba cresciuta in una famiglia "difficile" la gente tenderà sempre a credere al primo e a liquidare la seconda come bugiarda (se non peggio, come si è visto in precedenza). Don Luciano Massaferro, come tutti i pedofili, percepisce pienamente la vulnerabilità della sua vittima: la scelta viene presa soprattutto in considerazione di tale canone, che garantisce da un lato una più semplice ricattabilità (più una bambina viva una vita difficile, più sarà facile per il sacerdote stupratore - di cui necessariamente la piccola si fida - farle promettere il silenzio), dall'altro il mantenimento di un elevato consenso sociale, unito a una quasi sicura impunità (sarà più difficile credere a una ragazzina nata in una famiglia piena di difficoltà, piuttosto che al sacerdote, persona solitamente considerata rispettabile per il solo abito che indossa).
E' così che molti bambini e bambine - come la protagonista della vicenda qui esposta - conoscono la sessualità e ne conservano traccia dolorosa per sempre.
Per colpa di un prete. 
Don Pedofilo.

P.s. Don Luciano Massaferro non ha ancora subito alcun processo ecclesiastico, pertanto rimane sacerdote.
Vengono in mente le parole di Stephan Wahl, uno dei preti più noti in Germania per aver predicato il Vangelo in televisione per 12 anni nella popolare trasmissione “La parola della domenica”:  
"Come cattolico e come sacerdote mi è insopportabile che, secondo l’attuale normativa ecclesiastica, sia più facile che un sacerdote colpevole di abusi possa distribuire il sacramento dell’eucaristia piuttosto che un divorziato riceverlo".

lunedì 17 settembre 2012

ITALIA INFORTUNATA
(SUL LAVORO E NEL DIRITTO)


La storia che segue riguarda una ditta lombarda, la Ranger s.p.a., fondata a Carate Brianza nel 1969 da Alberto Rossini (classe 1936, brianzolo doc, proprietario di una villa a Briosco con un immenso giardino pieno di sculture di arte contemporanea, tra cui opere di Lucio Fontana e Pietro Cascella).    
L'azienda produceva stampi per materiale plastico, impiegava 500 dipendenti divisi in 3 stabilimenti italiani (Carate Brianza, Albiate e Piacenza) ed era gestita da un consiglio di amministrazione composto dallo stesso Alberto Rossini e dai suoi figli, Matteo e Marco, tutti con pari poteri decisionali.
Proprio uno dei due figli si è reso protagonista di una vicenda che ha tristemente coinvolto B.F., operaio. B.F. lavorava dal 1995 nello stabilimento di Albiate come operaio specializzato con mansioni di manutentore meccanico. Era uno dei 200 operai che lavoravano in quella fabbrica e uno dei 4 del reparto manutenzione. 
Tutto si svolge in un ordinario pomeriggio di lavoro.
E' giovedì 13 settembre 2007. Sono circa le 16.00. Inizia il turno lavorativo. 
Insieme a un collega (H.K.), B.F. riceve l’incarico di trasportare fuori dallo stabilimento di Albiate un cilindro d'acciaio che si è rotto e va riparato.
Il cilindro è lungo 3 metri, pesa 700 Kg e ha un diametro di 30 cm.
Deve essere caricato su un camion che – come tutti i furgoni - non può entrare nel cortile della ditta e deve attendere fuori dal cancello d'ingresso.
Il cilindro non può essere spostato con il carroponte, poichè quest'ultimo si trova all'interno del capannone e non consente la movimentazione di carichi sino al camion.
Allora B.F. e H.K. agganciano il cilindro con una cinghia alle forche di un carrello elevatore, poi H.K. si mette alla guida, mentre B.F. rimane a piedi.
I due sono costretti a sollevare le forche, poiché lungo il percorso si trovano diversi ostacoli. Così mettono in moto il carrello elevatore con le forche sollevate, in modo che il cilindro rimanga appeso. 
Percorrono una decina di metri, lo spazio che li separa dal cancello di ingresso, ove il camion attende il pesante carico.
Giunti al cancello, il carrello elevatore - nell'oltrepassare la guida metallica, leggermente in rilievo - sobbalza: d'altra parte le sue ruote rigide sono di plastica e non gommate, altrimenti assorbirebbero meglio gli urti.
Il cilindro appeso oscilla, provocando lo scivolamento della cinghia dalle forche (sempre sporche di olio e di grasso), lo sfilamento e la caduta a terra del cilindro, il quale si riversa sul piede sinistro di B.F., schiacciandoglielo.
B.F. viene prima portato al pronto soccorso dell'ospedale di Carate Brianza e poi (d'urgenza) all'Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, dove viene ricoverato e sottoposto all'amputazione delle dita del piede. Il trauma subìto da schiacciamento del piede sinistro aveva comportato molteplici fratture del tarso e del metatarso, che avevano cagionato la necrosi dei tessuti del secondo e terzo dito del piede sinistro e determinato la necessità della loro amputazione. 
Dimesso dopo un mese, si deve sottoporre a medicazioni periodiche, cure farmacologiche, terapia riabilitativa e all'applicazione di una protesi in silicone, con una durata della malattia di circa 7 mesi. 
Senza contare le notevoli ripercussioni psicologiche. Per quelle fisiche, l'Inail riconosce al povero B.F. un'invalidità permanente complessiva dell'8%.
La storia qui raccontata ha avuto anche un risvolto processuale.
Infatti il 21 febbraio 2012 il Tribunale penale di Monza (in composizione monocratica, nella persona del giudice Giuseppina Barbara) ha condannato l'unico imputato - uno dei figli di Alberto Rossini - per il reato di lesioni personali colpose.
Essendo, all'epoca dei fatti, consigliere di amministrazione della Ranger s.p.a. con delega alla sicurezza e alle attività produttive (con specifica responsabilità sullo stabilimento di Albiate), su di lui incombeva l'obbligo di fornire ai propri dipendenti attrezzature sicure e idonee allo svolgimento delle mansioni loro assegnate (come la movimentazione dei carichi).
E' stato lui - secondo quanto ha scritto il giudice nelle motivazioni della sentenza, depositate il 14 maggio 2012 - ad aver colpevolmente cagionato a B.F. le gravi lesioni riportate. 
La colpa è dovuta proprio al non aver fornito mezzi e attrezzature adeguate al lavoro da svolgere, non avendo in tal modo assicurato la stabilità del carico, con l'aggravante di aver violato le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. 
Secondo il Tribunale di Monza, il sistema adottato da B.F. e dal collega per la movimentazione dei carichi era insicuro e contrario a qualsiasi norma di sicurezza, per cui è assolutamente vietato agganciare in modo instabile oggetti alle forche del carrello elevatore e, soprattutto, movimentare carichi - tanto più di notevoli dimensioni -sospesi alle forche.
Tuttavia, nonostante si tratti di un’operazione estremamente pericolosa, nello stabilimento di Albiate della Ranger s.p.a. essa costituiva la prassi usuale per il trasporto di quei carichi. Per di più, B.F. era certamente un operaio esperto, dato che non solo rende ancora più evidente la responsabilità del datore di lavoro, ma dimostra l'abitualità della rischiosa procedura seguita per trasportare all'esterno i carichi pesanti. D'altra parte, gli operai non avevano altro modo di eseguire le mansioni loro affidate, se non utilizzando il carrello elevatore e agganciando in modo precario alle sue forche gli oggetti pesanti (come i cilindri metallici).
E dire che i lavoratori avevano evidenziato il problema alla proprietà, sollecitandone una soluzione, ma la famiglia Rossini non ha mai voluto acquistare l'attrezzo che avrebbe reso sicura quell'operazione, se non dopo l'infortunio occorso a B.F. e in seguito alle prescrizioni dell'ASL: un semplice braccio munito di gancio, da inserire nelle forche del carrello elevatore e al quale agganciare il materiale di un certo peso. 
E dire, inoltre, che il costo di tale strumento si aggirava intorno ai 2.500 euro, prezzo così limitato da poter sicuramente rappresentare un acquisto compatibile con gli stanziamenti aziendali annuali in materia di sicurezza. Peccato che nel biennio 2006-2007, a causa dell'inizio della crisi finanziaria dell'azienda (che avrebbe poi condotto alla sua dismissione da parte della famiglia Rossini), la società prestava molta, troppa attenzione alle spese. 
Insomma, la famiglia Rossini aveva deciso di soprassedere all'acquisto di quell'attrezzatura non ritenuta assolutamente necessaria, visto che sarebbe servita "solo" per operazioni di manutenzione non quotidiane.
Purtroppo però la legge in materia di prevenzione infortuni:
- impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alla normativa vigente, idonee ai fini della salute e della sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere;
sancisce che i mezzi di sollevamento e trasporto debbano essere scelti in modo da risultare appropriati alla natura, alla forma e al volume dei carichi, nonché alle condizioni di impiego, e che gli accessori di sollevamento debbano essere scelti in funzione dei carichi da movimentare.
E', pertanto, indubbio che Rossini junior abbia violato i propri doveri impostigli dalla legge, omettendo di fornire agli operai un'attrezzatura adeguata al lavoro di movimentazione di carichi pesanti e ingombranti, che permettesse loro di eseguire l'operazione in modo sicuro.
Ecco perchè - secondo il Tribunale brianzolo - l’imputato è colpevole e va condannato.
Ma qui viene il bello (si fa per dire).
Secondo l'art. 590 del codice penale italiano, la pena massima per il reato commesso dal giovane Rosmini (gravi lesioni personali colpose in violazione delle norme antinfortunistiche) è pari a 1 anno di carcere o a 2.000 euro di multa.
Pena ridicola.
Se però si aggiunge la concessione di alcune attenuanti - che vengano giudicate equivalenti alle aggravanti della gravità delle lesioni e dell'aver violato le norme preventive degli infortuni sul lavoro - la pena massima possibile si riduce a 3 mesi di galera o a 309 euro di multa.   
Proprio quanto stabilito dal giudice di Monza.
Poichè la vittima del grave infortunio era stata risarcita del danno patito prima dell'inizio del dibattimento (tanto da essersi ritirata come parte civile), al condannato va concessa l'apposita attenuante prevista dall'art. 62 n. 6 del codice penale. Inoltre, gli vanno riconosciute anche le attenuanti generiche (previste dall'art. 62-bis del codice penale), in considerazione:
- delle sue condizioni di vita (è un giovane imprenditore socialmente inserito);
- del suo comportamento processuale (ha costantemente partecipato alle udienze ed ha fornito il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti, sottoponendosi all'esame);
- della condotta successiva al fatto (ha ottemperato alle prescrizioni dell'ASL);
- dell'assenza di precedenti penali e di polizia.
Aggravanti e attenuanti si annullano a vicenda, per cui la condanna finale di Rossini junior è il pagamento di una multa di 300 euro.
Riassumendo. Un giovane datore di lavoro (trentenne all'epoca dei fatti), incensurato e ben inserito nella società, riceve un enorme sconto di pena (da un massimo di 1 anno di carcere o 2.000 euro di multa - pena già ridicola di per sè - a un massimo di 3 mesi di carcere o 309 euro di multa) solo per aver risarcito i danni alla vittima, aver preso parte al processo rispondendo alle domande e aver finalmente acquistato un attrezzo che possa evitare in futuro il ripetersi di tragedie analoghe a quella da lui stesso causata.
Il tutto a norma di legge.
Può allora considerarsi civile uno Stato dove l'imprenditore responsabile di aver arrecato gravi lesioni fisiche e psicologiche a un lavoratore - che solo per una notevole dose di fortuna non si sono tradotte in qualcosa di peggiore, fino alla morte - se la cavi con una multa di 300 euro?
Non solo.
Per il reato contestato a Rossini junior la prescrizione scatta dopo 7 anni e mezzo dalla data dell'incidente (13 settembre 2007); pertanto il processo morirà il 13 marzo 2015, tra soli 2 anni e mezzo, lasso di tempo entro cui devono essere celebrati almeno altri due gradi di giudizio. E' sufficiente la presentazione di ricorsi da parte dell'imputato (anche infondati e immotivati) per rendere sussistente il rischio che costui non paghi nemmeno i 300 euro di multa cui è stato condannato in primo grado.
Mi permetto allora di suggerire al governo - nella persona del ministro della Giustizia Paola Severino - e al Parlamento di approvare un decreto-legge (sussistono pienamente sia la necessità, sia l'urgenza richieste dall'art. 77 della Costituzione, data la spaventosa quotidianità con cui episodi come quello qui raccontato accadono in Italia) che, in merito ai reati legati alla violazione delle leggi antinfortunistiche sul lavoro:
1) innalzi decisamente le sanzioni (sia detentive, sia pecuniarie) previste dal codice penale; 
2) impedisca l'equivalenza delle attenuanti e delle aggravanti, rendendo sempre le seconde prevalenti sulle prime;
3) non preveda la prescrizione. 
Sono tre semplici innovazioni che - introducendo pene certe e severe, anche da un punto di vista economico - concorrerebbero a rendere più conveniente investire in sicurezza per molti, troppi (im)prenditori nostrani. 
Inoltre, simili norme possono essere varate in un batter d'occhio.
Basta volerle.
Le difficoltà stanno tutte qui.

giovedì 13 settembre 2012

UNA DENUNCIA (FALSA) E L'IMMIGRATO
DIVENTA IRREGOLARE 


Per far emergere il lavoro irregolare è necessario che il datore di lavoro e il lavoratore si presentino agli uffici dello Sportello Unico per l’immigrazione, dove - dinanzi a un funzionario - sottoscrivano (entrambi) un contratto di soggiorno. 
Tale procedura viene seguita anche da Esmil Mohammad (lavoratore) e Francesca Moro (datrice di lavoro).
Peccato che dopo la stipula del contratto di soggiorno e il rilascio del titolo di soggiorno, l'imprenditrice sporga querela in sede penale, denunciando di non aver mai presentato alcuna domanda di assunzione nei confronti di Esmil Mohammad. 
Solo per questo, con provvedimento del 22 agosto 2011, la Questura di Roma revoca al lavoratore il permesso di soggiorno precedentemente rilasciato. 
Esmil si rivolge quindi al Tar del Lazio, la cui sezione II Quater gli dà pienamente ragione.
Infatti, con la sentenza 19 luglio 2012 n. 6629, i giudici amministrativi annullano il provvedimento della Questura romana dal momento che essa "non poteva basarsi unicamente sulla querela della datrice di lavoro di non aver mai richiesto l’assunzione del ricorrente, la cui veridicità è sconfessata dai documenti".
Poichè la procedura di emersione si era conclusa favorevolmente, ciò è incompatibile con la dichiarazione (palesemente falsa) della datrice di lavoro di non aver mai assunto il ricorrente.
Se un tale elementare, quanto banale principio logico (prima che giuridico) non fosse stato ricordato da un collegio di tre magistrati (al quale - è bene rammentarlo - si era rivolta la vittima della macroscopica ingiustizia), sarebbe passata l'idea per cui basta la denuncia di un imprenditore nei confronti del proprio dipendente extracomunitario per levare a quest'ultimo il permesso di soggiorno, rendendolo irregolare e a rischio espulsione. 
Per fortuna, in Italia, esistono ancora i Tribunali. 

lunedì 10 settembre 2012

NUOVE BOLZANETO CRESCONO

Coloro i quali pensino che le torture compiute dalle forze dell'ordine a Bolzaneto nel luglio 2001 rappresentino un caso isolato, dovranno necessariamente ricredersi dopo l'emissione della sentenza 27 luglio 2012, n. 30780 da parte della VI sezione penale della Cassazione. 
Ecco i fatti.
Due agenti di polizia penitenziaria del carcere di Asti erano soliti maltrattare alcuni detenuti, sottoponendoli a un regime di vita tormentoso e vessatorio, spogliandoli e rinchiudendoli in una cella priva di materasso, lavandino, sedie e vetri alle finestre (chiuse soltanto dopo un mese con del cellophane). Qui i reclusi venivano lasciati per due mesi (i primi giorni completamente nudi), tenuti rigidamente a pane e acqua e ripetutamente picchiati - anche più volte al giorno - con calci, pugni e schiaffi su tutto il corpo, fino a riportare lesioni non indifferenti (come la frattura di una costola ed ecchimosi diffuse in sede toracico-addominale). Addirittura i carcerati dovevano subìre lo strappo a mani nude dei propri “codini” dei capelli.
Nonostante il reato commesso dagli agenti sia ormai prescritto (maltrattamenti di persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per ragione di vigilanza o custodia, commessi con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione), i giudici tengono a sottolineare che i fatti sarebbero stati facilmente qualificati come tortura, se l’Italia avesse dato attuazione all'apposita Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984, soltanto ratificata dal nostro Paese con la legge 3 novembre 1988, n. 498.
In ogni caso, la Cassazione ha ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio che:
- nel carcere di Asti era stata instaurata una prassi di maltrattamenti dei detenuti più “problematici”;
- due di essi avevano subìto non solo singole vessazioni, ma una vera e propria tortura, durata per diversi giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico;
- i due agenti di polizia penitenziaria imputati avevano partecipato a (quasi) tutte le vessazioni fisiche, psicologiche e materiali arrecate ai carcerati.
Insomma, all'interno delle mura del penitenziario piemontese alcuni rappresentanti dello Stato - nelle vesti di agenti di polizia penitenziaria - hanno messo ripetutamente e sistematicamente in atto una pluralità di pratiche persecutorie, violente, vessatorie, umilianti e denigranti ai danni dei detenuti, con la piena coscienza e volontà di sottoporli a notevoli sofferenze fisiche e morali. Tale sistema criminale si è inoltre protratto per così lungo tempo da poter essere qualificato come "abituale".
Nuove Bolzaneto crescono.