mercoledì 31 ottobre 2012

IL PAESE DELLE VIOLENZE IMPUNITE

Poiché rappresenta un dato di fatto notorio che l’Italia sia il Paese dell'impunità, mi vorrei soffermare su uno degli infiniti ambiti ove tale indiscutibile constatazione si manifesta platealmente.
Mi riferisco alle violenze maschili nei confronti delle donne.
A titolo esemplificativo presento cinque vicende approdate nelle aule di giustizia.
Esse mostrano la tanto notevole, quanto preoccupante divergenza esistente tra i fatti compiuti accertati (gravi) e le sanzioni inflitte a norma di legge (ridicole).


CASO N. 1
Fatti accertati
Il marito si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia ai danni della moglie (pena massima: 5 anni di reclusione, ma se la vittima riporta lesioni gravi si arriva fino a 8 anni; se gravissime fino a 15 anni; se muore fino a 20 anni), avendone offeso il decoro e la dignità e avendola posta in uno stato di sofferenza morale e psichica tale da averle reso la vita impossibile. Le ingiurie e le offese sono state continue e gravi: ostentava rapporti extra coniugali, confrontando le doti di un'altra donna con quelle della moglie, denigrando quest’ultima sul piano fisico, morale e intellettuale. Per di più, l'uomo ostentava anche i regali fatti all’altra donna e i momenti felici trascorsi con la medesima. Si è trattato di un vero e proprio meccanismo di maltrattamento psicologico ai danni della consorte. Sussiste una precisa determinazione dell'uomo di sottoporre la moglie a vessazioni morali estremamente gravi, per mezzo di una condotta reiteratamente prevaricatrice, caratterizzata da una continua serie di insulti e infedeltà ostentate, tali da determinare evidenti sofferenze morali.

Pena
In 1° grado l'imputato è stato assolto. 
Poichè ha presentato ricorso la sola parte civile (la moglie) e non la Procura, la Corte d'Appello si è dovuta limitare a sancire la sola responsabilità civile dell'imputato, condannato quindi a un semplice risarcimento dei danni morali e biologici.
La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 18 aprile 2012, n. 15057) ha confermato.


CASO N. 2
Fatti accertati
Per ben 16 mesi (dal marzo 2004 al luglio 2005) un uomo si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia ai danni della moglie. 
Il marito - assuntore di sostanze stupefacenti - ha assunto una prolungata serie di prevaricazioni, nonchè una persistente aggressività verso la consorte da quando costei gli aveva comunicato l’intenzione di separarsi, tornando a vivere con i propri familiari e tenendo con sé il loro bambino.
Gli innumerevoli episodi vessatori si sono svolti attraverso:
- continue minacce e intimidazioni per telefono e sul luogo di lavoro della donna;
- percosse;
gesti simulati di autolesionismo (apparenti tentativi di suicidio volti a colpevolizzare la donna per la cessazione della convivenza);
gravi danneggiamenti della casa coniugale e della nuova abitazione della moglie (incendio).
Tale condotta vessatoria e intimidatoria non solo è stata sistematica e ripetitiva, ma ha leso la libertà fisica della consorte e la sua libertà morale, sottoposta a un regime di perdurante ansia, preoccupazione e allarme a causa dei ripetuti atteggiamenti violenti, prevaricatori e simulatamente autolesivi del marito.
Se ciò non bastasse, infine, l'uomo ha mostrato disinteresse persino per il turbamento causato nel figlio minorenne. 

Pena
Condannato in tutti i gradi di giudizio a 2 anni e 10 mesi di reclusione e a risarcire i danni alla vittima (Cassazione - Sez. VI Penale - Sentenza 20 giugno 2012, n. 24575). 
L'imputato non va in carcere poichè la pena è interamente coperta dall' indulto varato nel luglio 2006 durante il governo Prodi.


CASO N. 3
Fatti accertati
Un uomo si è reso responsabile di due reati ai danni della convivente: lesioni personali e maltrattamenti in famiglia.
I fatti accertati comprendono un dolo teso alla punizione fisica e alla violenza spropositata, attraverso una serie di comportamenti continui e vessatori eretti a regime di vita per la donna, nel quadro di una convivenza familiare improntata alla sopraffazione fisica e psicologica, segnata da una serie di episodi particolarmente cruenti, alcuni dei quali gravi e allarmanti, quali un tentato omicidio e l'episodio di aggressione oggetto del processo di cui qui si parla. Insomma, trattasi di fatti molto gravi, connotati da una violenza aggressiva perdurante. Movente: la gelosia.

Pena
Originariamente, all'uomo era stato contestato il reato (ben più grave) di tentato omicidio, riqualificato in lesioni personali aggravate dai futili motivi perchè non voleva uccidere.
Inoltre all'imputato è stato concesso il rito abbreviato (che prevede uno sconto di pena pari a 1/3).
In 1° e 2° grado è stato condannato a 2 anni e 6 mesi per lesioni personali aggravate dai futili motivi e maltrattamenti in famiglia (3 anni e 9 mesi meno 1/3).
La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 13 luglio 2012, n. 28111) ha cancellato l'aggravante dei futili motivi, ordinando alla Corte d'Appello di rideterminare la pena, diminuendola (in ogni modo l'imputato non andrà mai in carcere). 
Secondo la Suprema Corte, infatti, tale aggravante non sussiste poichè - pur essendo sempre necessario valutare gli elementi specifici e concreti di ogni singolo caso - la gelosia è (in linea di principio) elemento sufficiente a provocare un'azione criminosa, rappresentando una causa determinante degli eventi e non un mero pretesto per dare sfogo a un impulso criminale. 
Motivo per cui agire per gelosia non può integrare l’aggravante dei futili motivi.

CASO N. 4
Fatti accertati
Un uomo si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia in danno della moglie e dei due figli, attraverso continue, gravi e frequenti vessazioni costituite da insulti, violenze fisiche e umiliazioni, precariamente cessati solo quando l'uomo è stato allontanato dalla casa coniugale. Appena rientrato, infatti, la situazione non è per nulla mutata, finchè non è stato arrestato.
La sua condotta oppressiva è stata denotata dalla volontà di sottoporre moglie e figli a una serie di sofferenze fisiche e morali prolungate e reiterate nel tempo.

Pena
In tutti i gradi di giudizio l'imputato è stato condannato a 3 anni di reclusione (Cassazione - Sezione VI Penale - Sentenza 23 agosto 2012, n. 33142). Pena troppo lieve perchè vada in galera.


CASO N. 5
Fatti accertati
Un guidatore di autobus si è rifiutato di aprire la porta del mezzo di trasporto e, allungandosi, ha impedito il passaggio a una donna afferrandola per la coscia al fine di trattenerla mentre stava per scendere dall'automezzo. Tale atteggiamento è stato inoltre accompagnato da alcuni gesti osceni, volgari e allusivi, quali movimenti con la lingua, toccamento dei propri pantaloni, frasi come “mi diventa grosso e duro” con relativo invito a dare “una trombata”.

Pena
Originariamente l'uomo era stato chiamato a rispondere del reato di tentata violenza sessuale (pena massima: 6 anni e 8 mesi di reclusione), ma in 2° grado la Corte d'appello ha riqualificato i fatti nel reato (molto più lieve) di molestie (pena massima: 6 mesi di arresto o ammenda di 516 euro), dichiarato prescritto. 
Infatti i giudici hanno motivato tale loro decisione sostenendo che l'imputato non aveva leso la sfera sessuale della donna, ma aveva "solo" attentato alla sua tranquillità. Il guidatore si sarebbe limitato a provare a saggiare le reazioni della donna recandole disturbo, senza che da ciò si potesse inequivocabilmente dedurre l'idoneità a far subire un congiungimento carnale. Tutto ciò in base alla dinamica dei fatti (svoltisi all’interno di un autobus di linea condotto dall'imputato) e alla mancanza di atti indirizzati verso una zona erogena (toccare la coscia della passeggera sarebbe stato volto a fermare la donna piuttosto che un'espressione di bramosia sessuale).
Il Pm ha presentato ricorso in Cassazione, la quale - accogliendolo - ha annullato il verdetto d'appello con rinvio per un nuovo giudizio (Cassazione - Sezione III Penale - Sentenza 4 ottobre 2012, n. 38719).
I supremi giudici infatti hanno stabilito che i fatti addebitati all'imputato configurano l'originario reato di tentata violenza sessuale, dal momento che l’imputato non si era limitato a meri atti di corteggiamento invasivo, ma aveva pure omesso di aprire la porta dell'autobus e impedito il passaggio alla donna per fermarla. Un tale comportamento - accompagnato dai gesti e dalla parole sopra esplicitati - denota l’intento di appagare il proprio desiderio violando nel contempo la sfera di autodeterminazione sessuale della donna.
Ecco in sintesi come la Corte delinea le differenze sussistenti tra le due fattispecie di reato contestate alternativamente nel corso del processo:

molestia sessuale: espressioni volgari a sfondo sessuale o atti di corteggiamento invasivo e insistito diversi dall'abuso sessuale;

- tentata violenza sessuale: pur in mancanza del contatto fisico, la condotta denota l’intenzione di raggiungere l’appagamento degli istinti sessuali e l’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale.



P.S. La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 20 giugno 2012, n. 24575) ha spiegato la differenza tra i reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e atti persecutori (art. 612-bis c.p., comunemente chiamato stalking, introdotto nel codice penale italiano dal governo Berlusconi nel febbraio 2009).
Pur avendo in comune le modalità esecutive e il tipo di lesioni inferte, i due delitti hanno le seguenti differenze:

- il reato di maltrattamenti (reato contro la famiglia) scatta solo all'interno di rapporti basati su vincoli familiari. Pertanto può essere commesso solo da chi ricopra un ruolo all'interno della famiglia (coniuge, genitore, figlio,...) o una posizione di autorità o affidamento nelle aggregazioni assimilate alla famiglia (scuole, ospedali, carceri,...) e la vittima deve essere una persona che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate.
Inoltre non occorre che le sofferenze e le mortificazioni inflitte con abitualità si colleghino a specifici contegni prepotenti e vessatori, ma è sufficiente che sussista un diffuso clima di afflizione, sofferenza e paura indotto nella vittima; 

- il reato di atti persecutori (reato contro la persona, in particolare contro la sua libertà morale) può essere commesso da chiunque con atti specifici di minaccia o molestia reiterati, poichè non presuppone l’esistenza di relazioni specifiche tra l'agente e la vittima.

Qualora sia cessato il vincolo familiare e affettivo (divorzio o relazione definitivamente terminata) si contesta il reato di atti persecutori, mentre è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nei casi di separazione (nell'ottica per cui vengono meno gli obblighi di convivenza e fedeltà, ma permangono pur sempre i doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi separati).

E' inoltre possibile contestare a un imputato entrambi i reati.

Per quanto concerne il trattamento sanzionatorio, il reato di maltrattamenti in famiglia è più grave. Se infatti la pena massima per quest'ultimo delitto corrisponde a 5 anni di reclusione (ma - come si è già detto - se la vittima riporta lesioni gravi si arriva fino a 8 anni; se gravissime fino a 15 anni; se muore fino a 20 anni), per il reato di atti persecutori (o stalking) la condanna massima è pari a 4 anni di reclusione (che diventano 5 anni e 4 mesi se il fatto sia commesso dal coniuge divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla vittima).

domenica 7 ottobre 2012

DONNE (E MADRI) AL LAVORO


Il Tribunale di Catania (sentenza emessa il 16 dicembre 2009), la Corte d'appello di Catania (sentenza del 28 febbraio 2011) e la Cassazione (sentenza 21 settembre 2012, n. 36332) hanno riconosciuto l'incaricato di una società responsabile del reato di tentata violenza privata ai danni di una lavoratrice appena divenuta mamma.
Che cosa era successo?
I titolari di una società volevano far cessare l’attività per proseguire sotto una nuova veste societaria, ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti, da licenziare e assumere nuovamente.
Nell'ottobre 2003 una dipendente - in astensione obbligatoria per maternità, pertanto non licenziabile (è ancora nel periodo di puerperio, ovvero nelle prime 6/8 settimane dopo il parto) - viene convocata dalla società in un locale degradato e abbandonato. Lì i titolari cercano di imporre alla donna le loro condizioni: o si sarebbe dimessa o le sarebbe stato assegnato - contro la sua volontà - il periodo di astensione facoltativa per maternità (retribuito solo al 30% dello stipendio). Infine le viene preannunciato che, nel caso in cui si fosse ostinata a rifiutare entrambe le condizioni (è l'unica dipendente a non volersi dimettere) e a chiedere semplicemente la ripresa della propria normale attività al termine dell'astensione obbligatoria, al rientro da questa sarebbe stata costretta a lavorare in condizioni invivibili, in quel medesimo locale fatiscente, senza alcun compito o mansione. 
Nonostante la vicenda si sia alla fine conclusa positivamente (la società ha trattenuto la lavoratrice in servizio a stipendio pieno, lasciandola a casa fino allo scadere del termine di protezione dal licenziamento), resta il fatto che il titolare avesse prospettato alla lavoratrice una situazione personale e lavorativa pessima e ingiusta, al solo scopo di costringerla ad accettare le condizioni imposte dalla società. 
Ciò, secondo i magistrati, configura il reato di tentata violenza privata (pena massima: 2 anni e 8 mesi di reclusione), dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.