sabato 8 marzo 2014

PRESIDENTE, NON SI VERGOGNA?


Gentile Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (meglio noto come Re Giorgio),
Le scrivo questa lettera per parlare di TESTIMONIANZA, valore fondamentale assai poco praticato, soprattutto dai potenti.
Conoscerà di sicuro le storie e le sofferenze dei testimoni di giustizia.
Sono persone oneste e perbene che hanno deciso di vedere, sentire e soprattutto parlare.
Si sono pertanto rivolte alle forze dell'ordine e alla magistratura per raccontare quanto a loro conoscenza sui delitti compiuti dagli uomini del disonore. 
Si tratta di cittadini modello, i quali - fedeli alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi (secondo l'art. 54 c. 1 della Carta costituzionale) - hanno svolto "un'attività o una funzione" che ha concorso "al progresso materiale o spirituale della società" (art. 4 c. 2 della Costituzione).
La lotta alle mafie, infatti, passa anche attraverso la loro opera preziosa e irrinunciabile.
Eppure (o forse proprio per questo) i testimoni di giustizia sono abbandonati dallo Stato.
Sono lasciati soli, senza diritti, senza attenzione, senza aiuti.
La situazione è molto grave e assai duratura, tanto da potersi porre legittimamente una domanda.
Molti esponenti di quello Stato che Lei rappresenta al massimo vertice sono colpevolmente indifferenti o dolosamente complici dei mafiosi, i soli - teoricamente - a volere la sconfitta e la morte (non necessariamente fisica) di chi abbia testimoniato contro di loro?
Non posso non ricordare anche le figure di due donne, entrambe cresciute in una famiglia di 'ndrangheta, senza averne mai condiviso i disvalori.
Hanno deciso di ribellarsi, testimoniando alle forze dell'ordine e ai magistrati ciò che avevano visto intorno a sè.
Per questo - giovanissime - hanno pagato con la vita. 
La seconda è Lea Garofalo, 35 anni, ammazzata a Milano il 24 novembre 2009 dal clan Cosco, a cui appartiene il compagno. Sua figlia Denise aveva solo 17 anni quando il padre mafioso (Carlo Cosco) e altri criminali sequestrarono la madre, la interrogarono per sapere che cosa avesse raccontato ai magistrati, la massacrarono di botte e la uccisero, strangolandola con un laccio. Poi portarono il cadavere in un magazzino di San Fruttuoso (quartiere di Monza), lo rovesciarono in un fusto pieno di benzina e lo bruciarono. Infine gettarono i resti in un tombino.
Denise decise di seguire l'esempio materno e testimoniare, contribuendo alle condanne degli assassini della madre (6 ergastoli in 1° grado; 4 ergastoli e 1 condanna a 25 anni di reclusione in 2° grado).
Oggi Denise, testimone di giustizia come Lea, ha 22 anni ed è costretta a vivere in una località segreta.


Ebbene, signor Presidente della Repubblica, 
certamente ricorderà il caso umano di un anziano signore che - pur chiamato a rendere testimonianza in un processo molto importante (quello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia) - non voleva proprio saperne.
Anzi, scrisse una lettera al Presidente della Corte d'Assise in cui si diceva "ben lieto" di riferire sue conoscenze utili al processo e all'accertamento della verità, ma purtroppo - immagino a malincuore - non poteva, perchè nulla sapeva su quanto i magistrati volevano conoscere da lui.
Nella stessa missiva quel signore si spinse addirittura a chiedere al giudice di valutare l'ipotesi di revocare la propria deposizione, in quanto superflua.  
Insomma, chiamato da un tribunale a rendere testimonianza, chiese al medesimo di cambiare idea, poichè già sapeva di non sapere ciò che nessuno gli aveva ancora chiesto.
Un signore curioso, non c'è che dire.
Non trova, Presidente?
Eppure dovrebbe conoscere quel tale, perchè si chiama proprio come Lei, Giorgio Napolitano.
E - glielo assicuro - non si tratta di un omonimo: è proprio Lei, in persona.


Ora, quale considerazione avranno i testimoni di giustizia nei confronti suoi e della massima Istituzione repubblicana?
Ritiene che possano sentirsi rappresentati da un simile capo dello Stato?
Proprio loro, che - a differenza sua - hanno esercitato appieno il diritto-dovere di cittadinanza, collaborando con la giustizia per l'accertamento della verità e pagandone sempre durissime conseguenze?
Non si vergogna, signor Presidente della Repubblica?
Spero non si offenda se anch'io Le confesso di non sentirmi da tempo minimamente rappresentato da Lei. 
Così come spero non si dispiaccia se faccio mie le parole dell'On. Sonia Alfano, Presidente della Commissione Antimafia del Parlamento europeo:
"Napolitano non è stato il mio Presidente negli ultimi anni e non lo sarà nemmeno per i prossimi 7 anni! Io non dimentico le sue telefonate con Mancino e tutti gli atti imbarazzanti incostituzionali che ha firmato in questi lunghissimi anni!" (20 aprile 2013).

Non devotamente suo,
Danilo Rota


venerdì 7 marzo 2014

giovedì 6 marzo 2014

IL BAR DELLA LEGALITA'

Il bar della 'ndrangheta

A Torino, in via Veglia, al numero civico 59, esisteva un bar.
Si chiamava "Bar Italia".
Il proprietario era Giuseppe Catalano, classe 1942, nato a Siderno (Reggio Calabria) e residente a Volvera, nel torinese (ufficialmente il bar era registrato alla Camera di Commercio di Torino con il nome di "Impresa individuale Stalteri Albina", di proprietà della stessa, moglie di Giuseppe Catalano).    
Ebbene, Giuseppe Catalano era un affiliato alla 'ndrangheta (si è suicidato il 19 aprile 2012).
Ma non un affiliato qualunque.
Secondo i magistrati era il capo del locale di Siderno a Torino e responsabile per Torino e provincia (i locali sono le articolazioni e le ripartizioni territoriali della mafia calabrese).
Il "Bar Italia" era un luogo abitualmente frequentato dai mafiosi, costituendo la base logistica degli incontri e delle attività illecite delle più alte cariche della 'ndrangheta della provincia torinese.  
Ciò è tanto più vero se si considera che il locale mafioso di Siderno a Torino - retto da Catalano - era definito la "cosca del Bar Italia".
Si arriva poi al 31 maggio 2011, quando il Gip del capoluogo piemontese Silvia Salvadori firma un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 150 presunti mafiosi (148 in carcere e 2 agli arresti domiciliari).
Tra loro vi è anche Giuseppe Catalano, detenuto presso il carcere di Monza dal 13 luglio 2010 a seguito dell'operazione "Crimine" condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria (gli inquirenti calabresi lo avevano individuato già all'epoca quale capo del locale di 'ndrangheta di Torino).
Ai primi di giugno 2011 scatta così in Piemonte la gigantesca operazione antimafia denominata "Minotauro".
Per Catalano il giudice Salvadori ordina la custodia cautelare in carcere per i reati di associazione mafiosa e concorso in scambio elettorale politico-mafioso.
Secondo i magistrati, infatti, i promotori della campagna elettorale per Fabrizio Bertot - candidato per il Popolo della Libertà nella circoscrizione Nord-Ovest alle elezioni europee del 6 e 7 giugno 2009 - avevano promesso di elargire 20.000 euro a Giuseppe Catalano (esponente apicale della 'ndrangheta piemontese) e a Giovanni Iaria (affiliato al locale mafioso di Cuorgnè) per ottenere a vantaggio del politico il voto della "rete dei calabresi". Catalano e Iaria avevano accettato la promessa, impegnandosi a convogliare i voti degli "amici degli amici" sul candidato berlusconiano. Sarà stata sicuramente una coincidenza, ma Bertot sarebbe poi stato eletto al Parlamento europeo, di cui è tuttora membro.
Nel corso della stessa operazione "Minotauro" il "Bar Italia" di Catalano è posto sotto sequestro.
Il 1° febbraio 2013 viene concesso in uso alla cooperativa sociale e di consumo "Nanà" (legata all'associazione "Libera" di don Luigi Ciotti), la quale ne riceve gratuitamente la licenza e la strumentazione, ma non i locali. 
Là dove spadroneggiava la 'ndrangheta, oggi si pratica (e si gusta) la legalità.  

                          L'inaugurazione del "Bar Italia Libera" (3 maggio 2013).
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mercoledì 5 marzo 2014

IN DIFESA DEL LAVORO ONESTO  


Due giorni fa, ricordando la straordinaria figura dell'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano, ho raccontato la vicenda della Calcestruzzi Ericina, azienda definitivamente confiscata nel 2000 al boss Vincenzo Virga, arrestato l'anno seguente. Il nuovo capomandamento mafioso di Trapani - Francesco "Ciccio" Pace - perseguì allora una strategia ben precisa: impedire che lo stabilimento avesse lavoro per portarlo al fallimento. Avrebbe così indotto lo Stato a (s)venderlo e Cosa Nostra ne sarebbe tornata in possesso tramite l'utilizzo di prestanome. 
Per fortuna il progetto fallì, anche grazie alla determinazione e all'impegno del prefetto Sodano, che riuscì a trovare le commesse necessarie per far andare avanti l'impresa.
Se oggi la Calcestruzzi Ericina è rimasta nelle mani dello Stato ed è gestita da una cooperativa di lavoratori sostenuta dall'associazione Libera, è anche per merito di un prefetto che ha curato esclusivamente il bene delle Istituzioni e della collettività.
       
Il caso richiama inevitabilmente alla memoria proprio la storia della Calcestruzzi Ericina.
Visti i precedenti, il timore che la mafia (in particolare la famiglia dei Messina Denaro) abbia nuovamente l'intenzione di riappropriarsi di ciò che era suo e stia facendo di tutto per riuscirci, è forte e motivato.  
Per impedire che ciò accada, la soluzione migliore sarebbe evitare la vendita (così da non correre il rischio - decisamente troppo alto - che lo Stato restituisca ai mafiosi ciò che aveva loro sottratto) e optare per il mantenimento della proprietà pubblica. Quindi la società potrebbe essere concessa in affitto oneroso a un'impresa (dopo aver accuratamente compiuto tutte le verifiche necessarie per appurare la sua completa estraneità all'universo mafioso) o gratuito a una costituenda cooperativa dei lavoratori - magari affiancata da Libera - non imparentati a mafiosi, nè legati alla precedente gestione mafiosa (come nel caso della Calcestruzzi Ericina, soluzione definita come "unica prospettiva" dal giornalista Rino Giacalone).  
Alcune persone si stanno battendo - come anni fa fece il prefetto Sodano - per la difesa del lavoro dell'azienda in un contesto di legalità. 
Tra queste vi è soprattutto la Presidente della Commissione Antimafia del Parlamento europeo, Sonia Alfano, la quale da anni è impegnata sul tema della confisca dei beni mafiosi e sul loro riutilizzo a scopi sociali.
Ottenendo peraltro anche numerosi risultati, tanto concreti e meritori, quanto ignorati dall'informazione e dall'opinione pubblica italiane, sempre indifferenti quando si parla di criminalità mafiosa.  
Insomma, ha fatto in modo che fosse estesa a livello continentale la normativa antimafia italiana, costata il sacrificio di molte vite umane e racchiusa soprattutto in due leggi-chiave:

1) la legge 13 settembre 1982, n. 646 (Rognoni-La Torre), che ha introdotto il reato di associazione mafiosa e l'obbligo di sequestro e confisca dei beni;

2) la legge 7 marzo 1996, n. 109 (di iniziativa popolare, grazie al raccoglimento di 1 milione di firme da parte dell'associazione Libera), che ha sancito il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.  

Speriamo che la nuova battaglia intrapresa dall'On. Sonia Alfano (e da altri) sulla salvaguardia del lavoro pulito e onesto del gruppo 6 Gdo Despar di Castelvetrano abbia lo stesso esito vincente di quelle sopra ricordate.
Lo stesso esito positivo che ha avuto la vicenda di una ditta di calcestruzzo salvata e fatta rinascere da un prefetto recentemente scomparso, di cui sentiremo molto la mancanza.

Sonia Alfano

lunedì 3 marzo 2014

UN UOMO DELLO STATO. VERO

L'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano

Il 27 febbraio scorso è morto l'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano.
Da anni gravemente malato di sclerosi multipla, il prossimo 9 marzo avrebbe compiuto 68 anni.
Il Presidente della Commissione Antimafia del Parlamento europeo, Sonia Alfano, lo ha così ricordato:

"Un uomo straordinario e un servitore dello Stato eccezionale, che ha saputo dare risposte concrete a un territorio devastato dalla mafia e dalla mala politica. Un uomo di legge che alcuni hanno tentato di umiliare e screditare, senza però poterne scalfire l’immagine: di lui, infatti, tutte le persone oneste conserveranno un ricordo dolcissimo".

Un uomo dello Stato, quello vero, perchè - usando le sue stesse parole - "lo Stato non sempre sta dalla parte dello Stato".

La vicenda che più lo ha interessato riguarda un'azienda edile trapanese, la Calcestruzzi Ericina Srl, nelle mani del boss mafioso Vincenzo Virga (capomandamento di Trapani) dal 1991.
Sebbene nel 1996 venga sequestrata e nel 2000 definitivamente confiscata, per ben 5 anni (dal 1996 al 2001) l'impresa rimane di fatto sotto il controllo della famiglia Virga. Gli amministratori giudiziari palermitani infatti si recano in azienda solo saltuariamente, così Cosa Nostra ne mantiene con facilità il controllo grazie a lavoratori complici e a parenti (il figlio del boss, Pietro Virga).
Come ben spiegato da Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni nel libro "Per il nostro bene" (Chiarelettere), "se intende mantenere in piedi la struttura [...], spesso la mafia fa in modo che dentro rimanga un parente, un fratello, un cugino. Un <<garante>>, spiega il pm [di Trapani, Andrea Tarondo, N.d.A.], qualcuno in grado di maneggiare l'impasto e di tenere i contatti con i fornitori, i clienti, il mondo esterno che l'amministratore - magari un commercialista del capoluogo che non ha mai visto una betoniera in vita sua - non può conoscere".
La Calcestruzzi è dunque nelle mani dello Stato, ma viene gestita dai mafiosi, che se ne fanno beffa.
A tal punto che l'azienda continua a produrre molto nei suoi stabilimenti di Trapani, Valderice e Favignana, come se lo Stato non esistesse.   
Nel 2001, però, ecco la svolta: viene arrestato il boss latitante Vincenzo Virga.
A capo del mandamento di Trapani gli subentra così Francesco "Ciccio" Pace, che cambia strategia: non più controllare l'impresa, ma boicottarla, facendo sì che non riceva più commesse e, quindi, fallisca.
L'intento è insomma quello di crearle il deserto intorno, in modo da indurre lo Stato a venderla (anzi, svenderla) a un prezzo bassissimo, per poterla ricomprare a pochi soldi attraverso dei prestanomi.
Una parte dello Stato, quello falso, aiuta i mafiosi a perseguire il loro scopo.
E' il caso di un funzionario dell'Agenzia del Demanio di Trapani, il geometra Francesco Nasta, che si premura di fissare la base d'asta a un valore di molto inferiore rispetto al prezzo di mercato.
Compare anche un imprenditore che intende acquistare l'azienda.
C'è solo un piccolissimo problema: la Calcestruzzi Ericina non è stata messa in vendita, nè mai lo sarà.
Ciò anche grazie alla determinazione del prefetto Sodano, che - mantenendo la schiena dritta - decide di impegnare tutto se stesso per la causa dello Stato, quello vero.
Fa di tutto per far in modo che - al contrario degli intenti dei mafiosi e dei loro amichetti - l'impresa di proprietà dello Stato abbia lavoro.
E ci riesce, pur tra mille difficoltà.
Le commesse arrivano, come quei 2 miliardi di lire (è il 2001) da una ditta catanese di costruzioni, la quale ha bisogno di calcestruzzo per consolidare le banchine del porto di Trapani.
Anche con il sostegno dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti, nel 2008 i 13 lavoratori creano la cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera, che dal giugno 2011 a oggi gestisce la fabbrica per conto dello Stato (concessa in affitto per vent'anni).
Nonostante permangano alcuni problemi non indifferenti (i lavoratori devono pagare ogni mese 5.000 euro tra affitto allo Stato - che per legge dovrebbe essere gratuito - e mutuo di 700.000 euro a Unipol - anche se il proprietario è lo Stato e non la cooperativa), l'azienda non solo è rimasta nelle mani della collettività, ma continua a vivere nel segno della legalità.
Il tutto anche per merito del prefetto Sodano, nel frattempo - siamo nel 2003 - trasferito ad Agrigento (nonostante avesse chiesto di non essere spostato per ragioni di salute), apparentemente senza alcun motivo.
O forse con un motivo fin troppo chiaro: lo Stato falso non può tollerare che vinca lo Stato vero.
Così, colpevole di essere stato ligio al proprio dovere nei confronti delle Istituzioni e di aver profondamente rispettato la legalità e il bene comune, Sodano è costretto a lasciare Trapani.
Ha ben in mente il responsabile del suo allontanamento e non ha timore a rivelarne l'identità: trattasi del sottosegretario al ministero dell'Interno Antonio D'Alì (dal 2001 al 2006, governo Berlusconi).
Soggetto meritevole di attenzione, questo D'Alì.
Infatti riceve le attenzioni delle forze dell'ordine e dei magistrati antimafia.
Per i suoi rapporti con Cosa Nostra, in particolare con la potentissima famiglia dei Messina Denaro (Matteo, latitante, è attualmente il capo dell'intera Cosa Nostra) viene processato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma la carriera politica di D'Alì (prima in Forza Italia, poi nel Popolo della Libertà, infine nel Nuovo Centro-Destra, partito di governo con Matteo Renzi) non si arresta: Presidente della Provincia di Trapani (dal 2006 al 2008) e senatore (ininterrottamente dal 1994 a oggi).

Purtroppo è l'ennesima dimostrazione del fatto che coloro i quali servono fedelmente lo Stato (quello vero) vengono emarginati e dimenticati; chi al contrario serve le mafie viene premiato e rimane ai vertici delle Istituzioni.
Per questo tutti i cittadini onesti sanno di essere rappresentati non da un senatore della Repubblica, ma da un ex prefetto morto in solitudine e nell'indifferenza dei più.

P.S. Per ricordare e ringraziare l'ex prefetto Fulvio Sodano segnalo gli articoli di "Antimafia Duemila", "Libera informazione" e "100 passi journal".
Inoltre pubblico il video di una sua intervista trasmessa da "Annozero" il 5 ottobre 2006 e realizzata da Stefano Maria Bianchi.

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sabato 1 marzo 2014

BASTA CASE SENZA PERSONE!
BASTA PERSONE SENZA CASA!


Il comune di Milano - amministrato da quasi 3 anni dal sindaco Giuliano Pisapia (Sinistra Ecologia Libertà), insieme a Partito Democratico, Sinistra per Pisapia - Federazione della Sinistra (ovvero Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani) e Radicali - adotta (si fa per dire) una stranissima politica sulla casa.

Scomodando esclusivamente il buon senso, si può dedurre che faro di qualsiasi istituzione pubblica dovrebbe essere la messa in pratica di un concetto abbastanza semplice: basta case senza persone e basta persone senza casa!

Vero, signor sindaco?