giovedì 19 febbraio 2015

MERITOCRENZIA


Gentile Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi,
mi sono già occupato di Lei il 29 febbraio del 2012, quando ho raccontato la condanna emessa nei suoi confronti dalla Corte dei Conti - Sezione Toscana per alcune assunzioni illegittime e illecite, frutto di un suo comportamento gravemente colposo, tale da aver cagionato un danno patrimoniale alla Provincia di Firenze da Lei amministrata.
Poi il 19 febbraio 2014 - alla luce dei fatti esposti dai magistrati contabili - ho posto alcune domandine facili facili, talmente facili che nessuno aveva pensato (nè avrebbe pensato poi) di rivolgere alla Signoria Vostra. In tale circostanza mi sono anche permesso di manifestare la sensazione e il timore che la grandissima maggioranza degli italiani si sarebbe posta al suo seguito, come un esercito schierato (di marionette) segue il proprio duce (ogni riferimento al suo storico predecessore alla guida del governo non è puramente casuale).
Purtroppo gli italiani non hanno tradito le aspettative (e quando mai?). 
Tre mesi dopo, infatti, alle elezioni europee del 25 maggio 2014, ben 11.203.231 elettori (pari al 40,81% dei voti validi) Le hanno dato fiducia.
E, a quanto pare, continuano ancora oggi a credere in Lei, imperterriti e sprezzanti del pericolo, come sempre. 
Ora torno sul luogo del delitto (erariale) per informare i miei lettori di una buona notizia per le sue privatissime tasche.
L'11 dicembre scorso la prima Sezione centrale di appello della Corte dei Conti ha pronunciato la sentenza n. 107/2015, esprimendosi sul ricorso da Lei proposto contro il precedente verdetto di condanna.
Ebbene, i giudici lo hanno accolto, assolvendoLa da ogni addebito.
Nelle motivazioni depositate 15 giorni fa, il Collegio ha evidenziato "il fatto che l’istruttoria amministrativa, i pareri (ben quattro) resi nell'ambito dei procedimenti interessati e i relativi contratti sono stati curati dall'entourage amministrativo e dalla struttura amministrativa provinciale che hanno sottoposto all'organo politico una documentazione corredata da sufficienti, apparenti garanzie tanto da indurre ad una valutazione generale di legittimità dei provvedimenti in fase di perfezionamento".
Infatti i provvedimenti firmati dall'allora Presidente della Provincia - un certo Matteo Renzi, non so se lo conosce - erano stati assunti "anche sulla scorta di quattro pareri di regolarità tecnica e amministrativa rinvenibile nella nota del Segretario generale del 23 luglio 2004, nella proposta del responsabile dell’ufficio risorse umane del 26 luglio 2004, nel parere di regolarità tecnica e nel parere di regolarità contabile. Successivamente gli inquadramenti ed i relativi trattamenti retributivi di che trattasi venivano ritenuti legittimi dalla responsabile dell’ufficio selezione del personale con la determina del 29 luglio 2004 e i contratti relativi venivano stipulati dal dirigente dell’area gestione risorse umane".
Ergo manca, secondo la Corte, l’"elemento psicologico sufficiente a incardinare la responsabilità amministrativa, in un procedimento amministrativo assistito da garanzie i cui eventuali vizi appaiono di difficile percezione da parte di un <<non addetto ai lavori>>".
La responsabilità viene così interamente scaricata sul personale amministrativo, visto che quello politico (Matteo Renzi, ricorda?), da buon "non addetto ai lavori", difficilmente poteva essere in grado di scovare le illegittimità, i danni erariali e le assurdità dei provvedimenti adottati.
Insomma, il massimo rappresentante del governo provinciale non poteva accorgersi di nulla: i suoi dipendenti gli fornivano tutte le garanzie del caso, quindi lui (cioè Lei) riponeva la sua firma alla cieca, a propria insaputa, senza minimamente preoccuparsi di dare una controllata.
Come dice?
<<Una controllata?!? Figuriamoci! Che cosa dovremmo fare noi politic(ant)i? Impegnarci? E perchè mai, visto che c'è chi lavora così diligentemente al nostro posto? Se poi quelli fanno danni, non è mica colpa nostra...>>.
Eh già, vatti a fidare del pubblico impiego!


Tuttavia mi spiace fare il meticoloso (categoria di persone che non deve starLe particolarmente simpatica), ma debbo rammentare un paio di cosucce.
Non si preoccupi, sono quisquilie, dettagli da nulla, che però la Corte dei Conti si ostina inspiegabilmente a ribadire, in quanto certi e incontrovertibili:

1) è stato un tal Matteo Renzi ad aver indicato i nomi di coloro che avrebbero composto la propria segreteria;

2) lo stesso soggetto conosceva perfettamente i (mediocri) curricula di quegli individui, pertanto era pienamente consapevole del loro scarso livello culturale (a proposito, se dovesse incontrare questo Matteo Renzi, gli porga i miei sentiti complimenti per il suo fiuto. Infallibile, non c'è che dire!).

La Corte non ha negato nè il danno erariale, nè la palese irrazionalità di alcune scelte assunte contro ogni elementare criterio di corretta gestione della cosa pubblica. Semplicemente ha riversato tutte le colpe sul personale amministrativo, scagionando quello politico.
Dovendo pertanto prendere atto dell'inutilità di quest'ultimo (non che servisse la Corte dei Conti per nutrire anche solo un vago sospetto sulla questione...) e del suo costante, doloso rifiuto di scegliere il personale della Pubblica Amministrazione in base al merito, alla competenza e alla professionalità, non posso far altro che ribadire i miei interrogativi:

1) come fa, caro Matteo Renzi, a parlare di meritocrazia (vade retro!) senza sprofondare nella vergogna?
Ah già, dimenticavo: Lei confida negli italiani!

2) Non si sente in imbarazzo (cooooosa????) a gestire l'economia pubblica di un intero Stato, dopo essere stato così platealmente "ingannato" da taluni funzionari pubblici alle sue dipendenze circa la correttezza delle retribuzioni da assegnare ad alcuni suoi uomini di fiducia, purtroppo privi di qualsivoglia merito rintracciabile dai radar?

Non so perchè, ma ho - di nuovo - la netta sensazione, nonchè il timore, che la grandissima maggioranza degli italiani se ne freghi altamente di tutto ciò e che continuerà a farLe la corte.
Almeno fino a quando non si accorgerà (si tratta pur sempre di un popolo di dura cervice) che se le tasche sono vuote è anche colpa di un Primo Ministro "non addetto ai lavori".

Non devotamente suo,

Danilo Rota


P.S. Dal 3 settembre 2014 la Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama sta esaminando un disegno di legge delega - il n. 1577 - presentato da Lei 42 giorni prima, insieme al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione Marianna Madia e al Ministro dell'economia e delle finanze Pier Carlo Padoan.
Esso prevede nientemeno che la "riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche", mentre l'incarico di relatore presso la Commissione è stato assegnato al senatore Giorgio Pagliari.
Stia calmo, lo so che quando sente la parola "senatore" Le vengono le verruche sulle guance, ma in fondo appartiene al suo stesso partito, suvvia!
Ora, il 20 gennaio scorso, durante la 239ª seduta (pomeridiana) della Commissione Affari Costituzionali, il suo Pagliari ha presentato alcuni emendamenti, tra i quali il n. 13.500.
Quest'ultimo - modificando il primo (e unico) comma dell'articolo 13 con l'aggiunta della lettera g-quater - assicura che i decreti legislativi in materia di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione siano adottati dal governo tenendo conto del seguente princìpio e criterio direttivo: il "rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale".
Tradotto: bisogna incrementare ulteriormente la distanza tra politici e dirigenti amministrativi per scaricare solo e soltanto su questi ultimi ogni responsabilità in materia contabile.
In questo modo la Corte dei Conti non potrà più nemmeno processare i politici in caso di danno economico arrecato alla collettività.
Una bella immunità, non c'è che dire, degna della sua fama di rinnovatore e rottamatore della vecchia politica, notoriamente schifata al solo sentir pronunciare parole come "immunità", "privilegi", "esenzioni", ... . 
Ecco, caro Presidente Renzi, riferisca pure al suo ligio e premuroso senatore - dimostratosi così sensibile (anche) ai suoi guai giudiziari da meritare quantomeno una ricandidatura alle prossime elezioni politiche - che quel codicillo ad personam (la sua) non è più necessario. 
Sono arrivati prima i giudici.


lunedì 16 febbraio 2015

ESSERE DETERMINATI A FARE SEMPRE IL PROPRIO DOVERE, SENZA CURARSI DEI PERICOLI

Mario D'Aleo (1954-1983)
Il Capitano dei Carabinieri Mario D'Aleo era "l'ufficiale che voleva fare luce su Cosa nostra, scoprire i responsabili dell'assassinio del capitano Emanuele Basile (al quale era subentrato nel comando della compagnia di Monreale), ricostruire l'organigramma del nuovo vertice corleonese e arrestare il crescente dominio della cosca dei Brusca e dei loro accoliti. 
Sin dal momento del suo insediamento l'ufficiale aveva proseguito, con lo stesso zelo, l'attività del suo predecessore. 
D'Aleo voleva contrastare la cosca di San Giuseppe Jato, capeggiata da Bernardo Brusca e avente come referente a Monreale Salvatore Damiani. 
Aveva avviato indagini per colpire le iniziative economiche dei boss e a catturare i latitanti che si nascondevano in quell'area, fra i quali lo stesso Bernardo Brusca e Salvatore Riina (in quel periodo in contrada Dammusi), avvalendosi anche della collaborazione dell'appuntato Bommarito, che aveva già operato a fianco del capitano Basile. 
Aveva portato avanti la sua attività tramite perquisizioni, fermi e arresti, fra i quali quello per favoreggiamento personale di Giovanni Brusca, sospettato di aver dato alle fiamme un automezzo nella zona di San Giuseppe Jato. 
Non valsero a scoraggiarlo le parole sottilmente minatorie del nonno di Giovanni, Emanuele Brusca, che lo accusò di perseguitare la loro famiglia. 
L'appuntato Bommarito con il capitano Basile si era occupato di indagini che consentivano di sorprendere Salvatore Damiani, mentre teneva una riunione con altri soggetti ritenuti appartenenti alla mafia e ne era scaturito un conflitto a fuoco. Tali precedenti avevano indotto il capitano D'Aleo a ritenere che Damiani fosse mandante nell'omicidio del suo predecessore. 
Aveva compreso quale fosse il peso mafioso della famiglia Brusca e quando incrociava qualcuno di loro non mancava di fermarlo e di sottoporlo a controlli, dimostrando di voler compiere il suo dovere senza farsi condizionare dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni. 
Quel giovane ufficiale aveva, perciò, il destino segnato. 
La mafia disponeva di una forza immensa e aveva alzato la mira contro uomini politici, magistrati, funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, mostrando di avere un disegno politico ben determinato. 
Un funerale di Stato onorò la morte di quei tre appartenenti alle forze dell'ordine, oggi dimenticati [insieme al Capitano Mario D'Aleo, furono uccisi l'Appuntato Giuseppe Bommarito e il Carabiniere Pietro Morici, N.d.A.]
[…] Se oggi le istituzioni sono riuscite in Sicilia a ottenere una credibilità nelle menti dei siciliani - purtroppo ancora imprigionate dalla paura - lo si deve al sacrificio di uomini come D'Aleo, Bommarito e Morici, la cui storia racconta la forza inesauribile dello Stato e la tenacia dei valori positivi che la mafia e i suoi alleati all'interno di alcuni partiti politici (che non ritengono inaffidabili i loro esponenti nemmeno se risultano comprovati i loro consapevoli legami con i mafiosi), delle amministrazioni pubbliche locali e nazionali, di esponenti collusi del mondo economico e delle libere professioni cercano di cancellare. 
Se dopo un quarto di secolo in una delle regioni più povere d'Italia, Confindustria e alcuni suoi valorosi esponenti hanno trovato il coraggio di reagire e di sfidare il sistema delle estorsioni e del pizzo, numerosi giovani e adulti si sono riuniti per dare vita a comitati (come Addio Pizzo) e ad associazioni (come Libera), portando avanti una campagna in difesa della legalità, un po' di merito va riconosciuto anche a quei carabinieri in divisa troppo presto strappati alla vita. 
Ricordare il loro tragico destino rappresenta un doveroso tributo alla loro memoria e al dolore dei loro cari"

Luca Tescaroli, articolo intitolato "L'eroismo del capitano D'Aleo" e pubblicato su "la Repubblica" (edizione locale di Palermo) il 13 giugno 2008. 





"Comandante di Compagnia Carabinieri operante in zona ad alto indice di criminalità organizzata, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva, con elevato senso del dovere e sprezzo del pericolo svolgeva tenacemente opera intesa a contrastare la sfida sempre più minacciosa delle organizzazioni mafiose. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua giovane vita in difesa dello Stato e delle istituzioni. Palermo, 13 giugno 1983"

Motivazione del conferimento al Capitano dei Carabinieri Mario D'Aleo della medaglia d'oro al valor civile, assegnata il 31 agosto 1983.





Mario D'Aleo
"[…] il Capitano Mario D'Aleo era subentrato, nel comando della Compagnia dei CC. Monreale, al Capitano Emanuele Basile che era stato ucciso da Cosa Nostra il 4.5.1980. 
Fin dal momento del suo insediamento, il Capitano D'Aleo aveva proseguito, con lo stesso zelo, l'attività di polizia giudiziaria del suo predecessore, volta a contrastare gli interessi mafiosi nel territorio ove imperversava la potente cosca di San Giuseppe Jato, comandata da Brusca Bernardo ed avente come referente, a Monreale, Damiani Salvatore. 
L’ufficiale aveva, pertanto, avviato una serie di indagini indirizzate a colpire le iniziative economiche riferibili ai suddetti esponenti mafiosi ed alla cattura dei latitanti che si nascondevano nella zona, fra i quali lo stesso Brusca Bernardo, avvalendosi a tal fine anche della collaborazione dell’Appuntato Bommarito, il quale aveva già operato a fianco del Capitano Basile. L’Appuntato Bommarito, con il Capitano Basile, si era occupato di penetranti indagini nei confronti di Damiani Salvatore, nel corso delle quali i militari avevano sorpreso il boss mentre teneva una riunione con altri soggetti ritenuti appartenenti ad associazione mafiosa e ne era scaturito un conflitto a fuoco. E tali precedenti avevano indotto il Capitano D'Aleo a ritenere che il Damiani fosse coinvolto, quale mandante, nell'omicidio del suo predecessore; sicché l’ufficiale non aveva mai distolto la sua attenzione su quel boss, sottoponendolo fra l’altro ad un fermo in quanto indiziato di essere coinvolto in alcuni episodi di <<lupara bianca>> verificatisi nell'82 e proponendolo per l'applicazione della misura di prevenzione, sia personale che patrimoniale. 
Contemporaneamente, il Capitano D'Aleo si era attivato, anche mediante una serie di perquisizioni, al fine rintracciare il latitante Bernardo Brusca. L’ufficiale, infatti, aveva ben compreso quale fosse il peso mafioso nella zona dei diversi componenti della famiglia del Brusca e, per questo, quando incrociava qualcuno di loro, non mancava di fermarlo e sottoporlo a controlli"
Va messa in risalto l'"attività di contrasto a Cosa Nostra svolta dal Capitano D'Aleo, nel territorio della Compagnia dei CC. di Monreale coincidente con quello del mandamento di San Giuseppe Jato, divenuto una delle principali roccaforti dei <<corleonesi>>. 
[…] in quel periodo nella zona trascorreva la latitanza il capo mandamento Brusca Bernardo; ma anche Riina Salvatore era solito risiedervi, nella proprietà in contrada Dammusi ove il 30.11.1982 era stato ucciso Riccobono Rosario e, peraltro, nella stessa contrada, nel 1985, verrà arrestato Brusca Bernardo. 
Il Capitano D'Aleo, al pari del suo predecessore, non si era limitato a ricercare quei pericolosi latitanti mediante un'azione pressante anche nei confronti dei loro familiari (come il giovane Brusca Giovanni), ma aveva sviluppato indagini dirette a colpire i ramificati interessi mafiosi nella zona. 
Nel portare avanti quest'attività, anche tramite fermi ed arresti, l'Ufficiale aveva dimostrato pubblicamente di volere compiere il suo dovere, senza farsi condizionare dal potere mafioso acquisito dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni. Pertanto, è lecito ritenere che la motivazione dell’uccisione del Capitano D'Aleo risieda nella necessità di fermare un'azione di polizia giudiziaria che prima o poi avrebbe dato i suoi frutti con danni incalcolabili, essendosi peraltro acquisita la consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un altro servitore dello Stato assai determinato e in grado di mettere a repentaglio lo stesso prestigio da sempre goduto dai mafiosi in quel territorio. 
Al riguardo, è esemplificativo l’episodio relativo all'arresto di Brusca Giovanni avvenuto nel gennaio 1982, a seguito del quale l'anziano Brusca Emanuele era stato costretto ad uscire allo scoperto e recarsi personalmente presso la caserma dei Carabinieri per lamentarsi del trattamento riservato alla sua famiglia e lanciare sinistri avvertimenti al Capitano D'Aleo. 
Ve ne è, dunque, abbastanza per individuare il movente mafioso del delitto e per rendersi conto di come esso avrebbe dovuto essere eseguito al più presto, anche a costo di inasprire - ancora una volta - lo scontro con lo Stato. 
[…] il Capitano D'Aleo turbava la tranquillità del Riina e di Brusca Bernardo, minacciando anzitutto la loro latitanza in quel territorio"; inoltre "le circostanze dell’arresto di Brusca Giovanni costituivano un ulteriore segnale della determinazione con la quale l'Ufficiale voleva espletare i suoi compiti, senza curarsi della pericolosità e tanto meno della suscettibilità dei predetti boss mafiosi. 
[…] Alla stregua di quanto fin qui rilevato, può dunque affermarsi che l'omicidio del Capitano D'Aleo e degli altri due militari che lo accompagnavano, è da ascriversi a Cosa Nostra. 
Si volle così fermare l'azione di un coraggioso Carabiniere che avrebbe potuto ledere gli interessi ed il prestigio del sodalizio nel territorio del mandamento di San Giuseppe Jato, in quel periodo divenuto uno dei più importanti di Cosa Nostra. 
Addirittura, il Capitano D'Aleo stava mettendo in pericolo la latitanza di due boss del calibro di Bernardo Brusca e Riina Salvatore"

Corte di Assise di Palermo, sezione I, sentenza n. 22/01 emessa il 16 novembre 2001.





"Un anno fa, mi ricordo, lo incontrai in ascensore. 
Era tornato a Roma per passare in licenza qualche giorno qui, in casa del genitori. 
<<Mario>> gli chiesi <<ma non ti fa paura stare laggiù, a Monreale, con quell'incarico che ti hanno affidato?>>. 
Gli dissi proprio così, perchè sa, per me quel povero ragazzo era come un figlio. 
L'avevo visto nascere, gli volevo un gran bene. 
Tutti gli eravamo affezionati e lo seguivamo attraverso i racconti del padre e della madre orgogliosi. 
Cosa vuole, ventinove anni e capitano dei carabinieri, addirittura comandante di una compagnia in Sicilia.
Così giovane e così ben portante. 
Allora lui mi rispose con quel sorriso schietto che aveva: 
<<Non potevo rifiutare di prendere il posto di un collega ammazzato come un cane. E poi vede, la mafia non è potente come si crede. E’ pericolosa, certo, ma io, per quel poco che posso fare, ce la sto mettendo tutta, per sconfiggerla>>. 
[…] Poveretto, era uno che non si stancava mai. 
Non perdeva tempo. 
Dopo la licenza liceale si era iscritto all'Accademia di Modena. Il corso conseguito brillantemente e infine l'incarico: da tre anni era a Monreale a dirigere la stazione che era stata del capitano Emanuele Basile trucidato da sicari mafiosi"
Visto che Mario D'Aleo si sarebbe dovuto sposare a breve con una ragazza romana, "sapesse come hanno insistito i genitori: volevano che rientrasse da lì e col pretesto del matrimonio speravano di convincerlo. La madre, soprattutto, si lamentava: <<Vogliono stabilirsi laggiù, in Sicilia. Ma io non sono tranquilla, preferirei che restassero a Roma, vicino a noi>>. 
[…] Ma anche se avesse saputo quello che stava per accadere, non avrebbe mollato"

Testimonianze raccolte da Valeria Parboni nella casa romana dei genitori di Mario D'Aleo (dove anche lui aveva vissuto) e pubblicate nell'articolo "<<Ricordo che una volta mi disse: "La mafia? Può essere battuta">>" apparso su "l'Unità" il 15 giugno 1983.


Mario D'Aleo è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Mario attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Mario è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.

domenica 15 febbraio 2015

ESSERE CITTADINI: INTERESSARSI AL VANTAGGIO COMUNE E' UNA NOSTRA RESPONSABILITA'!

Carlo Casalegno (1916-1977)
"Gli scandali offendono la nostra coscienza morale; è giusto e persin troppo naturale condannarli. Ma ritengo che danneggino la comunità assai meno che il disgregarsi dalla autorità e dalla forza dello Stato, l'inefficienza del sistema politico ed amministrativo, il lento scivolare verso forme di disordine endemico e di anarchia, le vittorie degli interessi di gruppo sul vantaggio della collettività. Gli scandali sono reati; ricadono sotto la sanzione della legge penale e la magistratura può colpirli. Soppresse le norme fasciste che proteggevano le colpe dei funzionari, oggi non esistono immunità. Ma il sabotaggio dello Stato attraverso la non collaborazione o lo sciopero, i cedimenti degli amministratori alle pressioni private entro i limiti delle leggi, il distacco dei politici dai problemi concreti e dei cittadini dalla cosa pubblica non sono reati: sfuggono alle sanzioni della giustizia, non implicano rischi. Ogni società moderna offre tentazioni frequenti alla fragilità umana dei funzionari, vasti campi di guadagno ai margini dell'illecito, occasioni nuove di complicità tra politica ed affari. Gli scandali che finiscono davanti al magistrato non mi spaventano. Mi sgomenta invece quello <<smantellamento, materiale e morale delle istituzioni>>, cui si assiste ogni giorno attraverso fatti che la legge non punisce"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Grave ma non troppo (Gli scandali non sono il male più inquietante del nostro Paese)" e pubblicato su "La Stampa" del 17 giugno 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".




"I laici non conoscono una Verità da difendere o da impone, ma l'eguale diritto per tutti di esprimere la propria verità; ed allo Stato chiedono di non avere una fede, ma di assicurare a tutte gli stessi diritti. Perciò il laicismo <<non ha fatto il suo tempo>>, ma resta un'ideologia ed una politica sempre attuale.
Il divorzio è solo uno dei punti, sia pure il più appassionante e discusso, di un programma laico: lo chiediamo non per attaccare la dottrina della Chiesa od imporre ai cattolici di rinnegare la propria visione della famiglia, ma per consentire ai cittadini italiani che non ci credono di risolvere secondo una legge civile, accettata in quasi tutto il mondo, i problemi della loro vita familiare. Altrettanto importante, anche se meno popolare, è garantire a tutti gli italiani quell'eguaglianza religiosa, e quindi giuridica, che la Costituzione prescrive e che i Patti lateranensi limitano gravemente. Il Concordato fa dell'Italia (l'affermazione è di Jemolo) uno <<Stato confessionale>>: con una <<religione di Stato>>, una situazione di privilegio per il clero cattolico, l'impegno del braccio secolare ad assistere gli ecclesiastici negli atti del loro magistero spirituale […], una scuola che riconosce nella dottrina cattolica <<il fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica>>, la prevalenza della legislazione canonica su quella civile in materia matrimoniale.
E' desiderabile che il Concordato sia rivisto attraverso negoziati fra Stato e Chiesa, con un accordo soddisfacente tra le due parti. Ma è necessario che il governo non dimentichi l'impegno di iniziare sollecite trattative con il Vaticano; e difenda con risolutezza la sovranità dello Stato ed il carattere aconfessionale della Repubblica: è un principio di libertà che non consente privilegi, ma giova anche all'autentica vita religiosa. Per il richiamo ai diritti dello Stato, nella polemica i laici sono accusati spesso di <<statolatria>>: e dopo le tragiche esperienze della dittatura fascista quest'accusa ha praticamente il valore di un'ingiuria. Dovrebbe essere superfluo spiegare che, per i laici democratici, il senso dello Stato non conduce all'imposizione di un dogma profano, politico, al posto di un dogma confessionale, ma è rifiuto di ogni dogmatismo. Se lo Stato democratico ha una religione, è - per quanto sembri retorico - la religione della libertà: eguaglianza dei cittadini, distinzione tra reato e peccato, fiducia nell'uomo, neutralità del potere di fronte alle idee. Perciò lo Stato laico rifiuta ogni integralismo: sia quello tradizionale che vuol salvare le anime con leggi moralizzatrici, sia quello pronto ad imporre la giustizia evangelica con la rivoluzione"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Cos'è essere laici" e pubblicato su "La Stampa" del 30 settembre 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".




Carlo Casalegno
"Questa è una delinquenza di professionisti, esecutori e mandanti, che spesso la voce pubblica indica con esattezza, ma cui assicurano l'impunità la paura delle vittime e dei testimoni, l'insufficienza delle indagini, lo scrupolo della magistratura e soprattutto vaste reti di complici autorevoli.
[...] è difficile accettare come un fatto ineluttabile che la mafia continui ad arricchire, e ad uccidere per distendere gli illeciti guadagni, perché abusi amministrativi, indulgenze burocratiche, protezioni politiche le consentono di taglieggiare l'isola [la Sicilia, N.d.A.]La Commissione antimafia ha dimostrato oltre ogni dubbio che la <<mafia dei cantieri>> prospera sull'incetta dei terreni, sulla speculazione edilizia, sulle costruzioni abusive [...].
Il racket non è monopolio della Sicilia e non prospera soltanto sulle rapide trasformazioni di una società arretrata. La mafia si è estesa in Calabria [...]. Ha risalito la Penisola, mischiandosi alla delinquenza locale ed operando nei mercati - generali come nei night-clubs: a Genova, per un boss della malavita ucciso in un regolamento di conti, si sono avuti funerali sul modello americano dì <<Cosa nostra>>. Mafia e camorra taglieggiano il mercato ortofrutticolo; gruppi di gangsters impongono una costosa <<protezione>> non solo ad alberghi, locali notturni e case da gioco del Sud. Persino a distributori di benzina che rifiutavano di scioperare era posta la scelta tra la taglia e l'attentato al plastico: ci furono ottanta esplosioni in dodici mesi. 
[...] in Sicilia il costo della mafia rimane troppo alto: per il numero di vittime, per il saccheggio delle risorse economiche, per il veleno che diffonde nella vita pubblica dell'isola. 
E' demagogia o fuga dalla realtà progettare riforme a lunga scadenza, che dovrebbero tagliarne le radici risanando l'ambiente. 
Occorre anzitutto un'energica repressione, non solo penale ma amministrativa, che colpisca esecutori, mandanti e complici delle illegalità; e occorre la volontà politica di non adoperare la mafia come strumento di potere. 
Senza questa pulizia preventiva, la mafia riuscirebbe a paralizzare le riforme od a sfruttarle: già si è trasformata con vantaggio da agricola in urbana, e si muove con sicurezza tra cantieri, uffici e assemblee" 

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "I mitra a Palermo" e pubblicato su "La Stampa" del 12 dicembre 1969.





"[...] il gusto della violenza, il disprezzo della legge, le esplosioni di collera, la propensione all'estremismo, il rifiuto della ragione incominciano a diffondersi in misura inquietante. 
Non è un fenomeno soltanto italiano. 
[...] Ma in quasi tutta l'Europa, ormai in pace da un quarto di secolo, ricostruita sulle rovine del '45, profondamente rinnovata dal crescere di una generazione che non porta i segni di un passato tragico, si osservano un diffuso ritorno alla violenza ed un preoccupante risveglio di passioni irrazionali. 
E si riaprono vecchi conflitti, che s'aggiungono ai motivi nuovi di turbamento. 
[...] Ovviamente, sono fenomeni che non si possono affrontare soltanto con misure di polizia, né con una risposta intollerante dell'opinione pubblica. 
[...] Quando una moda, una smania od una rivolta diventano fenomeni collettivi, vuol dire che rispondono a impulsi di fondo. Ci dev'essere qualcosa d'insoddisfacente nel nostro mondo, se tanti giovani cercano di evadere nel misticismo politico, nella parodia della rivoluzione, nell'esercizio gratuito della violenza, nella droga; ed il processo di trasformazione socioeconomico deve imporre ad alcuni gruppi un prezzo assai alto, se i bottegai si danno alla guerriglia, o in molte fabbriche il timore della seconda rivoluzione industriale provoca il ritorno a vecchie forme di luddismo. 
[...] L'altro giorno, commentando su Le Monde lo scioglimento di <<sinistra proletaria>> e l'arresto del direttore di La cause du peuple, André Fontaine ammoniva a non gettar via <<con l'acqua del bagno anche il bambino>>, cioè la libertà, e indicava come unica politica davvero utile il tentativo di ricuperare i giovani estremisti della contestazione. 
D'accordo; però occorre rispettare alcune condizioni, che in Italia ed altrove sono spesso trascurate. 
La repressione non basta, ma il rispetto della legalità è la premessa indispensabile per qualsiasi politica di riforme. Finché non cambi l'uomo e non ritorni l'età dell'oro, la polizia e la magistratura - operanti nell'ambito della legge e sottoposte al libero giudizio dell'opinione pubblica - rimangono due pilastri insostituibili della società civile; a mio parere sbagliano i democratici che alimentano nei confronti della polizia una sorta di <<pregiudizio sfavorevole>>, ed i magistrati che per contrasti di parte rischiano di attenuare la fiducia nella certezza del diritto. 
La seconda condizione è il consolidamento dello Stato, arbitro necessario tra i gruppi; la rinuncia dei poteri pubblici prepara la strada alla violenza privata, all'anarchia e alla dittatura. 
Sarebbe indispensabile, soprattutto, un ritorno alla Ragione: l'Europa ha sperimentato nella sua carne dove conducano i miti irrazionali della nazione, della razza, del populismo demagogico, della rivoluzione. Ma si può sperare che le prediche servano a qualcosa?" 

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Violenza e polizia" e pubblicato su "La Stampa" del 2 giugno 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"La convinzione così diffusa, ed in parte esatta, d'essere mal governati non nasce da un'irrimediabile degenerazione delle strutture statali; dipende, a mio parere, soprattutto dal distacco crescente tra la società e lo Stato: cioè dalle riforme mancate. 
E non ne sono responsabili soltanto i partiti, la classe politica, ma tutti i gruppi di potere e noi stessi, i milioni di cittadini. 
II vero scandalo italiano, e la nostra inferiorità a paragone dei Paesi più avanzali dell'Occidente, sta nel rinvio sistematico delle riforme più importanti, anzitutto di quella fiscale, e nell'arretratezza dei servizi sociali: la casa, la scuola, l'assistenza sanitaria. Il Paese ha avuto uno sviluppo impetuoso, ma squilibrato; è entrato per produzione e reddito nella pattuglia degli Stati all'avanguardia, ma conservando leggi, strutture e difetti da zona depressa. Le tasse indirette, le più ingiuste, rendono all'erario quasi due volte il gettito delle imposte dirette. Nessuna legge urbanistica ha limitato la speculazione sulle aree e consentito una crescita razionale delle città. Non c'è rapporto tra costo ed efficienza nel meccanismo mutualistico. Tutti i servizi pubblici funzionano male. E potremmo continuare. E' una crisi non priva di attenuanti: anche per il più solido dei governi nel migliore dei Paesi sarebbe stato arduo realizzare tempestivamente le riforme imposte dalle trasformazioni economiche e sociali, che l'Italia ha vissuto negli ultimi vent'anni. 
Ma diventa impossibile superare la crisi, quando alla debolezza del potere politico si unisce l'egoismo corporativo dei cittadini, si invocano le riforme rifiutando di pagarne il costo, ed ogni gruppo dà l'assalto allo Stato nel totale disinteresse per il vantaggio comune"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Pessimismo con giudizio" e pubblicato su "La Stampa" del 4 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"[...] non sono soltanto nostri i problemi, denunciati dal primo ministro francese, d'una <<società bloccata>> che non riesce a tradurre in progresso sociale ed umano lo sviluppo tecnologico ed economico; o le tensioni [...] risultanti dallo squilibrio tra consumi privati ed investimenti d'interesse collettivo; o la difficoltà di uno sviluppo programmato, che riduca anziché accrescere il distacco tra le zone di punta e le aree depresse; o la complessa ricerca di rapporti, aggiornati alla società che sta nascendo, tra proprietà e potere, gigantismo burocratico e <<partecipazione>>, autonomie locali o corporative ed interesse comune. 
Su parecchi di questi punti, noi ci troviamo a mezza strada fra i pochi Paesi all'avanguardia ed i molti Stati alla retroguardia. Siamo in ritardo di alcune riforme essenziali: a cominciare, per esempio, da quella urbanistica. 
Ma mi pare giudizio troppo semplicistico attribuirne la colpa tutta e soltanto ai cattivi <<politici>>. 
Nelle molte lettere di condanna senza appello dello Stato italiano, nessuno dei miei critici rivela, per quanto ho capito, il minimo sospetto che i cittadini abbiano una parte di responsabilità nelle disfunzioni del nostro Paese. 
Eppure, a guardar bene, stiamo aspettando invano soprattutto le riforme che colpirebbero direttamente gli interessi privati: in denaro, orgoglio municipale, privilegi corporativi. 
Si chiede la riforma fiscale, purché colpisca altri gruppi. 
Si vogliono leggi urbanistiche, senza rinunciare all'anarchia delle costruzioni. 
Si protesta contro l'eccesso della spesa pubblica, ma si rifiuta anche il trasferimento di una pretura. 
Si invoca l'<<ordine>>, però gli stessi funzionari organizzano cortei in piazza. 
Gli scioperi che offendono sono sempre quelli degli altri. 
Si deplora la debolezza dello Stato, e tuttavia molti italiani continuano a tenere per i ladri contro le guardie"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Tutta colpa dei politici?" e pubblicato su "La Stampa" del 18 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





Carlo Casalegno
"Fra pochi anni vedremo un sottile minareto innalzarsi verso il cielo insieme con i cento campanili di Roma? E' probabile, ed è ragionevole. 
In Italia vivono decine di migliaia di musulmani; Roma ospita due corpi diplomatici ed organismi internazionali, con funzionari e delegati di fede islamica in percentuale crescente, ed è la più importante stazione di transito del Mediterraneo. 
La costruzione d'una moschea risponde ad esigenze religiose, e anche d'ospitalità, che il nostro governo non può ignorare; il consenso di principio è assicurato, rimangono da risolvere soltanto i problemi pratici. 
D'una moschea in Roma si parla fin dagli anni '30 [...], ma senza concludere nulla: il veto della Santa Sede bastava per scoraggiare le autorità italiane. 
Anche in anni più vicini non mancò qualche resistenza all'idea d'inserire una moschea nel panorama urbano e religioso di Roma; si suggeriva di costruirla fuori porta, a Fiumicino, in campagna, con un compromesso ibrido che non avrebbe accontentato gli ospiti, né fatto onore all'imparzialità della Repubblica in materia di culto. 
[...] Superati gli ostacoli di principio, rimangono due questioni pratiche: dove collocare la moschea ed a chi addossarne le spese. 
Un contributo italiano alla costruzione, che non apparisse un tentativo assai goffo di comprare la benevolenza dei produttori di petrolio, ma fosse una dignitosa testimonianza di spinto ecumenico, potrebbe incontrare il consenso di laici e cattolici. 
E' più difficile scegliere il terreno adatto per edificarvi il tempio: se non appare equo respingerlo nella lontana periferia, non sarebbe saggio inserirlo in modo pacchiano o chiassoso nel tessuto urbanistico e culturale di Roma. La città ha un volto già troppo deturpato da monumenti umbertini, colossi mussoliniani e abusi speculativi; la moschea non può essere un secondo Altare della Patria, né conviene che il minareto schiacci i campanili o sovrasti San Pietro. E' questa la sola e giusta preoccupazione espressa dal Vaticano, che accetta invece senza riserve il principio d'un tempio islamico in Roma. 
[...] Consentendo alla moschea, il Vaticano dimostra d'interpretare il riconoscimento del carattere <<sacro>> di Roma, scritto nei Patti lateranensi, in modo non incompatibile con l'eguaglianza religiosa e la laicità dello Stato scritte nella Costituzione della Repubblica. 
[...] Ci sono però gruppi di cattolici che non sembrano disposti ad accettare questa interpretazione. 
O sono fermi, per vocazione integralista, alle tesi pacelliane [cioè espresse da Eugenio Pacelli, Papa Pio XII, N.d.A.]; o, per non sopita avversione al laicismo risorgimentale, restano ecumenici a metà; aperti al dialogo con tutte le confessioni, soprattutto del Terzo Mondo, in politica interna sono legati a nostalgie clericali. 
[...] Costruire una moschea in Italia per acquistare meriti presso gli arabi, sarebbe un calcolo meschino; vedere nel tempio islamico di Roma un gesto di riparazione per i secoli d'intolleranza, sarebbe un altro di quei pensieri futili in cui indugia così volentieri il masochismo antistorico di certi europei. 
Ma forse l'occasione è propizia per ricordare agli amici arabi che non conviene a nessun Paese del Medio Oriente o del Nordafrica ripetere gli errori del nostro passato. Quando l'Europa era chiusa nell'intolleranza religiosa, ebrei ed eretici cercarono rifugio in terre islamiche; sarebbe una tragedia assurda se la spinta nazionalistica conducesse i nuovi Stati verso il fanatismo confessionale che noi in Occidente abbiamo ripudiato" 

Carlo Casalegno, articolo intitolato "La moschea di Roma" e pubblicato su "La Stampa" del 23 gennaio 1974.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"Può darsi che attorno alle prime indagini sullo scandalo del petrolio [esso riguardava l'enorme flusso di tangenti pagate dai petrolieri ai politici, al fine di comprarsi le leggi a proprio esclusivo vantaggio e ai danni della collettività, N.d.A.] circolino voci allarmistiche o romanzesche; ma che siano stati commessi reati gravi d'imboscamento, di frode e di corruzione a danno sia dei cittadini che dello Stato è una certezza: lo dicono i magistrati, lo ammettono indirettamente gl'inquisiti, lo capisce l'opinione pubblica. 
Le incertezze riguardano l'entità del danno e il numero dei colpevoli, le sedi giudiziarie e i tempi delle inchieste, la fermezza che magistrati e politici dimostreranno nel togliere dall'ombra tutta la verità. 
Le indagini sono appena incominciate, e subito emergono conflitti di competenza giudiziaria, causa d'inevitabili inquietudini per gl'italiani scottati da tante esperienze negative. 
Sembra che alcuni dei sospettati preferiscano un'imputazione più grave pur di sfuggire all'inchiesta dei pretori: brutto segno. Anche l'esortazione a una severa e inconsueta difesa del segreto istruttorio suscita perplessità.
Ma al problema delle competenze non si può sfuggire, trattandosi d'una catena di reati di gravità non ancora definita e commessi in più sedi. 
I petrolieri inquisiti sono di Genova, l'Unione petrolifera sta a Roma; in Roma lavorano i funzionari che si sospettano complici, le direzioni dei partiti finanziati con <<fondi neri>>; e il codice stabilisce limiti stretti al lavoro dei pretori: i reati più gravi ricadono sotto la giurisdizione delle procure e dei tribunali. 
La rapida definizione delle competenze e (se imposta dalla legge) la pronta unificazione delle indagini possono giovare a un sollecito accertamento della verità, prevenire quegli incidenti procedurali che così spesso offrono scappatoie ai colpevoli, evitare i conflitti che hanno pregiudicato, ad esempio, l'inchiesta Valpreda. 
I <<pretori d'assalto>> non sono gli unici magistrati che abbiano la volontà d'indagare e i mezzi per farlo; ma l'opinione pubblica esige che la scelta dei giudici competenti non sia ritardata da gelosie municipali o sottigliezze bizantine, che l'accentramento delle indagini non offra l'occasione per insabbiarle o diluirle in tempi lunghi, che gl'inquirenti non cedano alle pressioni di potenti interessi e neppure alla <<ragion di Stato>>. 
Non sarebbe carità di patria coprire i funzionari corrotti per salvare il prestigio d'un ministero o del governo, e gli uomini di partito complici dei petrolieri per non seminare diffidenza nella classe politica: sono le reticenze, le solidarietà mafiose, i silenzi sugli scandali che stanno distruggendo la fiducia nelle istituzioni e logorando il prestigio dello Stato.
Ogni cittadino ha pagato di tasca sua un prezzo per le speculazioni sul petrolio, durante una crisi da cui il Paese può uscire soltanto con un duro sforzo collettivo: colpire i corruttori ed i corrotti, per quanto in alto si trovino, è una necessità politica prima ancora che morale"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Colpire corruttori e corrotti" e pubblicato su "La Stampa" del 7 febbraio 1974.





Carlo Casalegno
"[...] sarebbe [...] distruttivo sottovalutare la gravità della crisi, o illudersi di poter disgiungere gli aspetti politici da quelli morali. 
La crisi è anzitutto di sfiducia, negli uomini e nelle istituzioni; e senza fiducia non si possono mobilitare le energie necessarie alla ripresa. 
La strada per sfuggire al precipizio passa attraverso il coraggio d'affrontare gli scandali, di giungere alla verità senza lasciare alle opposizioni il comodo monopolio della denuncia, d'imporre misure di risanamento. 
I <<Watergate>> nostrani non investono l'intera classe politica. Ma confermano l'esistenza di legami stretti ed occulti tra governo e sottogoverno, partiti e aziende, pubblici affari e politica; denunciano l'estendersi - non contrastato con la doverosa energia - di una concezione mafiosa del potere, applicata con spregiudicatezza da ambiziosi padrini. 
Gli scandali sono un'occasione per fermarli: non si salverebbe un Paese gestito come <<Cosa nostra>>"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Il coraggio della verità" e pubblicato su "La Stampa" del 15 febbraio 1974.





"I terroristi organizzati colpiscono a sorpresa, uscendo dalla clandestinità e scomparendo in rifugi predisposti e protetti dai complici: solo incidenti o errori in azioni li rendono vulnerabili. 
La polizia, per quanti sforzi faccia, riesce a proteggere soltanto un numero limitato di personaggi e di obbiettivi. Può difendere l'ambasciatore tedesco, <<condannato a morte>> per rappresaglia; non ciascuno dei ventimila o cinquantamila cittadini che possono essere, in qualunque momento, colpiti dai nuovi terroristi: politici pressoché sconosciuti o capi officina, giornalisti o avvocati. 
Infiltrare informatori nelle cellule terroristiche è un'impresa ardua sempre, ma disperata oggi, dopo lo sconquasso dei servizi segreti. 
E' dunque inutile farsi delle illusioni in una sollecita sconfitta del terrorismo: continueranno gli attentati, cadranno altre vittime. 
Ma allo Stato non mancano i mezzi - legittimi, costituzionalmente corretti - per ridurre lo spazio e l'impunità dei terroristi, per tagliare le reti dei favoreggiatori e dei complici, per rendere più difficili gli arruolamenti dei killers; e soprattutto per isolare i nuclei ristretti di professionisti del terrorismo dai gruppi ben più vasti che predicano e praticano la violenza politica, e offrono al terrorismo coperture, aiuti, nuove reclute, azioni di fiancheggiamento. 
L'aspetto più preoccupante della crisi dell'ordine pubblico in Italia consiste, infatti, nella molteplicità e nell'estensione dei gruppi che formano il <<partito armato>>: abbiamo i Nap e le Br, simili alla Raf tedesca; ma abbiamo anche una quantità, ineguagliata in Occidente, di formazioni squadristiche rosse o nere, in grado di scatenare violenze, frequenti e coordinate, in gran parte dei maggiori centri urbani. 
Questi gruppi non vivono, come i brigatisti rossi e nappisti, in clandestinità: li conosce la polizia, li conoscono i cittadini; spesso hanno sedi ufficiali, tengono assemblee, pubblicano giornali. 
Fino a quando svolgono un'attività politica, per quanto di un esasperato estremismo, esercitano un diritto garantito dalla legge democratica, che non ammette censura sulle opinioni. 
Ma quando organizzano o favoriscono azioni violente, provocano o compiono azioni delittuose, quei gruppi escono dalla legalità, e non possono chiedere allo Stato né tolleranza, né impunità. Le sedi politiche, in questo caso, diventano <<covi>>, e vanno chiuse; e i militanti politici, trasformati in squadristi, debbono essere perseguiti come autori di reati. 
Finora governo, magistratura, polizia hanno risposto con il rigore consentito, anzi voluto dalla legge? 
Il problema è delicato: meglio esagerare negli scrupoli, quando si difendono i diritti di libertà. 
Ma occorre pur chiedersi se l'Autonomia rimanga nei limiti del lecito, se non si trasformi in associazione per delinquere, quando programma, impone, organizza scontri armati e introduce i suoi guerriglieri nei cortei per trascinarli alla violenza; quando nelle assemblee si applaude l'assassinio di Schleyer [Hanns Martin Schleyer, presidente degli industriali della Repubblica Federale Tedesca, con un passato nelle SS. Rapito a Colonia il 5 settembre 1977 dall'organizzazione di estrema sinistra Rote Armee Fraktion (RAF), venne ucciso 43 giorni dopo, il 18 ottobre 1977. Il corpo fu ritrovato in Francia il giorno seguente, all'interno del bagagliaio di un'automobile, N.d.A.], o si spingono gli studenti alla <<rappresaglia>> antitedesca; quando ospedali o laboratori universitari sono occupati, devastati, usati come terreno di battaglia contro lo Stato. 
Si è chiesta giustamente la chiusura di sezioni missine, che sono centrali squadristiche; ma conviene sollecitare dalla magistratura, con imparziale rigore, anche la perquisizione di certe sedi dell'estrema sinistra, dove i militanti sembrano regolarmente rifornirsi di armi improprie. 
E bisogna domandarsi se sia stato saggio lasciare incontrastate o impunite, per timore d'incidenti più gravi, centinaia di azioni criminali, forse lievi in sé ma pericolose nel loro metodico ripetersi, dai picchettaggi duri nelle scuole ai cortei vandalici, dalle incursioni degli autoriduttori alla paralisi di servizi pubblici. 
[...] per stroncare la violenza non bastano gli interventi a caldo dei carabinieri. Sono necessarie le indagini preventive della polizia, l'attività assidua e operante della magistratura, la volontà politica. Occorre prosciugare le sorgenti, di mobilitazione e di propaganda, che alimentano la guerriglia; colpire con estrema durezza i traffici di armi ed esplosivi; e fare il vuoto attorno al terrorismo, con un'attenta vigilanza anche sulle complicità indirette, magari coperte dall'impegno professionale o dalle irresponsabili trasmissioni di certe radio <<libere>>. 
Anche l'opinione pubblica ha un compito importante in quest'opera di risanamento: quello di isolare provocatori o demagoghi"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Rossi, neri chiudere i <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 26 ottobre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"Ventiquattr'ore dopo la perquisizione e la chiusura di tre sedi degli Autonomi, in Roma e in Torino, un gruppo di brigatisti rossi milanesi ha colpito alle gambe un dirigente dell'Alfa Romeo. 
Tra i due avvenimenti non sembra esistere un rapporto diretto; e forse neppure tra le due organizzazioni. L'attentato di Milano non è una rappresaglia; è uno tra i tanti gesti d'intimidazione terroristica che le Br, coperte da una rigorosa clandestinità, stanno metodicamente eseguendo contro capifabbrica, giornalisti, funzionari, politici di medio rango, per seminare paura e per avvilire le vittime: nei colpi alle gambe c'è qualcosa dello sfregio mafioso. Né finora sono stati scoperti, tra i terroristi e il Movimento, collegamenti operativi; del resto, sarebbero pericolosi per un'organizzazione che trae la sua forza dal segreto e dall'impenetrabilità. 
Esistono tuttavia, tra il terrorismo e le formazioni eversive dell'estrema sinistra, rapporti indiretti e un'obbiettiva complicità. Br, Nap, Prima linea con l'azione armata clandestina, i fanatici dell'ultrasinistra con i cortei violenti, i sabotaggi, le spedizioni squadristiche, la pratica organizzata dell'illegalità conducono, utilizzando mezzi diversi, una stessa guerra alle istituzioni, ai princìpi della convivenza civile, a interessi primari, politici ed economici, della collettività. E le organizzazioni oltranziste non clandestine offrono al terrorismo una solidarietà dichiarata, anche se talvolta critica; una copertura psicologica! una vasta schiera di giovani combattivi, tra cui poter trarre nuove reclute. Non per caso Br e Autonomi hanno le stesse radici politiche, la stessa matrice ideologica: nascono, le une e gli altri, dall'esperienza di Potere operaio. 
Ciò che accresce i danni e la minaccia della violenza politica in Italia è proprio il cumularsi, con effetto moltiplicatore, di due fenomeni: al terrorismo, rosso e nero, si aggiunge un duplice squadrismo, d'estrema destra e d'estrema sinistra, che nel nostro Paese ha assunto proporzioni sconosciute nel resto dell'Occidente. La guerra a formazioni terroristiche clandestine (anche se prive di complicità in <<corpi separati>> dello Stato) è molto difficile […]; e i successi della repressione non bastano per sperare in una vittoria definitiva su bande sostenute da appoggi internazionali. 
Ma anche la più aperta delle democrazie può battere lo squadrismo, se esiste la volontà politica di applicare la legge penale. 
La chiusura dei <<covi>>, in Roma e in Torino, indica la fine di una troppo lunga immunità per la violenza organizzata? 
Non è ragionevole pensare che la polizia abbia deciso di propria iniziativa d'intervenire contro le sedi romane e torinese di Autonomia; fra l'altro, troppe sue inchieste e denunce erano cadute nel vuoto per la prudenza della magistratura. La decisione è del governo; e sembra maturata nel clima d'allarme delle ultime settimane, dopo gli attentati a catena contro rappresentanti della dc e le giustificate pressioni dei gruppi parlamentari. Né si può gridare all'abuso di potere, allo scandalo, alla provocazione, come fa Il Manifesto, per il fatto che gli agenti non abbiano trovato nei <<covi>> armi o piani di guerriglia: anche i militanti più sprovveduti avrebbero fatto scomparire in tempo il materiale compromettente da sedi ben note come centri di sovversione. 
Più che i risultati delle perquisizioni, conta una verità accertata negli anni: nelle sedi di Autonomia [...] si organizzavano cortei programmati per la violenza, azioni del <<partito armato>>, operazioni di sabotaggio al Policlinico o all'Università, campagne illegali di <<esproprio proletario>>. 
La legge [...], che consente la chiusura dei <<covi>>, non è liberticida; dispone che le misure di polizia siano convalidate (o annullate) in tempo breve dall'autorità giudiziaria, e colpisce i reati, non le opinioni. 
Il controllo indipendente della magistratura è un'indispensabile garanzia democratica; ma si deve sperare che finiscano la distrazione o l'indulgenza che hanno assicurato ai guerriglieri anni d'immunità e intangibili santuari [...]
Né il diritto alla libertà d'opinione può essere esteso fino a tollerare l'apologia dello scontro con le molotov e le P 38, che Pifano, il leader degli Autonomi romani, giustificava dichiarando: <<Siamo in guerra, e in guerra vince chi spara per primo>>. 
Parole e fatti dei militanti autorizzano le decine di denunce per costituzione di banda armata. 
Nei prossimi giorni, il problema dell'ordine pubblico sarà discusso dal governo e in varie sedi politiche; torneranno, sotto l'impulso della paura e dello sdegno per l'ininterrotta catena di atti terroristici, le proposte di misure d'emergenza. 
Sono quasi tutte inutili, inquietanti o superflue. 
Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l'eversione, purché siano applicate con risolutezza imparziale contro tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati: anche contro le intimidazioni e le devastazioni finora tollerate per amor di pace o per timore d'incidenti più gravi. 
Più che l'arsenale legislativo, occorre rafforzare le strutture della polizia, e ridare vita sollecitamente a servizi d'informazione controllati ma efficienti: sono uno strumento difensivo di cui nessuno Stato può privarsi"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Terrorismo e chiusura dei <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 9 novembre 1977.




"[...] a Guglielmo Zucconi [direttore de "La discussione", settimanale politico-culturale della Democrazia Cristiana, N.d.A.] e ai suoi colleghi della dc che, sul Popolo e nei discorsi, hanno sviluppato la polemica contro lo scandalismo, vorremmo sottoporre qualche amichevole osservazione. 
La prima e più marginale è che sembrano aver dimenticato il contributo offerto alle campagne scandalistiche dai loro compagni di partito. 
[...] si ha l'impressione che taluni scandali siano legati a lotte di potere, a faide di corrente, e che i giornalisti <<nemici>> abbiano qualche volta ricevuto ispirazioni, notizie, documenti dall'interno della dc. Nella corsa alle poltrone del Quirinale, di Palazzo Chigi, di piazza del Gesù, non mancano spinte e sgambetti, che porterebbero alla squalifica in qualsiasi gara sportiva. 
Ma anche in un altro modo, più diretto e determinante, l'atteggiamento dei democristiani ha contribuito ad alimentare lo scandalismo. 
Zucconi afferma che <<l'arroganza delle parole è non meno grave dell'arroganza del potere>>, e che il proliferare selvaggio delle <<rivelazioni>> scandalistiche non giova né alla giustizia né al rinnovamento della dc; anzi, esso costringe <<tutto il partito a fare blocco per non venire travolto>>. 
Ma non è almeno altrettanto valida l'ipotesi opposta: che la dc abbia abusato dell'arroganza del potere e che, <<facendo blocco>> sempre di fronte a tutte le accuse, nello spirito e nella tradizione dei corpi chiusi e separati, abbia contribuito ad accrescere e motivare il polverone scandalistico? 
La misura nell'esercizio del potere, quando all'egemonia si unisce la mancanza di alternative, è la più difficile delle virtù: agli errori della dc si possono riconoscere molte attenuanti. 
Tuttavia all'immagine e alla credibilità del partito avrebbero giovato un maggior rigore verso le proprie pecore nere, un risoluto coraggio non solo nell'affrontare le inchieste, ma nel premere per solleciti giudizi, penali e politici. 
De Gasperi insegnava (e Zucconi lo ricorda) che <<l'onore di un uomo politico non è un affare privato>>.
Appunto per questo motivo, la dc avrebbe dimostrato saggezza allontanando da posizioni di potere tanti uomini il cui onore era leso da colpe accertate, o da sospetti non infondati; o da manifesta inettitudine. 
In un Paese che non riesce a processare gli attentatori di piazza Fontana, e dove l'Inquirente [trattasi della Commissione inquirente, competente a indagare sui reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Composta da 10 deputati e 10 senatori, al termine dell'istruttoria poteva giungere a due verdetti: archiviare le accuse in quanto manifestamente infondate o trasmettere le carte al Parlamento. Questo, riunitosi in seduta comune, decideva se "rinviare a giudizio" il ministro; in tal caso costui era messo in stato d’accusa di fronte alla Corte costituzionale. Il collegio giudicante - del quale facevano parte anche 16 cittadini - emetteva sentenza di proscioglimento o di condanna nei confronti dell'imputato. Ebbene, è stato calcolato che su oltre 300 casi esaminati tra il 1948 e il 1987, la Commissione inquirente aveva inoltrato gli atti al Parlamento solamente 10 volte; che solo 2 ministri erano arrivati di fronte al giudizio della Consulta; che la Corte costituzionale ne aveva condannato solo 1, nel 1979. Ecco perchè l'Inquirente veniva considerata sinonimo di impunità per i governanti italiani, N.d.A.] dispensa immunità, non si può aspettare la sentenza definitiva della magistratura per togliere dal governo, ad esempio, un boss indiziato di complicità con la mafia"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Scandali, morale e bombe" e pubblicato su "La Stampa" del 16 novembre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".


Carlo Casalegno è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Carlo attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Carlo è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.

venerdì 6 febbraio 2015

APPASSIONARSI ALL'IMPEGNO CIVILE E PROFESSIONALE

Mario Francese (1925-1979)
"[...] era proprio l’attività giornalistica della vittima a fare di lui un possibile obiettivo di <<Cosa Nostra>>, per lo straordinario impegno civile con cui egli aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70. In un periodo nel quale, per la mancanza di collaboratori di giustizia, le informazioni sulla struttura e sull'attività dell’organizzazione mafiosa erano assai limitate, Mario Francese aveva raccolto un eccezionale patrimonio conoscitivo, di estrema attualità ed importanza. Egli andava costantemente alla ricerca delle notizie che formavano la materia prima delle sue inchieste giornalistiche, attraverso il contatto diretto non solo con gli organi investigativi, ma anche con le più varie fonti capaci di offrirgli nuove chiavi di lettura e spunti inediti sui più gravi fatti di cronaca. Come ha specificato il suo collega Ettore Serio nel verbale di assunzione di informazioni del 6 maggio 1998, Mario Francese era <<un cronista che, lungi dal limitarsi a "leggere carte", investigava personalmente riuscendo ad acquisire informazioni "di prima mano">>.
Mario Francese si identificava completamente con la sua professione, che lo portava a recarsi direttamente sui luoghi dove erano avvenuti i più gravi episodi di cronaca, per raccogliere tutti gli elementi che potessero aiutarlo a comprendere gli eventi ed il contesto in cui essi maturavano. Le informazioni così acquisite, e da lui elaborate con grande cura, rigore ed onestà intellettuale, venivano, poi, trasfuse in articoli dallo stile vivo, concreto ed efficace, che delineavano in modo chiaro e completo i contorni, i presupposti e le implicazioni degli avvenimenti di maggiore rilievo, descritti con grande ricchezza di dettagli, e senza tacere il nome di nessuno dei soggetti coinvolti, quale che fosse il suo spessore criminale ed il suo ruolo sociale. Dagli articoli e dal dossier redatti da Mario Francese, emerge una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di <<Cosa Nostra>> nel mondo degli appalti e dell’economia ed iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio. Una strategia eversiva che avrebbe fatto un <<salto di qualità>> proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all'opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all'interno di <<Cosa Nostra>>. E’ significativo che sia stato proprio l’assassinio di Mario Francese ad aprire la lunga catena di <<omicidi eccellenti>> che insanguinò Palermo tra la fine degli anni ’70 ed il decennio successivo, in attuazione di un preciso disegno criminale che mirava ad affermare il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Chi – avvalendosi delle strutture operative di un’organizzazione connotata da un fortissimo vincolo di segretezza - aveva ideato un progetto delittuoso di così ampia portata, destinato ad incidere pesantemente sugli assetti socio-economici e sulle Istituzioni, non poteva certamente tollerare che le lontane radici ed i più recenti sviluppi di questa strategia fossero descritti con profondità ed accurata attenzione, compresi nei loro esatti termini, e sottoposti all'attenzione della collettività, attraverso il giornale più diffuso nella Sicilia Occidentale [ovvero il "Giornale di Sicilia", N.d.A.]. Per assicurare non solo la compiuta attuazione, ma anche l’efficacia intimidatrice di un complesso disegno destinato ad incombere su tutta la realtà sociale, con la sua oscura ed apparentemente inarrestabile forza, era particolarmente importante eliminare un cronista che, con il suo appassionato e coraggioso impegno civile e professionale, era in grado di fare chiarezza sullo scenario complessivo nel quale venivano ad inserirsi i tragici eventi susseguitisi dopo la metà degli anni ’70, rendendo visibile anche alla gente comune l’oscuro intreccio di interessi e di trame criminali sotteso alla più recente strategia della <<mafia emergente>>, ed additando all'opinione pubblica i protagonisti della nuova stagione di terrore mafioso. Il modo di lavorare di Mario Francese era, sotto diversi aspetti, simile a quello degli organi investigativi: le sue inchieste giornalistiche, condotte direttamente sul campo, <<in prima linea>>, ed animate da una forte carica interiore di appassionata ricerca della verità, si intersecavano con le iniziative delle forze di polizia, che - nello stesso contesto di tempo e di luogo, e nonostante le obiettive difficoltà derivanti dalla mancanza di collaborazioni con la giustizia - provavano a tracciare un quadro credibile ed attuale del processo di riorganizzazione di <<Cosa Nostra>> e ad individuare le causali ed i protagonisti dei gravi episodi criminosi verificatisi negli anni precedenti. L’efficace impegno con cui Mario Francese esercitava la sua attività giornalistica, gli ideali di giustizia che lo guidavano e l’importantissimo patrimonio conoscitivo che egli era in grado di trasfondere nei suoi articoli, concorrevano a rendere le sue analisi del fenomeno mafioso particolarmente interessanti, oltre che per il pubblico dei lettori, anche per l’autorità inquirente, cui egli era costantemente vicino, tenendo un contegno ispirato alla massima linearità e correttezza deontologica. Ripercorrere alcune delle vicende narrate da Mario Francese, nella sua efficace ed appassionata attività professionale, significa operare una sintesi ragionata dei più significativi aspetti della storia di <<Cosa Nostra>> tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Nei suoi articoli venivano esaminate con particolare ampiezza le attività criminali di quelli che sarebbero divenuti i maggiori esponenti dello schieramento <<corleonese>>, destinato in seguito a divenire protagonista della strategia terroristico-eversiva manifestatasi sul finire degli anni ’70; venivano poste in luce le fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell’economia e degli appalti pubblici nella Sicilia Occidentale; venivano attentamente ricercate le causali e le responsabilità dei più gravi episodi delittuosi posti in essere dall'illecito sodalizio; veniva espressa l’insoddisfazione per le vistose difficoltà incontrate dall'autorità giudiziaria nel colpire i reati commessi nell'ambito di una struttura criminale che appariva, in quel periodo, largamente impenetrabile alle indagini processuali, a causa della carenza di collaboratori di giustizia. 
[...] In seguito, in numerosi articoli apparsi sul <<Giornale di Sicilia>>, Mario Francese continuò ad evidenziare la estrema pericolosità criminale dei più potenti esponenti mafiosi corleonesi, senza lasciarsi condizionare, nella sua autonoma ed approfondita valutazione dei fatti, dalle pronunzie assolutorie emesse nei loro confronti.
[...] Mario Francese, nel raccontare le vicende giudiziarie relative a fatti di mafia, delineò con chiarezza l’elevato spessore criminale di diversi esponenti di <<Cosa Nostra>>, il cui rilievo non era ancora stato posto in luce dai mezzi di informazione. 
[...] Alcuni dei più gravi e complessi episodi criminosi, rimasti insoluti per decenni (ed, in alcuni casi, non ancora chiariti in sede giudiziaria), furono presi in esame da Mario Francese: segnatamente, la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro [...], l’assassinio del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione [...], la morte di Enrico Mattei [...], l’uccisione di Giuseppe Impastato (v. l’intervista alla madre ed al fratello di Giuseppe Impastato, pubblicata sul <<Giornale di Sicilia>> del 18 maggio 1978 con il titolo <<Né terrorista né suicida - Mio figlio è stato ucciso!>>). L’acuta intelligenza e il coraggioso impegno professionale di Mario Francese si soffermarono, sin dalla prima metà degli anni ’70, anche su alcune significative personalità destinate a svolgere un ruolo di attiva intermediazione tra la mafia e la società civile, agevolando fortemente l’infiltrazione degli interessi dei boss corleonesi nei più diversi settori sociali.
[...] Mario Francese seguiva con grande attenzione i più recenti sviluppi di tutte le vicende giudiziarie nelle quali erano coinvolti i principali esponenti mafiosi corleonesi.
[...] La mancanza, nelle cronache redatte da Mario Francese, di qualsiasi timore reverenziale verso i più potenti boss mafiosi, è evidenziata dal suo articolo dal titolo <<Liggio il processo se lo fuma>>, pubblicato sul <<Giornale di Sicilia>> dell’8 aprile 1978, e dalla sua intervista al medesimo esponente di <<Cosa Nostra>> (definito come <<un gangster>>), apparsa in pari data sul quotidiano [...].
Mario Francese - il quale aveva già posto in luce i forti interessi economici dell’associazione mafiosa nel settore dell’edilizia [...] - comprese subito la nuova strategia di <<Cosa Nostra>>, volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall'esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60. Si trattava di una importantissima fase di sviluppo evolutivo dell’associazione mafiosa, i cui lineamenti essenziali sono oggi notori ma potevano, allora, essere intravisti solo da persone dotate di un non comune patrimonio conoscitivo e di una particolare capacità di cogliere i nessi tra gli eventi.
[...] Le infiltrazioni di <<Cosa Nostra>> nel mondo degli appalti e dell’economia, il loro stretto collegamento con le più sanguinarie manifestazioni di violenza mafiosa, il contestuale affermarsi dello schieramento trasversale facente capo ai <<corleonesi>>, il nuovo terreno di incontro creatosi tra l’illecito sodalizio e i grandi gruppi imprenditoriali nel controllo degli appalti di opere pubbliche, furono colti, analizzati ed interpretati con particolare lucidità da Mario Francese in una serie di inchieste giornalistiche da lui effettuate nella seconda metà degli anni Settanta. Dagli articoli da lui redatti emerge un amplissimo complesso di notizie e di strumenti di comprensione in ordine a quella politica di alleanze – fondata sulla violenza ma anche sulla mediazione – che consentì ai <<corleonesi>> di imporre il loro dominio sulla realtà siciliana. Mario Francese comprese subito che i violenti conflitti interni a <<Cosa Nostra>>, manifestatisi in ripetuti episodi omicidiari nella seconda metà del 1977, si collegavano strettamente ai grandi interessi economici connessi alla costruzione della diga del Belice.
[...] Dall'approfondita inchiesta giornalistica condotta da Mario Francese sulla diga Garcia, emergono alcuni elementi di particolare rilievo [tra cui, N.d.A.] il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di una enorme accumulazione di ricchezza connessa ai lavori di costruzione della diga [...].
La straordinaria conoscenza del fenomeno mafioso acquisita da Mario Francese è evidenziata dal dossier che egli aveva redatto, e che venne pubblicato dopo la sua morte sul supplemento settimanale del <<Giornale di Sicilia>>, in più puntate, con decorrenza dall'11 marzo 1979, proprio per ricordare l’esemplare impegno professionale del cronista. La pubblicazione fu comunque soltanto parziale, come ha chiarito il figlio della vittima, Giuseppe Francese, nel verbale di assunzione di informazioni del 20 dicembre 1997, in cui si è specificato che non fu pubblicata la parte del dossier riguardante l’on. Salvo Lima. 
Nello scritto in questione Mario Francese, anzitutto, delineava con la massima precisione la composizione delle <<famiglie>> mafiose, mostrandone il territorio ed elencandone gli adepti (questa prima parte del dossier comprendeva, già da sola, 19 pagine dattiloscritte, fitte di nomi). 
Egli, poi, descriveva la mafia <<come una congregazione di mutua assistenza i cui adepti nell'apparente rispetto della legalità s’infiltrano in ogni struttura dell’apparato dello Stato e della società per ricavarne vantaggi anche ricorrendo alla corruzione finalizzando leggi e provvedimenti al profitto di singoli e di gruppi>>, spiegava che <<in questa conquista del mondo produttivo, attraverso connivenze, compartecipazioni e compromessi, la mafia privilegia i suoi associati usando ed abusando con la lusinga di vantaggi economici e sociali delle pedine soggiogate dello Stato e della società>>, metteva in risalto la struttura piramidale ed unitaria di <<Cosa Nostra>>, evidenziando che la mafia moderna aveva <<una sua vasta organizzazione piramidale con al vertice gli esponenti del suo mondo organizzativo ed economico. Un vertice composto da persone non sempre facilmente identificabili, rappresentanti interessi eterogenei e manovranti le fila di complessi e svariati interessi d’alto livello nazionale e internazionale>>. 
Mario Francese, quindi, analizzava approfonditamente alcune delle più rilevanti iniziative criminali e vicende interne dell’organizzazione, come:

- l’utilizzazione di società di autotrasporti per i più vari traffici illeciti;

- l’attività di contrabbando […];

- il traffico di stupefacenti, organizzato con l’attivo coinvolgimento di numerosi gruppi criminali, in cui erano inseriti - tra gli altri - i Greco di Ciaculli, Antonino Salamone, Paolo e Nicola Greco, Teresi, Citarda, Bontate, i fratelli Spadaro, Francesco Cambria, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Gerlando Alberti, Luciano Liggio, i Rimi, Giuseppe Calderone;

- il commercio di vino sofisticato;

- i traffici illeciti nei settori della valuta e dei preziosi;

- il reinvestimento in attività economiche dei proventi delle attività illecite (sul punto, Mario Francese precisava: <<ad una potenza organizzativa, perché unitaria, corrisponde una inimmaginabile potenza economica della mafia a giustificazione del rapido ed apparentemente incomprensibile arricchimento di singoli mafiosi e di gruppi, di società impegnate nelle più disparate attività produttive e commerciali>>, sottolineava come la mafia avesse una <<straordinaria capacità di inserimento nella società in cui opera mimetizzandosi>>, e rilevava che <<non v’è distinzione, dunque, fra mafia dedita esclusivamente a delitti e sopraffazioni e una mafia protesa alla conquista del predominio economico>>);

- i collegamenti tra le <<famiglie>> siciliane e quelle statunitensi;

- l’ascesa di Gaetano Badalamenti alla carica di <<presidente>> della <<Commissione>>, e la quasi concomitante fuga di Luciano Liggio dalla clinica romana dove era ricoverato, nel 1969;

- le attive ricerche svolte dal colonnello Russo per catturare Luciano Liggio;

- i rapporti tra Luciano Liggio e padre Agostino Coppola [parroco di Carini. Nel titolo di un articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" il 15 agosto 1974, Mario Francese definì il sacerdote "parroco-mafioso", N.d.A.], e la comune realizzazione di imprese criminali;

- la costituzione delle società <<Solitano S.p.A.>>, <<Sifac S.p.A.>>, <<Zoo-Sicula RI.SA.>> ("interpretato come Riina Salvatore, luogotenente di Liggio");

- i sequestri di persona compiuti nell'Italia settentrionale ed attribuibili al gruppo mafioso facente capo a Luciano Liggio […];

- la spaccatura verificatasi, all'interno di <<Cosa Nostra>>, tra lo schieramento riconducibile a Luciano Liggio e le cosche avversarie […];

- l’attività edilizia intrapresa da Giuseppe Garda tra gli anni ’50 e gli anni ’60, attraverso un fitto intreccio di cointeressenze, rapporti societari, contatti con ambienti ecclesiastici e istituzionali […];

- la costituzione della nuova <<anonima sequestri>> siciliana, a capo della quale si sarebbe trovato il boss di Santa Ninfa, Vito Cordio, successivamente scomparso […];

- i numerosi omicidi commessi a Corleone e nelle zone vicine tra il 1975 ed il 1978, i quali, pur essendo stati determinati da diverse motivazioni, avevano <<messo in luce l’esistenza di una mafia nuova che era riuscita ad imporre, in ogni settore economico, il suo spietato controllo>> […]

Nel tracciare l’organigramma delle varie cosche mafiose, Mario Francese sottolineava il predominio esercitato da quasi un secolo dalle famiglie Greco sulle borgate di Ciaculli-Croceverde-Giardini, menzionava Giacomo Gambino, Francesco Madonia, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano (questi ultimi tre qualificati come <<luogotenenti>> di Luciano Liggio) tra i numerosi componenti del clan capeggiato dal Liggio, specificava che il nuovo leader della cosca di Villagrazia era Stefano Bontate, ed indicava Bernardo Brusca come membro della cosca di San Giuseppe Jato, Agostino Coppola e Antonino Geraci (fu Gregorio) come partecipi della cosca di Partinico, Giuseppe Calò come soggetto inserito nel gruppo di Palermo-Porta Nuova.
La forza dirompente delle sensazionali informazioni fornite dall'<<intrigante>> giornalista, che nell'espletamento del suo impegno professionale ha avvertito il dovere di divulgare, in contrapposto all'imperante omertà del tempo, tutte le notizie raccolte, sottoponendole ad un’analisi critica che si è rivelata del tutto esatta, acquista una maggiore significativa rilevanza se si paragonano al ridotto livello delle conoscenze allora comunemente presenti, nello stesso ambiente giornalistico, in ordine al fenomeno mafioso.
[...] Il metodo di lavoro di Mario Francese (metodo che costituiva una straordinaria espressione di giornalismo di inchiesta), la sua capacità di cogliere in profondità il significato degli eventi e la sua leale vicinanza all'autorità giudiziaria - vicinanza che era ampiamente percepibile dall'esterno e determinava, per lui, una forte esposizione a rischio - sono evidenziate dalle seguenti dichiarazioni rese dal giornalista Francesco Nicastro al Pubblico Ministero in data 10 aprile 1998: <<Lo ricordo come un professionista molto serio, impegnato nella ricerca puntuale delle notizie, che trattava con grande onestà intellettuale. Proprio questo suo metodo di lavoro mi colpì e probabilmente lo esponeva molto in un ambiente difficile. Dico questo perchè vedevo che si muoveva dando anche l'impressione di non ricorrere a particolari cautele nei contatti con le potenziali fonti di informazione. Il metodo di lavoro del Francese differiva da quello degli altri cronisti per la tendenza dal Francese sempre manifestata all'approfondimento delle notizie ricorrendo ad una pluralità di fonti che lo vedevano spesso in contatto diretto con i protagonisti delle vicende giudiziarie delle quali si occupava. Ricordo che proprio in questi contatti diretti il Francese sembrava, all'esterno, ricoprire un ruolo quasi di partecipazione attiva alle inchieste ed ai dibattimenti. Preciso che ciò poteva apparire all'esterno ma che in realtà il Francese svolgeva il suo lavoro al meglio e, ripeto, con grande onestà. Ricordo ad esempio che egli amava seguire con particolare attenzione i procedimenti nella fase del pubblico dibattimento e ciò faceva prendendo posto, in piedi e con il taccuino in mano, accanto al Pubblico Ministero, a differenza degli altri cronisti che normalmente prendevano posto accanto agli avvocati. Tale suo atteggiamento formale comportava una maggiore esposizione proprio nei confronti degli imputati e del pubblico che seguiva le udienze [...]>>.
Nel verbale di assunzione di informazioni del 23 aprile 1998, il Nicastro ha aggiunto: <<Varie erano le fonti di informazione del Francese, che proprio negli ultimi tempi le aveva ampliate anche ad ambienti diversi da quelli giudiziari. A tutti i cronisti giudiziari era noto il fatto che il Francese aveva esteso i suoi rapporti anche agli ambienti investigativi, con particolare riferimento al Reparto Investigativo dei Carabinieri ed al Col. Russo Giuseppe, tanto che gli articoli più significativi del Francese sui fatti di mafia contenevano elementi, spunti ed informazioni che erano anche l'oggetto delle investigazioni dei Carabinieri. Proprio su tali temi il Francese mostrava di conoscere con grande precisione elementi riferibili anche ad attività non solo criminali, ma riguardanti il settore economico e societario di esponenti di Cosa Nostra. Il suo obiettivo era quello di approfondire, aggiornandola, la conoscenza di fenomeni criminali e vicende di cui si era già occupata la Commissione Parlamentare Antimafia [...]>>
La passione civile con la quale Mario Francese osservava attentamente il fenomeno mafioso si evince anche dai ricordi esternati da Lino Rizzi (direttore del "Giornale di Sicilia" dal 1977 al 1980) nel verbale di assunzione di informazioni dell’8 gennaio 1977: <<Il Francese, che era buon conoscitore dei fatti di mafia, non perdeva occasione per parlarmene, premettendo spesso la frase "vede, io sono di Siracusa, della provincia babba", con ciò volendo prendere le distanze da quegli ambienti. Lo ricordo come un buon giornalista, rigoroso e serio nel lavoro>>.
[...] Lo schieramento mafioso facente capo a Stefano Bontate era ben consapevole del pericolo che l’attività giornalistica di Mario Francese rappresentava non solo per i <<corleonesi>>, ma per tutta <<Cosa Nostra>>, fortemente proiettata, in quel periodo, verso la valorizzazione della propria dimensione imprenditoriale, ed interessata a sviluppare un saldo rapporto di cointeressenza con importanti settori del mondo politico ed economico sul piano della gestione degli appalti pubblici.
[...] Il movente dell’omicidio è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui Mario Francese aveva compiuto una approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70, aveva raccolto e diffuso un eccezionale patrimonio conoscitivo sulla struttura e sulle attività dell’associazione, aveva fornito all'opinione pubblica ed agli stessi organi investigativi importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all'interno di <<Cosa Nostra>>, in un momento in cui iniziava a trovare concreta attuazione la nuova strategia criminale che mirava ad affermare, con gli strumenti del terrore e della collusione, il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Una strategia che Mario Francese aveva compreso e descritto con la massima lucidità e che, se non fosse stato ucciso, avrebbe certamente continuato a denunziare con forza, in coerenza con la propria limpida e coraggiosa storia professionale"

Corte di Assise di Appello di Palermo, sezione II, sentenza n. 61/2002, pronunciata il 13 dicembre 2002.



"Un'opera che è stata definita <<faraonica>> e che, in dieci anni, comporterà una spesa di oltre 324 miliardi, non poteva lasciare indifferenti le grosse organizzazioni mafiose di centri tradizionali come Corleone, Monreale, Roccamena. Dice l'ing. Francesco Secco, di Belluno, direttore del cantiere della Lodigiani, la ditta che ha in appalto i lavori di costruzione della diga: <<Siamo venuti a Roccamena per costruire la diga Garcia e penso che nessuno, neanche la mafia, riuscirà a frapporre ostacoli>>Ed ha aggiunto: <<Io della mafia ho solo sentito parlare, ma non vedo come possa intrufolarsi nella costruzione della diga. Se qui occorre una ruspa, da Milano ne mandano tre, così per i camion, così per gli escavatori, per le betoniere. Il nostro cantiere è autosufficiente>>
Le dichiarazioni dell'ing. Francesco Secco, oltre a non essere aderenti alla realtà, non tengono conto delle caratteristiche di un'organizzazione mafiosa che si rispetti e della tentacolarità della mafia. La realtà è diversa: un'opera mastodontica, con immensi capitali che richiede e con le infinite possibilità speculative che offre, non poteva lasciare indifferente la mafia, specie quella che ha radici vecchie e profonde, come la mafia di Corleone, di Roccamena e di Monreale.
<<Diga con cantieri autosufficienti>>dice l'ing. Secco della Lodigiani. La verità è ben altra.
[…] I cantieri della diga, dice la Lodigiani, sono autosufficienti. D’accordo, ma ciò non esclude che, per economia, l'impresa milanese abbia, in questo primo scorcio di lavori, fatto ricorso a <<noleggi>>Lo hanno confermato i fatti, lo ha confermato la superdirezione dei lavori del Consorzio di bonifica del medio ed alto Belice. Rosario Napoli, scampato alla morte il 19 luglio scorso ed ora esule volontario all'estero (per paura di morire) era stato <<noleggiato>> dalla Lodigiani come persona e per la sua pala meccanica. Un <<noleggio>> che ha provocato un attentato ed un assassinato.
Quindi, attorno alla diga, c'è un racket degli aspiranti ai noleggi e c'è un racket, ancora più vasto, per le forniture dei materiali di cava, che non possono certamente giungere da Milano. Lavori così imponenti impongono, poi, noleggi di grossi automezzi, oltre che di ruspe e di pale meccaniche; impongono forniture di sabbia di cava e di mare (entrano di scena Balestrate e San Vito Lo Capo oltre che Castellammare del Golfo). Ma la Lodigiani non è la sola impresa che opera nella Valle del medio ed alto Belice. Il consorzio di bonifica ha concesso lavori extra nella zona ad altre dieci grosse imprese, che eseguono lavori per oltre due miliardi. 
[…] La costruzione della diga, quindi, va guardata nel suo complesso e nei suoi molteplici aspetti. Allora ci si potrà rendere veramente conto di quali interessi possa avere la mafia, quella con la <<M>> maiuscola ed allora ci si possono spiegare i contrasti già insorti tra le cosche mafiose, il cui equilibrio è stato certamente turbato dalla sfrenata corsa verso tutto ciò che la costruzione della diga può offrire. Non va dimenticato che siamo in piena zona terremotata, una zona che ha già una mafia sperimentata nella corsa per la ricostruzione dei paesi franati col terremoto del 1968"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 7 agosto 1977.




"La diga di Garcia, interamente finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno su progetto del consorzio di bonifica dell'alto e medio Belice, a che cosa servirà? E perché attorno alla diga si è creato un deserto di mafia, in cui oscuri interessi hanno scatenato contrasti, appetiti e una corsa quasi piratesca per l'aggiudicazione degli appalti di opere che dovranno convogliare le acque del serbatoio di Garcia verso Trapani ed Agrigento? 
[…] E allora a che è servita la costruzione della diga?
Eccoci quindi all'ipotesi del gran deserto della mafia che, anche dalle zolle una volta aride, ha saputo cavarci <<oro>>. Tre organizzazioni mafiose, (Palermo, Trapani e Agrigento) alla conquista del gran deserto di Garcia e che per la sfrenata corsa ai nuovi e redditizi appalti hanno rotto tradizionali equilibri"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 4 settembre 1977.
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".





"L'uccisione del colonnello Giuseppe Russo è servita forse a mettere a nudo, in termini realistici, uno spaccato dell'oscuro mondo della mafia nei suoi livelli più qualificati e a fornirci una più chiara visione del connubio mafia - politica e dei potenti mezzi di cui questa accoppiata dispone nella sfrenata e sconcertante corsa all'arricchimento senza limiti. 
[…] proprio la diga Garcia ha fatto saltare equilibri che sembravano già consolidati. Di fronte alla ballata di miliardi intorno a Garcia, insomma, si è avuta una specie di rivolta di parenti poveri: una vera e propria guerra fra il vertice economico di una piramide (mafia - politica) e un certo strato, tra la mediana e la base, della piramide stessa. La diga […] si è trasformata in una trincea dove è iniziata una battaglia senza quartiere che, lungo la strada degli appalti, ha cominciato a seminare una catena di morti ammazzati. La Lodigiani non conosce la mafia? Lo vedremo"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 6 settembre 1977.
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"L'impresa milanese Lodigiani, subito dopo l'aggiudicazione dell'appalto (per oltre 47 miliardi) dei lavori per la costruzione della diga Garcia, ha trovato nella zona <<ponti d'oro>>. Ecco perché l'ing. Francesco Secco, direttore tecnico dell'impresa, quando si è scritto che la catena di otto morti ammazzati nel triangolo Roccamena, Corleone, Mezzojuso, portava l'etichetta della mafia ed era collegata con la diga, si premurò a dichiarare: <<Io della mafia ho solo sentito parlare...>>. Lui i mafiosi li immagina con i <<barracani>> sulle spalle e con la cal. 38 in pugno. E non solo l'ing. Secco. Molti settentrionali la pensano come lui. 
[…] A chi servono i <<barracani>> e le <<cal. 38>>? Alla mafia qualificata certamente no. Non sono serviti a Rosario Napoli, che era stato presentato al direttore della Lodigiani da un personaggio influente, per noleggiare all'impresa della diga una pala meccanica e per fornire materiale dalla sua cava Mannarazza. 
[…] La mafia della cal. 38, semmai la conosce Rosario Napoli: una mafia della base, nella piramidale organizzazione, che si contende il pane quotidiano, gli spiccioli dei <<grandi>>, gli appalti secondari, le forniture. 
[…] Ponti d'oro per la Lodigiani: mentre i disperati della base mafiosa ribattono a colpi di lupara e cal. 38. Questi i due volti di una stessa organizzazione, a livelli diversi. 
Ponti d'oro della mafia alla diga e alla Lodigiani, ponti d'oro alla diga anche del consorzio tra i proprietari dei terreni espropriati, che non si sono affatto battuti per impedire la costruzione di un invaso che avrebbe tolto lavoro a pane a circa duemila braccianti agricoli e portato in zone lontane l'acqua del palermitano. 
[…] Ma la diga non è stata bloccata. Certi interessi, oscuri e curiosi, non possono essere travolti nel nome e nell'interesse di quelle categorie (piccoli coltivatori, mezzadri, affittuari, emigrati, assegnatari della riforma) che, per una diga con diverse finalità, avevano combattuto, affiancate da forze politiche e sindacali di un ampio schieramento"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 9 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




Mario Francese
"Una zona minata [quella del Belice, N.d.A.], dove si dibattono inconfessati interessi di società paravento che, favorite dal disordine e dall'egoismo degli enti pubblici e a partecipazione mista, interessati ad accaparrarsi finanziamenti e lavori, anche per motivi elettorali, trovano terreno fertile alla loro sfrenata ambizione. La costruzione della diga Garcia è una delle tante superopere in via di realizzazione nella vallata del Belice. Gli oltre trecento miliardi che, in dieci anni sono stati previsti per ulteriori opere di bonifica e di convogliamento dell'acqua negli invasi dei tre consorzi che ne hanno fatto richiesta, sono una particella degli enormi finanziamenti di opere pubbliche programmate nel Belice. 
[…] Una <<ballata>> di miliardi, nelle zone della ricostruzione del Belice e delle popolazioni disastrate dal terremoto, ma anche una ballata di miliardi che ha attirato nella valle l'attenzione di cosche spregiudicate che si combattono, si associano o si elidono, a seconda degli interessi e delle circostanze, nella corsa verso l'arricchimento. Una mafia che conferma la sua tradizione e concede, nella zona del Belice, il bis della guerra scatenata nel palermitano, tra gli anni 1958 e il 1963, epoca del boom edilizio cittadino. Interessi politici e di parte, creando attorno a così imponenti opere una babele di competenze e di attribuzioni, finiscono, come era accaduto a Palermo, col favorire i piani della mafia. Accaparramenti, con ogni mezzo, di aree di sviluppo (urbanistico, agricolo o industriale), accaparramento di vasti feudi che, desolati dall'arsura fino a ieri, domani vedranno centuplicato il loro valore dalle immense riserve d'acqua che verranno accumulate dalla costruenda diga di Garcia o dalla diga <<Arancio>> in corso di rilancio nell'agrigentino. Interessi che finiscono col rallentare il ritmo delle realizzazioni a vantaggio degli speculatori, che conoscono bene la legge per l'aggiornamento dei prezzi. Non si spiega altrimenti la disperazione delle popolazioni del Belice, nonostante l'imponenza dei finanziamenti e dei programmi: non si spiegano i perché di tante speranze deluse e della rabbia delle popolazioni del Belice, indignate dalla esasperante lentezza delle opere. Non sono pochi coloro che ancora, dopo nove anni dal terremoto, vivono in baracche. Non si spiega, altrimenti, l'impennata di non pochi deputati regionali, nella seduta di Sala d'Ercole del 16 febbraio scorso: un'impennata sfociata nell'approvazione di una mozione con la quale, tra l'altro, è stata sollecitata un'inchiesta parlamentare per accertare i <<gravi ritardi nella esecuzione delle opere nel Belice>> ed è stata suggerita l'istituzione di un ufficio speciale tecnico - amministrativo per il coordinamento delle iniziative e dei lavori. In questo quadro, che vorrebbe essere di ripresa e di ricostruzione, dal 1974 in poi, si sono inseriti tre sequestri di persona e una catena spaventosa di omicidi e di attentati"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 18 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"L'escalation dei delitti, dal 1974, ha coinciso col boom di finanziamenti statali e di opere pubbliche tra Garcia e le zone terremotate del Belice. Dopo la tragedia di Ciaculli del 30 giugno del 1963, le organizzazioni mafiose della Sicilia occidentale hanno fatto registrare il terzo tempo della loro continua e progressiva evoluzione. Una mafia <<galoppina>>, con settore preferito il contrabbando, fino al 1963, cioè una mafia che, attraverso appoggi elettorali, sfrutta al massimo le risorse cittadine (edilizia). I <<patriarchi>> si attestano nella città, abbandonando feudi e campagne e cominciano a tessere le fila di un'organizzazione funzionale a carattere interprovinciale. Dal 1963, con la massiccia applicazione di misure di prevenzione, la mafia, sparpagliata in tutta la penisola, incomincia a darsi un volto nazionale. I boss, quelli con la <<b>> maiuscola, rimasti in sede, rivolgono la loro attenzione agli enti pubblici. Dal 1963, infatti, scatta l'era delle <<municipalizzate>> e degli enti di Stato: un pedaggio che la DC paga all'ingresso del PSI nella maggioranza governativa. E con il fiorire di enti pubblici, parallelamente, dilagano enti misti, cioè enti privati, con partecipazione finanziaria di enti pubblici. Un'epoca che ha un nome battesimale: quella dei <<boss dietro le scrivanie>>. Ed eccoci al dopo-1970. Il dopo terremoto che ha devastato, nel 1968, molti centri del Belice, ha dato l'occasione alla grossa mafia di mutare obiettivi e di evolvere la sua già potente organizzazione. E' una corsa sfrenata alle campagne e ai feudi. Ma i programmi non sono quelli di venti anni prima. L'ansia di valorizzazione di vaste plaghe deserte e di trasformazione di colture tradizionali è solo apparente. Le espropriazioni per la costruzione della diga Garcia hanno dimostrato come 800 ettari di terreno, per secoli incolto, è stato trasformato per ricavare dallo Stato il maggior profitto possibile: un ettaro di vigneto è stato pagato, per far posto alla diga, 13 milioni. La cifra è stata raddoppiata se il proprietario ha dimostrato di essere un coltivatore diretto. Dal 1970 quindi, abbiamo un terzo stadio evolutivo della mafia: i boss dietro le scrivanie degli enti pubblici, spostano i loro interessi nel retroterra e, in prevalenza, nelle zone della valle del Belice. Una mafia che sta alle calcagna di imprese colossali e di appalti di super - opere. Oltre mille miliardi i finanziamenti per la costruzione del Belice. E nel contempo sorgono una pletora di società private, con finalità non sempre chiare. In città resta posto per i contrabbandieri, per i rapinatori e per le piccole organizzazioni. L'evoluzione della mafia della Sicilia occidentale è costretta però a pagare un prezzo, a volte alto, nella ricerca di equilibri stabili e nella corsa all'accaparramento di privilegi e ricchezze. Ed ogni conquista lascia dietro una scia di delitti. Abbiamo detto di una catena di agghiaccianti omicidi e di tre sequestri che hanno provocato stupore ed allarme sociale. 
[…] In quest'epoca si infittisce la rete di società paravento (Solitano, Risa, Sifac, etc.) che, forse intravedendo la possibilità di intrufolarsi in appalti e subappalti, aumentano improvvisamente di svariate decine di milioni i loro capitali sociali. Denaro sporco, riciclato e utilizzato per iniziative pseudo industriali"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 21 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"Puntuale a luglio, nel triangolo Roccamena-Partinico-Monreale, è ripresa la guerra fra clan familiari e cosche mafiose per la conquista di <<un posto al sole>>
[…] Perché la ripresa di questa guerra feroce e senza esclusione di colpi? Quali gli interessi che polarizzano l'attenzione delle cosche mafiose? Quali i clan che si combattono tra loro per assicurarsi l'esclusiva in remunerativi appalti o subappalti di opere pubbliche? 
Nella vallata del Belice e nel triangolo Monreale-Roccamena-Corleone, in attesa della vendemmia e dell'acqua della diga Garcia, la vita trascorre lenta, senza apparenti novità. La monotonia è interrotta da un continuo via vai di grossi camion in gran parte di Camporeale, che si muovono nelle anguste strade di San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena, Montelepre e Partinico. Camion che fanno spola con la diga Garcia, in corso di costruzione, per trasportarvi materiale inerte e conglomerati cementizi: una diga che, dopo la costruzione della galleria in cui sono state deviate le acque del Belice, va progredendo da Garcia verso Roccamena <<divorando>> circa 800 ettari di vigneto, ancora in piena produzione. E sul letto di questa diga immensa è un assordante manovrare di pale meccaniche e ruspe che scavano, appianano, distruggono e creano il grande letto del nuovo invaso. Ed i camion si muovono anche per la costruzione della superveloce Palermo-Sciacca. A San Cipirello, come a Roccamena, si guarda a queste colossali opere pubbliche e alla costruzione delle cittadine terremotate del Belice come ad una occasione di lavoro remunerativo e sicuro, che durerà per molti anni. Ma ci sono anche gruppi di potere per i quali le opere pubbliche sono occasione di rapido arricchimento. Esenzioni e agevolazioni fiscali favoriscono la corsa a improvvisarsi costruttori, a ricercare con appoggi politici appalti e subappalti nella Valle del Belice. I Di Giovanni, i Celeste, I Randazzo ed altri <<gruppi>> di Roccamena, San Cipirello, Partinico, Borgetto, Corleone e Monreale, fanno parte di questa schiera di <<operatori emergenti>>: hanno impegnato tutti i capitali disponibili nell'acquisto di pale meccaniche e automezzi nella speranza di assicurarsi una fetta delle opere pubbliche in corso, programmate e in via di finanziamento"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 9 agosto 1978.




Mario Francese è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Mario attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Mario è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.