venerdì 18 settembre 2015

SE MI GIRASSI DALL'ALTRA PARTE NON POTREI PERDONARMI, NE' ASSOLVERMI!

Vignetta realizzata da un sacerdote, don Giovanni Berti (qui il suo sito


14 settembre 2015

Lettera aperta ai feroci, ai "prima i nostri", ai "facile parlare, prenditeli in casa"

OSPITERESTI DEI PROFUGHI E DEGLI IMMIGRATI A CASA TUA?

Sì. L'ho già fatto e continuerò a farlo.
L'ho fatto insieme a Luca Rastello con profughi della guerra balcanica.
L'ho fatto con A., marocchino, dopo anni sistemato e sereno, che è diventato mio fratello.
L'ho fatto per anni  con 5 ragazzini randagi di Kourigba che ho tirato grandi, fatto studiare e sistemato strappandoli allo spaccio e allo sfruttamento.
L'ho fatto con una coppia di clandestini romeni, lei incinta di 8 mesi, che dormivano su una panchina in novembre dopo essere stati cacciati dalla famiglia italiana, dove lavoravano in nero, all'annuncio della gravidanza. Ho fatto nascere la loro bambina, che ha dormito nella culla di mia figlia e adesso è una splendida ragazzina.

Ora che l'argomento "portateli a casa tua" lo abbiamo liquidato, vi spiego perché l'ho fatto, continuerò a farlo e mi sono conquistata il dovere, insieme a tantissimi altri, di marciare scalza.

L'ho fatto perché non ero sola e con me c'erano i miei genitori, la mia famiglia, gli amici che mi hanno aiutato: la mia tribù solidale e buonista. Ampia, larga, piena di gente di tutti i colori, classi sociali e portafogli.

Non lo Stato, il Comune, #mafiacapitale e tutte le scemenze che tirate fuori quando parliamo di questo: io, i miei amici e compagni. Punto. Perché era giusto farlo. Punto.

Non ho ospitato profughi, immigrati, clandestini: ho ospitato persone. Uomini e donne che sono diventati amici, fratelli, sorelle.

L'ho fatto perché i miei nonni paterni hanno nascosto per due anni una famiglia ebrea, madre e figlia, rischiando la pelle. Era giusto farlo: non si sono chiesti se era il caso.

L'ho fatto pensando a mia madre bambina che, scappando dalle bombe e dalla fame, è stata accolta da una famiglia di contadini del Mugello che rovistavano nei campi per mangiare e dicevano che dove si mangia in quattro si mangia in otto.

L'ho fatto perché ho passato l'infanzia con una madre insegnante che ha dato lezioni gratuite a vagonate  di ragazze-madri reiette, siciliane venete calabresi laziali, perché prendessero il diploma di terza media e si affrancassero. Venivano a casa, occupavano il tavolo della cucina e studiavano.

L'ho fatto perché chi salva una vita salva l'umanità.

L'ho fatto da singola senza aspettare che qualcuno me lo chiedesse.

L'ho fatto perché non ho nessun merito ad essere nata qui e sento il dovere di restituire la fortuna che ho avuto ad essere sana e nata in pace.

L'ho fatto perché non posso pensare che mentre dormo al caldo c'è qualcuno che rischia di partorire al freddo.

L'ho fatto perché non sopporto la carità pelosa che toglie dignità alle persone.

L'ho fatto perché aborro l'ingiustizia e l'umanità umiliata.

L'ho fatto perché non sono credente e io sono l'unico giudice di me stessa: non potrei perdonarmi né assolvermi nel girarmi dall'altra parte.

L'ho fatto come gesto individuale ma consapevole della necessità di costruire politiche e visioni di società, collettive e per tutti. Italiani e stranieri. I miei e i loro.

E quindi ho fatto marce, raccolto firme, costruito progetti, partecipato a presidi, cortei, iniziative. Ho scritto programmi elettorali, ho fatto proposte politiche, cerco sempre di non smarrire la bussola etica. Quella che mi ha fatto incontrare l'impegno politico tanti anni fa. Ho fatto e faccio quello che posso e riesco per essere coerente, con me stessa intanto.

Perché il gesto individuale non mi basta e non appaga la mia coscienza. Che sarà appagata solo quando non ci sarà più bisogno di gesti individuali.

L'ho fatto senza aver alcun merito per averlo fatto, e senza che nessuno, nessuno, mi debba dire grazie. Perché non sopporto la gratitudine e mi vergogno dell'umiliazione degli altri.

L'ho fatto perché è mio dovere. E basta.

L'ho fatto perché faccio il gioco del SE: se quella donna fossi io, quella figlia fosse la mia, quel padre fosse il mio.

L'ho fatto per puro egoismo: per guardarmi allo specchio la mattina e non disprezzarmi.

L'ho fatto e con me l'hanno fatto migliaia, milioni di altri che si sono conquistati il diritto di marciare scalzi e dire la loro. Qui, in Europa, nel mondo.

Ora ditemi che sono buonista. Ci sono insulti peggiori.

Perché voi un profugo, un immigrato ma neppure un  italiano povero, di cui tanto parlate, in casa non lo ospitereste.

Io sono così  buonista che prenderei in casa anche voi se steste fuggendo dalla fame e dalla paura. Perché continuerei a vedervi umani e farei il mio dovere.

Ilda Curti
(assessore comunale di Torino alle Politiche Giovanili, 
alle Politiche delle Pari Opportunità e 
al Coordinamento Politiche per la multiculturalità e 
per l'integrazione dei nuovi cittadini).



venerdì 4 settembre 2015

AVERE LA FORZA DI CONTINUARE A LOTTARE CONTRO LE PREPOTENZE, 
SENZA ARRENDERSI. MAI!

Rita Atria (1974-1992)
"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte ma il giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. 
Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. 
Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. 
Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perchè sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. 
Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perchè tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai. Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. 
La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.
Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. 
Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. 
I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'è chi ha paura come Contorno [Salvatore Contorno, detto Totuccio, "pentito" di mafia, N.d.A.], che accusa la giustizia di dargli poca protezione. 
Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? 
Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. 
Finchè giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. 
L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perchè sei figlio di questa o di quella persona, o perchè hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. 
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. 
Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo"

Rita Atria, tema svolto nell'ambito degli esami per l'ammissione al terzo anno dell'istituto alberghiero di Erice (Trapani), mattino di venerdì 5 giugno 1992. 
Fra le tre tracce proposte, Rita sceglie la seguente: "La morte del giudice Falcone ripropone in  termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".
Sono trascorsi solo tredici giorni dalla strage di Capaci.
A seguito della prova scritta e degli orali, Rita viene promossa.



Rita Atria



"Con la paura la mafia non si vince"

Rita Atria, parole pronunciate durante l'esame orale in riferimento a ciò che aveva scritto nel tema, 1992.
Dalla testimonianza diretta del commissario d'esame Salvatore Girgenti, professore di Lettere, rilasciata al settimanale "Epoca", 12 agosto 1992.






"Caro signor giudice,
le scrivo perché mi hanno ferita le parole che qualcuno ha voluto dire sul mio conto: sono stata definita una <<pentita>> della mafia. 
Dicono che sono la più giovane <<pentita>> d’Italia perché ho soltanto 17 anni e mezzo. 
Ma io non mi sento affatto una <<pentita>> perché non sono mai stata una mafiosa. 
Sto semplicemente cercando di trovare il coraggio per aiutare la <<nostra>> Sicilia a uscire dalla morsa della mafia. 
L'ho capito da Lei che cosa vuol dire avere coraggio. 
Perchè Lei è un uomo coraggioso dal quale ho imparato tante cose: la prima che nella vita non ci si deve inchinare alla prepotenza. 
Ma soprattutto Lei mi ha insegnato che raccontare la verità aiuta a rimanere sereni e a posto con la propria coscienza. 
In questi mesi ho anche capito che alla Giustizia non servono parole tonanti, ma racconti veri, documentabili, e prove, fatti concreti: sull'emozione deve prevalere il coraggio della ragione. 
Ecco: mio padre è stato ammazzato dalla mafia, mio fratello è stato ammazzato dalla mafia. 
Non voglio più che altri padri e fratelli vengano ammazzati dalla mafia e sino a quando ci sarà Lei al mio fianco non avrò paura di parlare"

Rita Atria, lettera scritta a Paolo Borsellino, 1992.



Rita Atria
"Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.
Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta"

Rita Atria, ultime parole scritte nel suo diario, luglio 1992.
Il 26 luglio 1992 - sette giorni dopo la strage di via D'Amelio - Rita si suicida, lanciandosi nel vuoto dal proprio appartamento al 7° piano di un palazzo di Roma. 
Quaranta giorni dopo avrebbe compiuto 18 anni.




Rita Atria è morta e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Rita attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lei vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui una bimba di nome Rita è sbocciata alla vita, così il testamento morale che lei ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.