venerdì 14 novembre 2014

IO STO CON NINO DI MATTEO!

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio"

(Italo Calvino, "Le città invisibili")

Io ho cercato chi, nell'inferno, non è inferno. 
E l'ho riconosciuto in un magistrato palermitano di nome Antonino Di Matteo. 
Per questo voglio far sì che prosegua nel suo lavoro.
Per questo voglio dargli spazio.
Per questo IO STO CON NINO DI MATTEO 
e con tutti i magistrati che vanno avanti, 
nonostante rischino la vita!


"Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e quelle istituzionali o para-istituzionali. […] Se mi guardo intorno e rifletto razionalmente, mi dico che non è valsa e non vale la pena aver sacrificato, in vent'anni di vita scortata, tanti momenti importanti di libertà e di spensieratezza miei e delle persone che mi stanno accanto. Ma poi per fortuna prevale la passione, come in tanti magistrati della mia generazione. Quando entrai in magistratura 22 anni fa, lo feci proprio con l’aspirazione di occuparmi di mafia. Il mio punto di riferimento era il pool antimafia di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino. Tre su quattro li abbiamo purtroppo accompagnati nella tomba, ma quello è rimasto il mio imprinting. [Prevale ancora la passione, N.d.A.], e ha la meglio sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. La passione per la bellezza del nostro lavoro. Che però non cancella la consapevolezza che fare il magistrato in questo modo – l’unico che conosco leggendo la Costituzione – <<non paga>>. Né in termini di serenità personale, né di carriera, né di apprezzamento omogeneo dalle istituzioni e dagli uomini che le rappresentano, e anche da pezzi importanti dell’opinione pubblica. Ma non importa, andiamo avanti. [Non si respira più l’aria precedente alle stragi del 1992, fatta di insofferenza per i magistrati antimafia, N.d.A.], anzi l’intensificarsi dei pericoli per la mia persona è stato accompagnato paradossalmente da un surplus di solidarietà e vicinanza di tanti cittadini: lettere, email, parole d’incoraggiamento. Anche dai vicini di casa. È uno dei maggiori, e rari, motivi di conforto. Lo stesso vale naturalmente per la mia famiglia: ho la fortuna di essere circondato da persone che condividono idealmente gli stessi valori che sono alla base del mio impegno. Andiamo avanti, pure con grande difficoltà. […] Non devi mai ripetere gli stessi movimenti e gli stessi percorsi, che devi rendere il più possibile imprevedibili. Sei costretto a rinunciare anche a quelle piccole e poche cose che ancora ti concedevi prima, anche da scortato. Ma non è questo che mi pesa. [Ciò che mi pesa maggiormente è, N.d.A.] la consapevolezza che, quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e istituzioni (non soltanto quelle politiche, ma anche i cosiddetti <<apparati>>), senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo Stato e persino da vasti settori della magistratura. Troppi continuano a pensare che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla <<vera lotta alla mafia>>, che consisterebbe soltanto nell'arrestare la manovalanza criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con istituzioni, politica, finanza, forze dell’ordine, apparati. [A parole, lo dicono tutti, N.d.A.], ma poi appena qualche pm ci prova e magari ci riesce, ecco il solito coro pieno di risolini e di dubbi sparsi a vanvera: ti senti additato al pubblico ludibrio come un <<acchiappa nuvole>>, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le istituzioni per scalfirne il prestigio. C’è chi ancora ripete il ritornello che, scoperchiando la trattativa, abbiamo fatto un favore a Riina mettendo sotto accusa uomini dello Stato e della politica. Riina, a sentirlo parlare, non sembra proprio pensarla così. Anzi: manifesta nei nostri confronti una rabbia furibonda, che vuole addirittura tradurre nel mio assassinio. […] Finora abbiamo capito e riteniamo di aver provato solo una parte di ciò che è avvenuto [sulla trattativa Stato-mafia, N.d.A.]. Non è casuale la tempistica dell’intensificarsi di questa pressione. Inizialmente si pensava che l’indagine sarebbe finita in archivio. Poi invece c’è stata la nostra richiesta di rinvio a giudizio e poi l’ordinanza di rinvio a giudizio del gup. E il processo è iniziato. Ma non è un mistero che stiamo continuando a indagare: non ci fermiamo certo a cercar di provare la colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li ha diretti e ha concorso con loro, dall'esterno di Cosa Nostra, nei delitti che abbiamo contestato. Con chi, perché e su incarico di chi gli attuali imputati han fatto ciò che han fatto. Ecco: quando si è capito che non ci fermiamo, sono partite non solo minacce e ordini di morte, ma anche episodi pericolosi come l’irruzione in casa del giovane collega Roberto Tartaglia. […] Lo Stato è uno solo: quello disegnato con chiarezza e precisione dalla Costituzione. Per essere credibile e riconosciuto come tale, lo Stato non deve temere di processare se stesso, attraverso propri esponenti infedeli, collusi, deviati. Altrimenti non ha titolo neppure per processare la criminalità, organizzata e non. [Non abbiamo mai avuto il dubbio di essere noi, i deviati, N.d.A.], nemmeno quando veniamo additati come tali, come portatori di interessi diversi dalla giustizia e dalla legalità costituzionale. Certo, c’è la sensazione palpabile di essere devianti rispetto al sentire comune molto diffuso che vorrebbe imporci una particolare <<prudenza>> perché non scoperchiamo certi vasi. Ma quella sulla trattativa è una delle poche indagini che ha subìto attacchi praticamente da tutte le parti politiche: almeno non possono accusarci di volerne favorire una a scapito di un’altra. [L’accusa che ci ha ferito di più è, N.d.A.] quella di autorevoli esponenti del giornalismo e della politica che ci attribuiscono addirittura la finalità di ricattare il capo dello Stato, solo perché ci siamo imbattuti casualmente in alcune sue telefonate con l’ex ministro Mancino, o perché l’abbiamo citato come testimone. È l’accusa più pesante e ingiusta, ma ci è toccato sopportare anche questo. […] i pentiti di mafia ragionano ancora con l’istinto tipico dei mafiosi: se capiscono di avere di fronte dei pm attaccati dalle istituzioni, fiutano che parlare di certi argomenti potrebbe essere scomodo e poco conveniente anche per loro. E magari chi sa molte cose si attesta su canoni di ordinaria <<normalità>>, rivelando solo ciò che non scandalizza troppo il sistema, e dunque non si rivela troppo dannoso per lui. […] Io non ho mai chiesto nulla [per la mia sicurezza, N.d.A.]: ci sono autorità preposte a queste decisioni tecniche e stanno operando con la massima professionalità. A cominciare dai carabinieri della mia scorta. Ma un magistrato è sicuro soprattutto quando tutte le istituzioni si mostrano totalmente unite nell'affermare che il suo operato – peraltro criticabile – non può subire minacce né annunci di strage. La reazione compatta di tutto lo Stato sarebbe la migliore protezione per me e per qualunque altro magistrato in pericolo. [E quella reazione compatta, N.d.A.] finora è arrivata solo a spizzichi e bocconi, con molta lentezza, fatica e reticenza. Ma non dispero che ci si arrivi, un giorno o l’altro...” (intervista di Antonino Di Matteo rilasciata a Marco Travaglio e pubblicata il 18 dicembre 2013 su "il Fatto Quotidiano" con il titolo "<<Riina mi vuole morto e i politici attaccano le nostre indagini>>").


                                             Festa de "il Fatto Quotidiano",
                         dibattito "Due anni di stragi, vent'anni di trattativa" con
                        Antonino Di Matteo, Antonio Ingroia, Gian Carlo Caselli,
                                             Marco Travaglio, Marco Lillo. 
                               Marina di Pietrasanta (Lucca), 9 settembre 2012.
                  L'intervento di Nino Di Matteo inizia a partire dal minuto 29:33.
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[…] la condanna a morte di Totò Riina contro il pm Nino Di Matteo, che indaga sulla trattativa Stato-mafia e dunque è il nemico pubblico numero uno sia dei vertici dello Stato sia di quelli della mafia. Il defunto consigliere giuridico di Napolitano, nei suoi allegri conversari con l’indagato Mancino, lo chiamava affettuosamente <<il solito Di Matteo>>. Riina, nei suoi allegri conversari col collega Lorusso, lo chiama affettuosamente <<quel cornuto>> che <<mi fa impazzire>> e auspica che i picciotti gli facciano fare <<la fine del tonno>> e che Napolitano non vada a testimoniare davanti a lui, anzi che i suoi corazzieri lo prendano a <<mazzate sulle corna>>” (editoriale di Marco Travaglio intitolato "La Guardagingilli" pubblicato su "il Fatto Quotidiano" il 1° febbraio 2014).


                       Intervista di Antonino Di Matteo rilasciata a Nicola Biondo 
                            e pubblicata sul blog di Beppe Grillo il 7 aprile 2014.
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“Da un anno e mezzo, cioè da quando la Procura generale della Cassazione trascinò Nino Di Matteo, il pm più odiato da Totò Riina, sotto procedimento disciplinare dinanzi al Csm, si sospettava che l’incredibile iniziativa non fosse spontanea. Ma <<spintanea>>, suggerita dal Quirinale, visto che Di Matteo, dopo l’uscita di Antonio Ingroia dalla magistratura, è anche il magistrato più detestato da Giorgio Napolitano. Ora il sospetto diventa certezza grazie a un documento ufficiale: la richiesta di proscioglimento depositata a fine dicembre dal Pg Gianfranco Ciani e dal sostituto Antonio Gialanella. I due, ricostruendo la genesi del processo, che riguarda anche il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, rivelano che la segnalazione dei possibili illeciti disciplinari partì proprio dal Colle: <<Al Procuratore generale presso la Cassazione perveniva, in data 11.7.2012, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, una missiva datata al 9.7.2012>>. […] Ma, [nell'estate del 2012, N.d.A.] anziché ringraziare Di Matteo per aver dissipato ogni possibile sospetto su sue condotte illecite, Napolitano scatena la guerra termonucleare alla Procura di Palermo, esternando a tutto spiano e mobilitando prima l’Avvocatura dello Stato, poi il Pg della Cassazione e infine la Corte costituzionale. […] Il 16 luglio Napolitano solleva il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo, accusandola di aver attentato alle sue <<prerogative>>. A fine luglio Ciani apre su Messineo e Di Matteo un <<procedimento paradisciplinare>>, cioè un’istruttoria preliminare. È lo stesso Ciani che tre mesi prima, su richiesta scritta di Mancino e Napolitano (tramite il solito Marra), ha convocato il Pna Piero Grasso per parlare di come <<avocare>> da Palermo l’inchiesta sulla Trattativa o almeno di <<coordinarla>> con quelle sulle stragi a Firenze e Caltanissetta: ricevendo da Grasso un sonoro rifiuto. […] Ma qui c’è il Quirinale che preme. Il Pg Ciani ci dorme su sette mesi. Poi il 19 marzo 2013 promuove l’azione disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Il secondo è accusato di aver <<mancato ai doveri di diligenza e riserbo>> e <<leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della Repubblica>>; il primo, di non averlo denunciato al Csm. Messineo e Di Matteo vengono interrogati il 18 giugno e il 7 luglio, ripetendo quel che avevano sempre scritto e detto. La Procura generale ci dorme sopra altri cinque mesi e mezzo. Poi finalmente, alla vigilia di Natale, deposita le richieste di proscioglimento, scoprendo l’acqua calda […]. Ergo <<è del tutto verosimile>> che Di Matteo tenne <<un atteggiamento di sostanziale cautela>> e <<non pare potersi dire consapevole autore di condotte intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza della Repubblica>>, semmai <<intenzionato a rappresentare la correttezza procedurale dell’indagine>>. Quindi <<la condotta del dr. Di Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti>>, né in quelli di Messineo. Così scrivono Galanella e Ciani il 16 e 19 dicembre 2013 nella richiesta di proscioglimento che ora dovrà essere esaminata dal Csm [la richiesta verrà accolta il 2 aprile 2014, N.d.A.].Ma così avrebbero potuto scrivere – risparmiando a Di Matteo e Messineo un anno e mezzo di calvario - già nel giugno 2012, quando tutti sapevano già tutto. Compreso il Quirinale, che sciaguratamente innescò questo processo kafkiano al nemico pubblico numero uno del Capo dei Capi. E di tanti altri capi” (Marco Travaglio, articolo intitolato "Csm, è stato Napolitano a voler processare Di Matteo" pubblicato su "il Fatto Quotidiano" il 9 febbraio 2014).




“Guai a mostrare le paure, i timori ad un mafioso o a qualunque altro delinquente! Io credo che è più dignitoso cercare di andare avanti non facendosi condizionare dall'arroganza del più efferato stragista della storia d’Italia [Totò Riina, N.d.A.]. […] L’unica speranza di sconfiggere definitivamente la mafia non passa dalla nostra azione, dei magistrati, delle forze dell’ordine, ma passa da una rivoluzione culturale che deve partire proprio dai giovani. 
[Che cosa si può fare?, N.d.A.] 
Informarsi. 
Sapere.
Conoscere. 
Dire no all'indifferenza. 
Praticare la buona abitudine di mandare a calci in culo lontano i mafiosi, i corrotti o quelli che ti vengono a promettere il posto di lavoro chiedendoti il voto. 
Questo significa far partire la rivoluzione che porterà alla fine della mafia. 
Quando vai a votare, vai a vedere se quella persona ha avuto e ha rapporti con i mafiosi. Vai a vedere qual è il suo atteggiamento nei confronti della mafia” (intervista di Antonino Di Matteo rilasciata a Cristiano Pasca e trasmessa il 28 maggio 2014 dal programma televisivo "Le Iene").




“Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. […] Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla <<pacatezza>>, al <<rispetto>>, addirittura all’<<equidistanza>> (testuale), contro il <<protagonismo>> e gli <<arroccamenti>>, per <<chiudere i due decenni di scontro permanente>> e <<tensione>> (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi)” (Marco Travaglio, editoriale intitolato "Lo Stato Carogna" pubblicato su "il Fatto Quotidiano" il 7 maggio 2014).




[…] poco o nulla è cambiato dai tempi di Falcone e Borsellino circa l’isolamento cui sono costretti i magistrati del Pool che si occupa delle collusioni tra alcuni governanti romani e la mafia.
Una vera e propria strategia della tensione è stata attuata in un modo o nell’altro contro tutti gli attori che ruotano intorno a questo processo, dai semplici sostenitori come l’ingegnere Salvatore Borsellino, al testimone chiave Massimo Ciancimino, continuamente aggredito in ogni modo e forma, anche lui screditato e minacciato nella stessa maniera dei magistrati che si occupano di questo processo. Come già avvenuto in passato per altri processi scomodi ai palazzi del potere, vedasi il processo Andreotti, oltre ad attaccare e screditare i magistrati e l’impianto stesso del processo, si cerca anche di screditare i testimoni più importanti per minarne l’attendibilità ed isolarli. Una campagna di delegittimazione senza precedenti mentre ancora oggi, a tutela di Massimo Ciancimino, non è stata presa nessuna misura di protezione. Un silenzio ed un isolamento che mai avrebbe potuto avere inizio se fossero ancora in vita i nostri Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno e tanti altri non presunti giornalisti. […] Sappiamo che accanto a Riina sullo stesso banco degli imputati vi sono uomini che hanno rappresentato le Istituzioni nel periodo post stragista. Qualcuno finalmente condannato ed in carcere come Marcello Dell'Utri. Sappiamo anche che qualora il processo sulla trattativa dovesse concludersi con sentenza di condanna, a Riina toccherebbero pene detentive di pochi anni, del tutto irrilevanti per uno che ha collezionato una lunga serie di ergastoli. Sappiamo che un’eventuale strage contro i magistrati di Palermo sarebbe in realtà controproducente perché andrebbe a sortire gli effetti opposti a quelli voluti, in quanto finirebbe inevitabilmente per essere una conferma dell’impianto accusatorio del processo sulla trattativa. Pertanto appare più che legittimo pensare che dietro questa lunghissima scia di minacce di morte ci sia qualcuno altro che teme fortemente che altre indicibili verità vengano a galla e che quello che Falcone definì <<il gioco grande del potere>> venga alla fine completamente scoperto. Così come più volte esternato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, dott. Scarpinato, le lotte di potere in Italia si sono svolte spesso ed in larga misura nell’ombra, facendo ricorso alla matrice mafiosa per coprire stragi e omicidi che invece avevano origini diverse.
[…] qualcuno ha paura che si arrivi ad altre ancor più indicibili verità che potrebbero essere svelate nel processo in corso a Palermo. Sono stati uccisi magistrati coi componenti delle loro scorte, Prefetti, giornalisti, Presidenti della Regione, Sacerdoti, imprenditori, testimoni di Giustizia, una realtà mai esistita in nessuna parte del mondo occidentale; nessuno può rimanere indifferente a tutto questo e soprattutto non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò che sta accadendo oggi a Palermo perché la nostra indifferenza ha ucciso insieme al tritolo. Nonostante ciò che sovvenzionatissimi giornali lascino intendere, è fondamentale per la nostra democrazia che i giovani capiscano che quella che oggi chiamiamo Trattativa tra lo Stato e la mafia, oltre che ad aver sporcato il passato della nostra politica, continua a gravare sul nostro presente e ad ipotecare il futuro dei nostri figli. […] Infine, mi faccio portavoce di un appello lanciato dai giovani incontrati quest’anno nelle scuole: <<I politici non facciano finta di non capire che la lotta alla mafia ed alla corruzione politica sono due facce della stessa medaglia>>. Questo è quello che chiedono a gran voce i giovani. Occorre incentivare ancor di più, cari politici, la speranza nei giovani in un Paese che sembrava già morto sotto una coltre pesantissima di menzogne, depistaggi, <<non ricordo>>, bombe, patti e ricatti politico- mafiosi.
Perché, cari politici i giovani hanno capito da tempo che a far sparire l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e la documentazione del Generale Carlo A. Dalla Chiesa; ad intrufolarsi all’interno dell’Ufficio del Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato lasciando sulla scrivania una lettera di minacce; che a violare l’abitazione privata del Sostituto Procuratore Roberto Tartaglia, non sono stati i mafiosi, ma parti insane delle Istituzioni, supine a compiacere volontà del dominio, indegne di un Paese democratico” (Saverio Masi, Maresciallo dei Carabinieri e caposcorta di Antonino Di Matteo, intervento pubblico letto alla "Festa di Pace" organizzata dalla "Tavola della Pace Valle Brembana" - in occasione dei suoi dieci anni di vita - in collaborazione con "il Fatto Quotidiano", San Pellegrino Terme, 21 settembre 2014).  




"A chi interessa eliminare Di Matteo? [...] A chi può interessare se non a chi ha mantenuto per anni una scellerata congiura del silenzio su degli <<indicibili accordi>> che oggi, giorno dopo giorno, grazie proprio all'opera di Di Matteo e del pool di Palermo, continuano a venire alla luce? Nonostante il silenzio di chi, in una stanza del Quirinale trasformata in un’Aula di Giustizia, di questo silenzio ha scelto di continuare ad essere il garante" (Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, editoriale intitolato "A chi interessa eliminare Nino Di Matteo?" pubblicato l'altroieri sul sito internet del "Movimento delle Agende Rosse").




"Matteo di qua, Matteo di là, anche perché i Matteo sono due: Renzi e Salvini. Parlano dappertutto e ne parlano tutti. Poi c’è Di Matteo, nel senso di Nino, il pm di Palermo condannato a morte da Totò Riina, il quale – intercettato nell’ora d’aria con il boss pugliese Alberto Lorusso – non s’è limitato a <<minacciarlo>>, come scrive la stampa corazziera, ma ha ordinato una strage come a Capaci e in via D’Amelio: <<Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come a quel tempo a Palermo. Organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non parliamone più>>. Era il 16 novembre 2013. In 12 mesi il capo dello Stato, pur così ciarliero fra esternazioni e moniti, non ha trovato due parole di solidarietà per questo servitore dello Stato. Nemmeno quando se l’è ritrovato davanti per testimoniare sulla trattativa Stato-mafia, e ha ricordato quando Cosa Nostra voleva far la pelle a lui e a Spadolini. Nemmeno ieri, quando Repubblica ha rivelato che una fonte <<molto attendibile>> ha raccontato (con le stesse parole di un’altra fonte che nel giugno '92 preannunciò la strage di via D’Amelio) che <<a Palermo è già arrivato il tritolo per Di Matteo>>. Due mesi fa anche il Pg Roberto Scarpinato, che sostiene l’accusa nel processo d’appello al gen. Mori per la mancata cattura di Provenzano, ha subìto minacce gravissime: uomini del cosiddetto <<Stato>> si sono introdotti nel suo ufficio e nel corridoio antistante per lasciare una lettera di avvertimenti sulla sua scrivania e la scritta <<Accura>> (attento) sulla porta di fronte alla sua stanza, nella certezza di non essere ripresi dalle telecamere di sorveglianza. Diversamente dai due marò, questi magistrati non hanno diritto alla solidarietà del capo dello Stato, forse perché non sono accusati di duplice omicidio. Le tv perlopiù ignorano queste notizie e i giornali, quando ne parlano, le trattano come normale routine. Anzi, su Libero si leggono articoli infami che irridono a quei magistrati in pericolo come se le minacce e le condanne a morte se le inventassero loro. E sul Foglio, già noto per aver beatificato gli Squillante e i Carnevale, è partita un’ignobile campagna perché a Palermo arrivi un nuovo procuratore che assicuri l’isolamento dei pm della Trattativa più ancora di quanto già non facciano molti loro colleghi. A luglio il vecchio Csm si accingeva a nominare l’attuale procuratore di Messina Guido Lo Forte, già braccio destro di Caselli ai tempi d’oro degli arresti di centinaia di boss e dei processi Andreotti, Dell’Utri, Contrada, che in commissione si era imposto con tre voti su Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, e Franco Lo Voi, ex rappresentante italiano a Eurojust, che avevano raccolto un solo voto a testa perché meno titolati (soprattutto Lo Voi, che ha 9 anni meno degli altri due e non ha mai diretto un ufficio giudiziario). Ma intervenne a gamba tesa il Quirinale con un’incredibile lettera del segretario Donato Marra, che bloccò la nomina imponendo – fatto mai accaduto – di dare la precedenza ad altre 25 sedi giudiziarie vacanti: cioè di seguire un inedito <<ordine cronologico>>, partendo dal fondamentale Tribunale dei minori di Caltanissetta. Ora il Foglio – non smentito da nessuno – rivela che il vicepresidente del nuovo Csm, l’ex sottosegretario di Renzi Giovanni Legnini, <<deve interpretare un indirizzo che arriva da Palazzo Chigi>> e dal Colle: <<imporre discontinuità con l’attuale gestione di matrice ingroiana>>  con <<l’affermazione di uno degli ultimi due candidati (Lari, grande critico dell’impostazione data alla trattativa Stato-mafia, è favorito ma la partita è aperta)>>. Lo chiedono <<i figli del Nazareno>>. Quindi: il governo vuole scegliersi il procuratore di Palermo in barba alla Costituzione e alla divisione dei poteri; pretende che sia il più lontano possibile dai pm che rischiano la pelle col processo sulla Trattativa; e il Csm, che dovrebbe tutelarli, deve isolarli vieppiù. Come accadde a Falcone prima dell’Addaura e di Capaci e a Borsellino prima di via D’Amelio. La trattativa è viva e lotta insieme a loro. Se il Csm non avrà uno scatto d’orgoglio per respingere queste ributtanti pressioni, ci sarà solo da vomitare" (Marco Travaglio, editoriale intitolato "I due Matteo e Di Matteo" pubblicato su "il Fatto Quotidiano" di ieri).




Dopo un lungo "alternarsi di minacce di stile mafioso e di fonte istituzionale" (per usare le parole del pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, rilasciate a Marco Travaglio nell'intervista citata all'inizio pubblicata il 18 dicembre 2013 su "il Fatto Quotidiano"), Antonino Di Matteo è nuovamente nel mirino.
Di chi?
Di quello che Saverio Lodato definisce "Stato-Mafia e Mafia-Stato":

"[...] la favoletta della Mafia contrapposta allo Stato (e viceversa), che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa, andrebbe sostituita da ben altra narrazione: sono sempre esistiti, in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai, come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche.
Dallo stragismo nero a quello rosso, dall'eliminazione di grandi personalità <<incompatibili>> con la <<lega dei birbanti>> allo stragismo mafioso, qualunque bandolo si prende della storia nazionale italiana in questi ultimi settant'anni il quadro finale resta lo stesso: migliaia di vittime e di verità negate, istituzioni colluse e compromesse, enormi ferite inferte al tessuto democratico. 
Limitiamoci all'attualità. 
Farò solo qualche  esempio per rendere l’idea: le <<esternazioni>> di Totò Riina. Il quale ha minacciato di morte Nino Di Matteo. E si è scagliato contro il processo sulla trattativa. E si è detto contrario alla deposizione, in quel processo, del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ora, improvvisamente, tace. O lo hanno fatto tacere.
Il CSM, dal canto suo, prima ha messo sotto azione disciplinare Di Matteo poi - bontà sua - ha archiviato il caso. Napolitano - ormai è arcinoto - ha preteso e ottenuto che fossero mandate al macero le sue telefonate con l’indagato Mancino Nicola.
Le truppe cammellate dell’Informazione, dei maitre a’ penser, della politica, delle istituzioni, si sono esercitate nel tiro al bersaglio contro i poveri Cirenei della Procura della Repubblica di Palermo, che sembrano ricordarci l’Alfieri: <<volli, e volli sempre, e fortissimamente volli>>… indagare, si capisce.
Insomma, tutti, in quest’Italia, fanno il lavoro per il quale sono portati. 
Non si indaga - invece - sulla trattativa, ammoniscono i Napolitano, gli Scalfari, i Ferrara, i Macaluso, i Violante, gli Arlacchi, gli Sgarbi, i Cicchitto, i Gasparri, i Fiandaca, i Lupo, e chi più ne ha più ne metta. E perché il cerchio si chiudesse, con la testimonianza esclusiva e preziosa del morto, ecco Padovani farsi garante che se Falcone fosse ancora vivo la penserebbe, su questo processo per la trattativa, allo stesso modo: una <<boiata pazzesca>>.
Ora che vivi e morti hanno detto la loro (anche se a quest’ultimi gliel'hanno fatta dire) sorge spontanea una domanda: non è un po’ riduttivo tracciare una linea di demarcazione, asserendo tassativamente: qui finisce lo Stato e qui comincia la Mafia?
Come si fa a separare interessi della politica da interessi di mafia? 
Interessi delle istituzioni da interessi dei mafiosi? 
Non siamo in presenza di un grumo inestricabile?
[…]
Giunti a questo punto ci chiediamo: non diventerebbe tutto più semplice adoperando la chiave interpretativa alla quale facevamo riferimento prima: le eterne convergenze parallele fra lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato?
E infatti.
Perché tutti i soggetti che elencavamo prima si sono arrogati il diritto di considerare un regolare processo regolarmente istruito nel regolare rispetto delle parti - il processo sulla trattativa Stato-Mafia - come novelle Colonne d’Ercole sulle quali incidere il loro indispettito: <<Non plus ultra>>? 
A che titolo lo hanno fatto?
E tanti di quei soggetti non furono forse gli stessi che, una quindicina d’anni fa, scrissero il medesimo indignato <<Non ci sto>> sul processo a Giulio Andreotti? La politica non doveva forse astenersi di fronte a un processo che vedeva alla sbarra per mafia un sette volte presidente del consiglio?
Giulio Andreotti fu un personaggio politico ambiguo della Repubblica italiana (Parola di Cassazione) che incontrava abitualmente, a Palermo, il gotha di Cosa Nostra (Parola di Cassazione). E’ stato il principale artefice dell’immiserimento della politica a cinico e disinvolto strumento del potere.  
Eugenio Scalfari, Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano, quando troveranno il coraggio di dire ad alta voce questa elementare verità? 
Che aspettano a chiudere quella pagina vergognosa che pesa come un macigno sulla storia di oggi? 
La smettano con le chiacchiere garantiste. Giuliano Ferrara, per sua stessa (e orgogliosa) ammissione,  agente della Cia in Italia in quegli anni, può simpaticamente continuare a difendere Andreotti. 
Ma gli altri? Che motivo hanno?
E più in generale: chi deve fare i processi in Italia? Chi è deputato a farli?
Che diremmo se un politico o un giornalista o un conduttore televisivo facessero irruzione in sala operatoria intimando al chirurgo: taglia qua, taglia là, anzi non tagliare per niente, e, come non bastasse, iniziassero a schiaffeggiare gli assistenti che fiancheggiano il chirurgo?"
(Saverio Lodato, 
editoriale intitolato "40 anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato", pubblicato sul numero 71 - il primo del 2014 - della rivista "ANTIMAFIA Duemila", uscito nel luglio scorso).

Il libro di Nino Di Matteo e Loris Mazzetti (2011)

Tre anni fa Loris Mazzetti ha scelto un titolo significativo per il libro scritto insieme a Nino Di Matteo: "Assedio alla toga. Un magistrato tra mafia, politica e Stato".
Ecco, voglio concludere questo post esattamente come si conclude quel libro, con le parole tratte dalla lettera dedicata a Paolo Borsellino scritta dallo stesso Di Matteo e letta il 19 luglio 2011 in via D'Amelio: 

"In questi lunghi diciannove anni, giudice Borsellino, molte cose, tante situazioni che ti facevano indignare, sono rimaste uguali. Forse sono peggiorate. I rapporti tra la mafia e la politica sono continuati, e la loro repressione, la risoluzione di questa piaga mortale continuano a essere affidati esclusivamente all'azione della magistratura. Alla possibilità di configurazione di reati, come se nei reati si esaurisse il disvalore dell'abbraccio mortale tra la mafia e il potere. La politica non ha fatto nulla per emendarsi e liberarsi per sempre dalla contaminazione criminale. La corruzione dilagante nel nostro Paese sta diventando sistema, viene ormai disinvoltamente accettata come inevitabile corredo all'esercizio del potere. Nessuno, al di là si vaghe parole, sta facendo nulla per porre finalmente un argine a un fenomeno che grava sempre più sugli onesti e sui più deboli. I valori costituzionali e primi fra essi quelli della separazione dei poteri e dell'eguaglianza di tutti davanti alla legge, sono messi in pericolo da leggi e da riforme che di epocale hanno solo l'evidente scopo di trasformare la magistratura in un ordine servente rispetto alla politica, al governo di turno, a un potere che vogliono esercitare senza limiti e contrappesi. Dobbiamo resistere. E, con le armi del diritto, del coraggio e dell'onestà intellettuale, dobbiamo fare di tutto per fare comprendere a ogni cittadino il pericolo che si sta profilando. Dobbiamo farlo. Tu, giudice Borsellino, lo avresti fatto. Ti saresti battuto come un leone per questa causa. Ti saresti esposto come hai sempre fatto quando fiutavi che qualcuno o qualcosa mettesse in pericolo quei valori di vera giustizia che hai incarnato fino all'ultimo tuo respiro. Un ultima cosa voglio dirti, caro Paolo: non ne posso più della stucchevole questione se la tua morte sia servita a qualcosa o sia stata inutile. Guarda tutta questa gente, i giovani, gli anziani, gli uomini, le donne di tutta Italia. Quelli che ancora oggi si emozionano ricordandoti. Quelli che si ispirano nell'impegno quotidiano al tuo impegno. Quelli che hanno trovato il coraggio di sollevarsi dalla rassegnazione guardando il tuo coraggio. Guarda da lassù i tanti italiani: sono di più di quelli che appaiono, che nel silenzio delle coscienze continuano a lottare come tu hai loro insegnato. Ti accorgerai che in ciascuno di loro, in ciascuno di noi, vive ancora la tua anima".

Da sinistra a destra:
Beppe Alfano, don Pino Puglisi mano nella mano con il piccolo Giuseppe Di MatteoPeppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Graziella Campagna, Libero Grassi, Carlo Alberto dalla Chiesa, Adolfo Parmaliana
(disegno realizzato da Lelio Bonaccorso in occasione della manifestazione
"Profumo di Libertà", tenutasi a Messina il 23 maggio 2010).
Nonostante tutti loro siano stati vittime della mafia siciliana tra il 1978 e il 2008,
essi vivono nei cuori, nelle menti e nelle coscienze dei cittadini onesti.

DIAMO I NUMERI (ANCORA)

Il mio post intitolato "Diamo i numeri" è stato pubblicato da:

- "Movimento delle Agende Rosse" di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo;


- Giulio Cavalli.


Grazie!

giovedì 6 novembre 2014

DIAMO I NUMERI

Alla direzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si sono finora succeduti quattro prefetti: Alberto Di Pace (da febbraio ad aprile 2010), Mario Morcone (da aprile 2010 a giugno 2011), Giuseppe Caruso (da giugno 2011 a giugno 2014) e Umberto Postiglione (da giugno 2014).
Eppure nessuno di loro ha redatto nei tempi stabiliti il resoconto sull'attività svolta dall'Agenzia.
Infatti, nonostante sia l'art. 3, c. 1 del decreto-legge n. 4/2010 (poi convertito dalla legge n. 50/2010), sia l'art. 112, c. 1 del decreto legislativo n. 159/2011 (Codice antimafia) impongano al Direttore di presentare la relazione ogni 6 mesi, essa ha sempre avuto cadenza annuale.
L'ultima disponibile è stata resa nota all'inizio del 2013 e si riferisce all'anno 2012 (quella per il 2013 avrebbe dovuto essere pubblicata tra il gennaio e il marzo scorsi, ma ad oggi resta un mistero).
Leggendola si scopre che al 31 dicembre 2012 i beni confiscati alle mafie in via definitiva sono 12.946: 11.238 immobili e 1.708 aziende.

Degli 11.238 immobili:

- il 52,14% (5.859 immobili) è stato destinato e consegnato a comuni (5.010), forze dell'ordine, vigili del fuoco e capitanerie di porto (646), ministeri (104), province e regioni (89), altri enti (10);

- il 35,55% (3.995 immobili) è in gestione: per 1.668 immobili lo stato di manutenzione è ignoto, per 873 è valutato "soddisfacente", per 686 "mediocre", per 664 "buono" e per 104 "inagibile".
Inoltre:

2.819 sono gravati da una o più criticità (come ipoteche e procedure giudiziarie in corso);

1.556 hanno gravami ipotecari certi. Su 1.065 pesa un'ipoteca volontaria, su 343 un'ipoteca giudiziale, su 76 un pignoramento, su 59 un'ipoteca legale, su 13 altro;

- l'8,07% (907 immobili) è stato destinato, ma non consegnato: 377 immobili sono gravati da ipoteca;

- il 4,24% (477 immobili) è uscito dalla gestione. I motivi principali sono la revoca della confisca e le esecuzioni immobiliari.

Delle 1.708 aziende:

- il 70,90% (1.211 aziende) è in gestione (ma tante aziende non hanno dipendenti e stanno per uscire dalla gestione): per 393 imprese non è ancora stata trovata una destinazione, mentre le destinazioni disposte alle rimanenti 818 sono le seguenti:
342 liquidazione;
237 gestione sospesa;
189 chiesta la cancellazione dal registro delle imprese e/o dall'Anagrafe Tributaria;
44 vendita;
6 affitto;

- il 29,10% (497 aziende) è uscito dalla gestione perchè la confisca è stata revocata (14) e le aziende sono state:
cancellate dal registro delle imprese e dal repertorio delle notizie economiche e amministrative (285);
liquidate (153);
vendute (45).


Ma quanto tempo impiega lo Stato italiano per destinare i beni confiscati ai mafiosi?

Per saperlo, è necessario leggere la relazione annuale 2009 del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali (Antonio Maruccia), pubblicata nel novembre 2009 (il commissario ha cessato le proprie attività con l'istituzione dell'Agenzia nazionale nel 2010).

Alla data del 30 giugno 2009:

- i tempi impiegati dallo Stato per destinare gli immobili confiscati alle mafie (totale immobili destinati: 5.407) sono i seguenti: 

entro 4 mesi dalla confisca definitiva (limite previsto dalla normativa vigente): lo 0,06% degli immobili (3);  

dopo 4-12 mesi: il 2,44% degli immobili (132);

dopo 1-2 anni: il 15,44% degli immobili (835);

dopo 2-5 anni: il 37,43% degli immobili (2.024);

dopo 5-10 anni: il 32% degli immobili (1.730);

dopo oltre 10 anni: il 12,63% degli immobili (683).

Tempi medi per la destinazione: 5 anni e mezzo (5,55);

- i tempi da cui è attesa la destinazione degli immobili confiscati alle mafie (totale immobili ancora da destinare: 3.213) sono i seguenti:

0-4 mesi: lo 0,62% degli immobili (20);

4-12 mesi: il 3,52% degli immobili (113);

1-2 anni: il 18,30% degli immobili (588);

2-5 anni: il 24,31% degli immobili (781);

5-10 anni: il 40,68% degli immobili (1.307);

oltre 10 anni: il 12,57% degli immobili (404).

Tempi medi di attesa: poco più di 6 anni (6,22).

- i tempi impiegati dallo Stato per destinare le aziende dopo la confisca definitiva (totale aziende confiscate in via definitiva alle mafie e poi destinate: 642) sono i seguenti:

entro 4 mesi: l'1,75% delle aziende (17);

dopo 4-12 mesi: il 5,57% delle aziende (54);

dopo 1-2 anni: il 15,69% delle aziende (152);

dopo 2-5 anni: il 20,64% delle aziende (200);

dopo 5-10 anni: il 15,38% delle aziende (149);

dopo oltre 10 anni: il 7,22% delle aziende (70).

Tempi medi per giungere alla destinazione delle aziende destinate dopo la confisca definitiva: 4 anni e mezzo (4,58).

- i tempi da cui è attesa la destinazione delle aziende confiscate alle mafie (totale aziende ancora da destinare: 216) sono i seguenti:

0-4 mesi: lo 0,93% delle aziende (2);

da 4-12 mesi: il 10,19% delle aziende (22);

da 1-2 anni: il 31,48% delle aziende (68);

da 2-5 anni: il 33,33% delle aziende (72);

da 5-10 anni: il 13,89% delle aziende (30);

da oltre 10 anni: il 10,19% delle aziende (22).

Tempi medi di attesa: quasi 4 anni (3,78).

Chissà perchè da 5 anni a questa parte i dati statistici sui tempi non sono più rendicontati e resi noti dall'Agenzia nazionale...


Come abbiamo visto, secondo il rapporto dell'Agenzia per l'anno 2012, la stragrande maggioranza degli immobili confiscati, destinati e consegnati passa dalla proprietà statale a quella comunale (l'85,51%).
Ma i comuni come utilizzano questi beni?

Dobbiamo nuovamente ricorrere alle informazioni contenute nella relazione del 2009 presentata dal Commissario straordinario.

Sono stati interpellati tutti i 480 comuni assegnatari dei 3.796 immobili complessivamente consegnati dallo Stato centrale. Il 75,42% dei comuni (ovvero 362) ha risposto, per un corrispettivo di 3.141 immobili. Tutte le amministrazioni comunali interpellate dell'Italia settentrionale e centrale, della Basilicata e della Sardegna hanno fornito una risposta, mentre per il Sud Italia continentale (Campania, Calabria, Puglia e la stessa Basilicata) lo ha fatto il 72,86% dei comuni interpellati (145 su 199). Inquietante il dato siciliano: solo il 42,86% dei comuni interpellati ha voluto rispondere (48 su 112).

Dei 3.141 immobili consegnati ai comuni e di cui sono pervenute informazioni tra l'aprile e il novembre del 2009, soltanto il 47,41% viene utilizzato (1.489 immobili). I comuni del Nord utilizzano il 62,80% di tutti gli immobili a loro consegnati (319 su 508), quelli del Centro il 53,17% (109 immobili su 205), quelli del Sud continentale - ovvero Campania, Calabria, Puglia e Basilicata - il 35,29% (512 immobili su 1.451), infine quelli siciliani il 55,95% (522 immobili su 933). La regione più virtuosa è la Basilicata, dove sono stati utilizzati tutti gli immobili (7 su 7), mentre quella più inefficiente sono le Marche, dove non viene utilizzato neppure l'unico immobile consegnato.

Perchè 1.652 immobili confiscati ai mafiosi sono stati consegnati ai comuni e questi ultimi non li hanno utilizzati (secondo le informazioni pervenute tra l'aprile e il novembre del 2009)?

Il 29,24% degli immobili (483) non viene utilizzato perchè le procedure per l'utilizzo sono state avviate, ma non concluse;

il 18,40% degli immobili (304) perchè mancano le risorse finanziarie;

il 14,83% degli immobili (245) perchè sono in attesa dei finanziamenti;

il 5,99% degli immobili (99) perchè si tratta di beni inagibili;

il 2,78% degli immobili (46) perchè si tratta di beni in quota indivisa;

l'1,94% degli immobili (32) perchè si tratta di beni occupati dal prevenuto e/o dai suoi familiari;

l'1,88% degli immobili (31) perchè si tratta di beni occupati da terzi senza titolo;

l'1,69% degli immobili (28) perchè si tratta di beni occupati da terzi con titolo;

lo 0,73% degli immobili (12) perchè si tratta di beni gravati da procedura giudiziaria in corso;

lo 0,30% degli immobili (5) perchè si tratta di beni gravati da ipoteca;

il 22,22% degli immobili (367) perchè sussistono altri motivi.


In un'intervista del 27 dicembre 2012 rilasciata al giornalista Attilio Bolzoni per "la Repubblica", don Luigi Ciotti - fondatore e presidente di "Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" - ha affermato: 

"Dentro lo Stato ci sono stati anche uomini che si sono spesi e a volte anche strutture che hanno funzionato. Sono mancati gli strumenti giusti, è mancata in generale un'aggressione mirata alla questione dei beni confiscati. E poi ci sono state reti di complicità, ci sono stati ritardi, ci sono stati silenzi. E qualcuno che doveva metterci la testa su queste cose, la testa non ce l'ha messa. Per questo oggi è giusto dire che è una situazione che grida vendetta".

D'altra parte, come giustamente ha ricordato Saverio Lodato, l'immagine dello Stato italiano contrapposto alle mafie è una "favoletta [...] che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa"In realtà "sono sempre esistiti, in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai, come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche" (editoriale intitolato "40 anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato", pubblicato sul numero 71 - il primo del 2014 - della rivista "ANTIMAFIA Duemila", uscito nel luglio scorso).
  

domenica 2 novembre 2014

UNA SORGENTE RARA E PREZIOSA 

Giuseppe Fava

"[…] lo spirito politico di questo giornale è la verità. Onestamente la verità. Sempre la verità. Cioè la capacità di informare la pubblica opinione su tutto quello che accade, i problemi, i misfatti, le speranze, i crimini, le violenze, i progetti, le corruzioni. I fatti e i personaggi. E non soltanto quelli che hanno vita ufficiale e arrivano al giornale con le proprie gambe, i comunicati, i discorsi, gli ordini del giorno, poiché spesso sono truccati e camuffati per ingannare il cittadino, ma tutti gli infiniti fatti e personaggi che animano la vita della società siciliana, e quasi sempre restano nel buio, intanati, nascosti, interrati. Io sostengo che la vera notizia non è quella che il giornalista apprende, ma quella che egli pazientemente riesce a scoprire. Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! […] Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!".

Giuseppe Fava, 56 anni, giornalista, editoriale intitolato "Lo spirito di un giornale", pubblicato l'11 ottobre 1981 su "Il Giornale del Sud" (quotidiano di cui Fava era direttore).

Ester Castano

"[il ruolo del giornalismo d’inchiesta nella lotta alla mafia, N.d.A.] è fondamentale. A mio parere per avere credibilità la distinzione fra giornalista e attivista deve rimanere netta anche nell'antimafia. Ma è anche vero che in un momento storico confuso e delicato come il nostro il giornalista d’inchiesta dovrebbe essere capace di far scattare una miccia fra i lettori, una scintilla: gli articoli sono uno strumento tramite cui i cittadini possono avere uno sguardo approfondito sulla realtà. E’ il giornalista che ha la possibilità di studiarsi le carte, di porre domande, di osservare da vicino. La responsabilità è immensa. Poi sta al cittadino decidere se, grazie agli elementi forniti dal cronista attraverso le sue denunce, avviare il cambiamento e ribaltare il sistema. [...] Uno dei grandi meriti di Fava è quello di aver creato uno spirito giornalistico: un po’ come un batterio benefico, intacca la carne malata e crea oasi di guarigione. La mafia voleva tappargli la bocca: per questo è stato ucciso. Ma così facendo i mandanti hanno compiuto l’errore più grande: ammazzando il direttore dei Siciliani non solo non hanno posto fine alla forza dirompente dei suoi scritti, ma hanno anche reso possibile il moltiplicarsi di esperienze simili alle sue, in Sicilia e nel resto d’Italia. Non so se Cosa Nostra questo errore l’abbia compiuto per ingenuità o distrazione, sta di fatto che ha perso. Il giornalismo di Fava è stato assunto a modello da molti giovani: cercare le notizie nei luoghi in cui si svolgono i fatti, osservare da vicino, cogliere i dettagli e le sfumature, curare nel testo la propria espressione linguistica. E dal giorno successivo a quel tragico 5 gennaio 1984 la forza dirompente delle parole di Fava si è amplificata, moltiplicata, permettendo la creazione della rete dei Siciliani Giovani che oggi coinvolge giovanissimi cronisti e associazioni antimafia che in Fava riconoscono un maestro. […] l’antimafia è bellezza, impegno sociale, amore per la propria terra e, soprattutto, è indipendenza dai poteri forti, è ribellione ai sistemi corrotti e compromessi della politica nazionale e locale".

Ester Castano, 23 anni, giornalista minacciata, aggredita, insultata, denigrata, bersagliata da diffide e querele pretestuose per le sue inchieste sulla presenza delle mafie al Nord, intervista rilasciata a "Stampo Antimafioso", pubblicata l'11 gennaio 2014.

Matteo Renzi

"[…] dovremmo assicurare vicinanza, sostegno, a chi […] ha fatto della parola uno strumento di libertà e di cambiamento: penso ai tanti giornalisti minacciati, spesso precari, troppo spesso lasciati completamente soli".

Matteo Renzi, 39 anni, Presidente del Consiglio italiano, lettera a Roberto Saviano pubblicata su "la Repubblica" il 2 marzo 2014.

Ester Castano

"Fare cronaca locale è difficile, il prezzo è insostenibile. Riesco a piazzare pochissimi articoli in giro e ho bisogno non tanto di uno stipendio fisso, ma almeno di poter andare in pareggio con le spese sostenute per cercare le notizie e scrivere. Non ho mai potuto vivere di giornalismo e quindi ora devo integrare. Un problema diffuso e generalizzato di un’intera classe di giornalisti precari. […] Ho mandato curriculum per qualsiasi lavoro, anche per fare la donna delle pulizie, perché credo che il lavoro è sempre dignità, purché venga pagato. Ma mi fa rabbia sapere di essere una risorsa, una che il lavoro lo sa fare, e che su di me investa un fast food, non il giornale X. Sembra una grande buffonata. […] Uscire, andare in giro a cercare le notizie richiede tempo e indipendenza economica. Si parla tanto di libera informazione. Ad essere liberi sono gli editorialisti dei grandi giornali, non chi prende dai 5 ai 30 euro a pezzo, perché chi lavora così si trova a dover fare delle scelte, a chiedersi se oggi si può permettere di prendere la macchina per raggiungere il tribunale e assistere a un’udienza, per andare a cercare una storia, delle fonti. […] Non tengo ai premi, so come funziona e quello che c’è dietro. Non voglio farmi bella dietro a questi riconoscimenti, non è per quello che so di essere una risorsa. Però così non riesco a vivere. […] Non abbandono il mio sogno, che poi ora non è più nemmeno tanto un sogno perché questo lavoro lo faccio tutti i giorni ormai. Ma è paradossale che l’unico disposto a investire su di me sia un fast food".

Ester Castano, 24 anni, giornalista minacciata, aggredita, insultata, denigrata, bersagliata da diffide e querele pretestuose per le sue inchieste sulla presenza delle mafie al Nord, intervista rilasciata a "Today", pubblicata il 22 settembre 2014.

Alberto Spampinato

"[...] essere giornalisti bravi e coraggiosi serve a trovare lavoro o è un impiccio?".

Alberto Spampinato, 65 anni, giornalista, commento intitolato "Se i bravi giornalisti lavorano al ristorante", pubblicato il 26 settembre 2014 su "OSSIGENO per l'informazione" (l'osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana e dall'Ordine dei Giornalisti).


Cara Ester, 
per quanto possa servire, sappi che io sono con te.
Forza, continua a coltivare la tua passione per il giornalismo, vai sempre avanti e non fermarti mai di fronte a niente e a nessuno!!!
Sei una sorgente rara e preziosa da cui gli assetati di verità, di legalità e di giustizia attingono acqua fresca per soddisfare la propria sete d'informazione e di consapevolezza, così spesso lasciata insoddisfatta.