L'art. 2103 del codice civile (così come sostituito dallo Statuto dei lavoratori) riconosce a chi lavora:
- il DIRITTO a svolgere le mansioni per cui si è stati assunti (o comunque equivalenti alle ultime svolte, senza alcuna diminuzione di stipendio);
- il DIRITTO a non venire allontanati da ogni mansione, a non essere lasciati senza attività, anche con una retribuzione invariata;
- il DIRITTO all'esecuzione del proprio lavoro, cui il datore ha l'obbligo di adibire i dipendenti.
Infatti il lavoro non rappresenta soltanto un mezzo di guadagno, ma anche uno strumento con cui ogni cittadino può estrinsecare la propria personalità.
Se l'imprenditore calpesta i suddetti diritti e svilisce i lavoratori, privandoli dei loro compiti e lasciandoli in una condizione di inattività forzata, non solo viola una norma di legge (il sopra citato art. 2103 c.c.), ma lede il diritto fondamentale al lavoro (principio fondamentale della Repubblica riconosciuto dall'art. 4 della Costituzione), l'immagine e la professionalità del lavoratore (inevitabilmente mortificate) e la dignità professionale dello stesso (intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità). Il datore di lavoro si rende dunque responsabile di un danno rilevante agli interessi personali di chi lavora; pertanto deve risarcire i lavoratori, a motivo dell'inadempimento di un suo preciso dovere.
Uniche eccezioni - ovvero casi in cui l'imprenditore può lasciare inattivo un dipendente o mutarne le mansioni - riguardano motivi legati all'esercizio dei poteri imprenditoriali sanciti dall'art. 41 della Costituzione, a legittimi poteri di sanzione disciplinare, a oggettive ragioni tecniche, organizzative e produttive, a fattori concreti estranei alla volontà imprenditoriale perchè dipendenti da una generale contrazione delle attività (cioè l'azienda è in crisi).
P.s. Quanto scritto in questo post non proviene dalle parole di un sindacalista della Fiom o di un comunista estremista, bensì da un'ordinanza della sezione civile della Suprema Corte di Cassazione (18 maggio 2012, n. 7963).
I vari Monti, Fornero, Passera, Marchionne, Bonanni, Angeletti lo sapranno di certo.
O no?
venerdì 25 maggio 2012
PERDERSI IN UN CATINO (CON ANNESSO BUCO NELL'ACQUA)
Vi ricordate l'editoriale firmato dal direttore di "Libero" Maurizio Belpietro intitolato "Su Gianfranco iniziano a girare strane voci",pubblicato sulla prima pagina del quotidiano il 27 dicembre 2010?
Breve riassunto delle puntate precedenti.
Tale Emanuele Catino, per dimostrare quanto fosse facile in Italia manipolare i mezzi di "informazione", aveva deciso di inventarsi di sana pianta un falso progetto di attentato ai danni del Presidente della Camera Gianfranco Fini, curato da persone vicine alla criminalità pugliese, in modo da far ricadere la colpa sull'ex alleato Berlusconi. A quale giornale aveva pensato di rivolgersi Catino per far pubblicare la burla e provare così l'insignificanza di una larghissima parte del "giornalismo" nostrano? Naturalmente a "Libero" e al suo direttore Maurizio Belpietro, a cui aveva spifferato le sue ipotesi fantasiose. Il "giornalista" non ci aveva pensato su troppo: aveva pubblicato la falsa notizia, senza aver prima compiuto alcun riscontro nè sulla veridicità della stessa, nè sull'attendibilità della fonte. Non solo, ma si era pure guardato bene dall'avvertire le autorità (giudiziarie o di pubblica sicurezza). Lui è fatto così: prende per oro colato tutto quello che uno sconosciuto signore gli va a comunicare, annuncia urbi et orbi il pericolo (inesistente) che alcuni boss pugliesi stiano per commettere un attentato terroristico o eversivo in danno di un'alta personalità istituzionale e suscita un serio allarme presso tre procure della Repubblica - Milano, Bari e Andria - le quali avevano iscritto procedimenti penali per accertare eventuali responsabilità sul progetto di attentato, disponendo diverse attività di indagine anche per prevenirne il pericolo.
Scoperta la bufala colossale rifilata a Belpietro e da questi pubblicata in prima pagina con grande risalto, la Procura di Milano aveva chiesto al Gip di emanare un decreto penale di condanna nei confronti del "giornalista" per "procurato allarme presso l'autorità". Tuttavia il giudice, rispondendo picche, aveva assolto il direttore perchè il fatto non costituiva reato (sentenza n. 5319/11 del 16 maggio 2011).
Secondo il Gip, infatti, Belpietro aveva agito in buona fede; era solo stato strumentalizzato e ingannato da un Catino qualsiasi. Addirittura, per il Gip milanese, Belpietro aveva verificato la fondatezza della notizia e controllato la fonte, prendendone nientemeno che generalità e recapito. Deve essere stata una scena del tipo: "caro signore, come ha detto che si chiama? Catino? Nome? Emanuele. Mi può dire dove abita, quanti anni ha e fornire un suo recapito telefonico? Grazie, le farò sapere". Ovviamente - sempre secondo il Gip - Belpietro, da grande giornalista quale notoriamente è, aveva ritenuto il racconto "astrattamente plausibile". Del resto, si chiede il giudice, quale altra verifica avrebbe potuto compiere un giornalista di spessore come Belpietro? Anche se nell'editoriale aveva prudentemente espresso dubbi sulla veridicità o meno della notizia (scrivendo di non essere in grado di stabilire se fosse fondata o inventata), non c'era alcun divieto di pubblicarla. Anzi: la pubblicazione rientrava nel pieno diritto di cronaca e di informazione costituzionalmente garantito. Ecco, la Costituzione può essere rispettata anche inventandosi balle assurde e clamorose. Per il Gip, dunque, nessuna colpa: il direttore era stato indotto in errore da un Catino, il quale - con l'inganno - lo aveva convinto a pubblicare una bufala colossale. Del resto, capita ai migliori segugi dell'"informazione"!
La Procura milanese, però, non si era rassegnata e aveva presentato ricorso in Cassazione.
Ora la prima sezione penale della Suprema Corte, depositando le motivazioni della sua decisione, non solo ha accolto le tesi dei Pm in quanto fondate, ma ha bollato la pronuncia assolutoria come "giuridicamente errata" e "del tutto illogica". Nella sentenza (22 maggio 2012, n. 19367), è stato sancito che Belpietro non era stato ingannato da nessuno proprio perchè si era pubblicamente interrogato sulla veridicità o meno di quanto appreso. Ciò sia all'inizio dell'editoriale ("Girano strane voci a proposito di Fini, non so se abbiano fondamento, se si tratti di invenzioni oppure, peggio, di trappole per trarci in inganno"), sia dopo aver riportato la falsa notizia ("Vero, falso? Non lo so. Chi mi ha spifferato il piano non pareva matto"). Dunque, Belpietro non era affatto convinto di pubblicare una notizia vera. Pertanto, ha commesso il reato di "procurato allarme presso l'autorità" per una colpa "del tutto evidente": un giornalista - prima di pubblicare una notizia - ha sempre l'obbligo professionale di accertarne la veridicità, tanto più se essa sia molto grave e idonea a suscitare allarme nell'opinione pubblica e nelle autorità preposte alla tutela dell'ordine pubblico. Se una notizia non è verificabile - soprattutto se palesemente allarmistica, come nel caso di specie - non deve essere pubblicata. Punto.
Annullando così il verdetto assolutorio del Gip (senza rinvio, per non obbligare il giudice a pronunciare una nuova sentenza), la Cassazione ha di fatto ordinato di condannare Belpietro per aver annunciato il pericolo inesistente di un attentato alla terza carica dello Stato, suscitando un grave allarme presso le autorità (rischia solo una multa compresa tra i 10 e i 516 euro).
Insomma, per dirla alla Belpietro: girano chiarissime sentenze a proposito del direttore di "Libero", di sicuro fondamento, visto che - essendo un pronunciamento emesso da un collegio giudicante - non si tratta nè di invenzioni, nè di trappole per trarci in inganno. La condanna di Belpietro è vera. I giudici che l'hanno sancita non sono matti, anche se la musa ispiratrice del nostro novello Sherlock Holmes usa definirli "doppiamente matti", "mentalmente disturbati", "affetti daturbe psichiche" e "antropologicamente diversi dal resto della razza umana".
mercoledì 16 maggio 2012
CONTRO GLI OMOFOBI
Su questo blog ho trattato più volte il tema dell'omofobia e delle discriminazioni che gay, lesbiche e transessuali sono ancora oggi costretti a subire in Italia e nel mondo (qui l'ultimo post in ordine di tempo).
Il 17 maggio è la Giornata Internazionale contro l'Omofobia e la Transfobia.
Per tale importante occasione, voglio citare un significativo epitaffio di un soldato del Vietnam:
"Quando ero un soldato, mi hanno dato una medaglia per aver ucciso due uomini. Quando ne ho amato uno, mi hanno congedato".
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domenica 13 maggio 2012
VIVA QUELLO SPROVVEDUTO DI FALCONE
(CON DOVUTO RISPETTO A PROVENZANO)!
Venerdì 11 maggio, intervistato da David Parenzo e Giuseppe Cruciani durante la trasmissione "La Zanzara" (trasmessa su Radio24, emittente del Sole24Ore, cioè di Confindustria), il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha dato il meglio di sè.
1)"Giovanni Falcone omise di affidare alle procure antimafia le competenze sui sequestri e sulle confische dei beni mafiosi (cosa non molto complicata). Ne ho parlato con il ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Angelino Alfano, il quale ha provveduto, emanando una legislazione che ha aiutato i magistrati a sottrarre i beni ai mafiosi. Non a caso, i sequestri sono notevolmente aumentati, pertanto al governo Berlusconi va un premio speciale per la lotta antimafia".
Certo, come no, a quale governo andrebbe riconosciuto un premio antimafia se non a quello dei vari Berlusconi, Schifani, Dell'Utri e Cosentino, del "Mangano eroe perchè sta zitto" e dell'illegalità legalizzata ad personam e ad aziendam? E' tutto da immaginare un Alfano intento a coprire i buchi normativi lasciati da quell'impiastro di Falcone, che - grazie alle sue omissioni - ha di fatto rallentato i sequestri e le confische dei beni mafiosi. Poi, fortunatamente, è arrivato quel nemico serrato di delinquenti - qual è Berlusconi -, il quale ha subito fatto aumentare le confische a perdita d'occhio. Suvvia, caro Falcone, non era poi così difficile!
Inoltre, anche Andreotti e i suoi sterminati amichetti (nel senso di innumerevoli, a parte Salvo Lima, che è stato proprio freddato per strada dagli ex amici Corleonesi per essere venuto meno - una sola volta - ai patti) hanno sempre sostenuto come un mantra di aver combattuto come non mai la mafia. Poi si sa come è finita: la Cassazione ha stabilito che il sette volte Presidente del Consiglio ha sicuramente commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa Nostra fino alla primavera del 1980 (per il periodo successivo, non sono state trovate prove sufficienti). Vuoi vedere che Grasso ha in realtà augurato a Berlusconi di finire come il divo Giulio?
Per di più, il procuratore nazionale antimafia dovrebbe sapere che il tanto lodato governo Berlusconi (della serie: meno male che Silvio c'è!), emanando il nuovo Codice antimafia - un decreto legislativo approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2011 - ha:
- fissato un limite massimo al tempo che può passare tra il sequestro e la confisca di un bene, pari a 2 anni e mezzo. Per come è (stata) ridotta la giustizia italiana, non serve un genio per capire che diventa impossibile sottrarre definitivamente i beni ai mafiosi in così breve tempo: basta che attendano 30 mesi e riavranno tutto indietro;
- reso possibile revocare le confische anche se il bene sia già stato assegnato (essendo, per esempio, diventato una caserma dei carabinieri o la sede di una cooperativa sociale). La confisca quindi non è più definitiva: basterà essere assolti dal reato di mafia (art. 416-bis c.p.) per chiedere allo Stato la restituzione dei propri ex beni. Peccato che gli imputati possano essere assolti (magari per insufficienza di prove), ma essere contemporaneamente dimostrato un loro inserimento - giudicato non penalmente rilevante - negli ambienti malavitosi, sempre utile per accumulare un cospicuo patrimonio;
- lasciato invariato l'art. 416-ter del codice penale (che punisce lo scambio elettorale politico-mafioso), mentre da anni i magistrati antimafia chiedono - inascoltati - di prevedere sanzioni non solo per "chi ottiene la promessa di voti in cambio dell'erogazione di denaro" (come recita il testo), ma anche "in cambio di altre utilità" (come gli appalti, le licenze, le assunzioni e qualsiasi altro tipo di favore). Lasciando inalterata la previsione normativa, si è voluta confermare l'inutilizzabilità dell'art. 416-ter, dal momento che i politici non pagano mai il voto mafioso con il proprio denaro, ma concedendo vantaggi una volta eletti.
Forse il procuratore Grasso non lo sa - o non se lo ricorda - ma la Corte dei Conti, con la delibera 23/2010/G (adottata nella seduta del 14 settembre 2010 e depositata esattamente un mese dopo), ha approvato una relazione dal titolo "Gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata" relativa agli anni 2008/2009. In tale documento i giudici contabili hanno scritto che il 52,6% dei beni confiscati alle mafie è rimasto inutilizzato per le procedure assai lente, visto che sono necessari tra i 7 e i 10 anni per arrivare alla confisca definitiva (altro che 2 anni e mezzo!). In più, le confische sono miseramente crollate: da un valore pari a 11,1 milioni di euro si è passati a "soli" 5,7 milioni (un calo del 48,6%). Ottimo lavoro, Silvio!
2) "Antonio Ingroia ha sbagliato a parlare dal palco di un partito. E' un magistrato che fa politica utilizzando la propria funzione istituzionale, deviando da essa. Visto che è tagliatissimo per la politica, scelga tra questa e la magistratura".
Non c'è che dire, Berlusconi & C. non avrebbero saputo esprimersi meglio.
Ricordo a Grasso che accusare - senza un minimo straccio di prova - un magistrato di esercitare le proprie funzioni giurisdizionali perchè mosso da intenti politici costituisce reato: diffamazione aggravata dall'aver offeso un rappresentante del Corpo giudiziario (art. 595, c. 4 c.p.). Così, se Ingroia decidesse di denunciare il procuratore nazionale antimafia (il reato è punibile solo su querela presentata dalla persona offesa), ci sarebbero ottime probabilità che Grasso venga condannato.
3) "Non dobbiamo perdere il contatto con l'umanità, non bisogna mai perdere di vista l'uomo che c'è comunque dietro qualsiasi criminale e delinquente. Anche Bernardo Provenzano ha una sua umanità da rispettare, ma solo come uomo, non come criminale".
Complimenti, neppure Stevenson (lo scrittore scozzese autore de "Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr Hyde") avrebbe saputo inscenare così bene la doppia personalità. Dunque, cari parenti delle vittime di mafia e cittadini onesti, sappiate che è giusto disprezzare l'umanità del Provenzano assassino, ma non vi venga in mente di comportarvi allo stesso modo anche con il Provenzano uomo, cittadino ed elettore! Quello va rispettato. Come un vero uomo d'onore.
mercoledì 9 maggio 2012
CARO PEPPINO, GRAZIE!
Caro Peppino,
sono già passati 34 anni da quella maledetta sera tra l'8 e il 9 maggio 1978 in cui alcuni scagnozzi assassini mandati dai vertici della famiglia mafiosa di Cinisi (Palermo) - il capo Gaetano Badalamenti e il fedelissimo Vito Palazzolo - ti prelevarono insieme alla tua Fiat 850, ti ridussero con violenza in stato di incoscienza (o, più verosimilmente, ti uccisero), ti trasportarono a bordo dell'auto sulla linea ferroviaria Palermo-Trapani all'altezza di una contrada di Cinisi, ti adagiarono sui binari e ti posizionarono sul bacino una carica di 5 chili di esplosivo, fatta infine deflagrare. Il tuo povero corpo fu martoriato e dilaniato, i tuoi numerosi frammenti anatomici si sparsero in ogni dove nel raggio di 300 metri. Il composto di nitroluene (un derivato del tritolo) utilizzato per l'esplosivo proveniva dalle cave di Badalamenti e del suo clan.
Non solo.
Dopo il truculento omicidio i mafiosi inscenarono un'attentato dinamitardo da te premeditato ed eseguito, facendoti passare per un terrorista al fine di ottenere il duplice scopo di allontanare il movente mafioso e di salvaguardare l'onore degli Impastato (tuo padre era un mafioso vicino a Badalamenti). Lo Stato italiano si è voluto bere questa messa in scena per tanti, troppi anni, fino a quando tra il 2001 e il 2002 la terza sezione penale della Corte di Assise di Palermo ha condannato - come ideatori e mandanti della tua morte - i boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo, il primo all'ergastolo e il secondo a 30 anni di carcere.
Attraverso la tua attiva militanza nei partiti della sinistra extra-parlamentare (Lotta Continua, Unione Comunisti Italiani Marxista-Leninista e Democrazia Proletaria), hai sempre manifestato apertamente le tue idee con tutti i mezzi a tua disposizione e con azioni anche eclatanti, ma non ricorrendo mai alla violenza. Sei sempre stato aperto al confronto, ma intransigente contro qualsiasi forma di sopraffazione e ingiustizia.
Per anni hai denunciato pubblicamente i crimini mafiosi e le relative collusioni politiche e amministrative, soprattutto con la Democrazia Cristiana.
Con entusiasmo e fervore, hai lottato per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla mafia, sulle speculazioni edilizie e sulla deturpazione del territorio.
Hai smascherato lo sfruttamento indiscriminato delle cave di mafia, attivate in concomitanza con l'inizio dei lavori dell'autostrada Palermo-Mazara del Vallo (con relativa, irrimediabile devastazione delle montagne); lo scempio delle spiagge causato dal cemento incontrollato, dalle lottizzazioni selvagge e dalle licenze edilizie rilasciate dal Comune di Cinisi; le miliardarie speculazioni edilizie sotto i ricatti e le minacce incrociate dei mafiosi e dei loro amichetti democristiani; le pazze spese inutili dell'amministrazione comunale in favore degli amici degli amici; la realizzazione imminente di un inceneritore per rifiuti.
Ti sei candidato alle elezioni comunali di Cinisi indette il 14 maggio 1978, ma ti hanno ucciso cinque giorni prima. Hai tenuto comizi in piazza, allestito mostre fotografiche, effettuato attività di volantinaggio, promosso riunioni con i tuoi compagni di vita e di partito. Proprio quell'8 maggio 1978 avevi preparato l'ultimo comizio della tua campagna elettorale che avresti dovuto tenere il giorno seguente.
Hai pubblicamente indicato - e senza mezzi termini - Gaetano Badalamenti per quello che tutti sapevano essere, ma che nessuno aveva il coraggio di dire: un potente boss trafficante di droga legato a molti imprenditori e politici.
Il tuo prediletto strumento di denuncia è stato indubbiamente la satira, utilizzata a piene mani parlando ai microfoni di Radio Aut - da te fondata - durante la trasmissione Onda Pazza. Hai avuto la geniale - e insopportabilmente irritante per i mafiosi e i loro complici - idea di utilizzare l'irriverente dileggio tipico del linguaggio satirico per mettere a nudo la personalità mafiosa, i suoi interessi e le sue connivenze politiche. Chiamavi il Municipio di Cinisi "il Maficipio di Mafiopoli" e Gaetano Badalamenti, il boss incontrastato di Cinisi, "Tano Seduto". Hai così tremendamente violato il muro di omertà e complicità che si respirava a Cinisi e in Sicilia, attraverso una tale irriverenza da poterti fermare solo chiudendoti la bocca per sempre. La mafia non poteva permettere che le tue denunce proseguissero ulteriormente, soprattutto se fossi stato eletto addirittura in consiglio comunale.
Caro Peppino, sei morto a soli 30 anni per aver incessantemente lottato, fino all'ultimo giorno, contro quella "montagna di merda" che è la mafia e i suoi uomini infiltrati nelle imprese, nelle istituzioni e nella società.
Ancora oggi, purtroppo, una larghissima parte di siciliani e italiani è addormentata di fronte ai rapporti intessuti dai vari Andreotti, Lombardo, Cuffaro, Crisafulli, Dell'Utri, Schifani,...
Ti prego, Peppino, aiutaci a seguire il tuo esempio, a considerare i mafiosi e i loro amici per quello che sono - una banda di schifosi assassini -, a vivere ogni giorno secondo i principi della democrazia e della legalità, a combattere in prima persona per svegliare le coscienze intorpidite di questo povero e triste Paese, che non solo non disprezza i mafiosi, ma li usa per promuovere reciproci sporchi interessi.
Ti prego, Peppino, aiutaci.
Nel frattempo, sperando che il tuo esempio possa un giorno far sì che sia la mafia a soccombere e non più chi la combatta, ti dico solo: grazie!
P.s. Caro Peppino, l'attuale parroco della parrocchia "Ecce Homo" di Cinisi, don Pietro D'Aleo, non ha voluto celebrare una messa in tuo ricordo sostenendo che "i tempi non sono maturi", mentre la presidente del Consiglio Parrocchiale di Azione Cattolica, Caterina Palazzolo, non ha avuto una minore faccia tosta nell'affermare che "con la veglia di preghiera ["per la legalità e la giustizia sociale", officiata ieri sera da don Ciotti, N.d.A.] abbiamo cercato una soluzione nel segno del dialogo. La messa sarebbe stata vista male soprattutto all'interno del mondo comunista, più che dentro la Chiesa".
Lo so, caro Peppino, è mortificante e avvilente dover appurare ancora oggi la presenza di chi pensa vi siano tempi più o meno maturi per ricordare le vittime di mafia o che - per farlo - sia necessario scendere a compromessi non si sa bene con chi (o forse si sa benissimo e tu lo hai ben chiaro più di chiunque altro).
Aiutaci, caro Peppino, il tuo sostegno è sempre più indispensabile.
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domenica 6 maggio 2012
MA DAVVERO E' POSSIBILE CHE
IN OGNI ANGOLO DI MONDO NON CI SIANO UOMINI DISPOSTI A LOTTARE...? ...A LOTTARE! ALTRIMENTI A CHE SERVE ESSERE VIVO...?
Il titolo di questo post è un pensiero del giornalista e scrittore siciliano Giuseppe Fava, ucciso da Cosa Nostra (clan di Nitto Santapaola) a Catania il 5 gennaio 1984, all'età di 58 anni.
La significativa e profonda domanda - che dovrebbe smuovere le coscienze di tutte le persone oneste e perbene - è contenuta nell'opera teatrale Foemina ridens, inscenata per la prima volta al Teatro Piscator di Catania lunedì 9 marzo 1981, ma pubblicata dalla casa editrice catanese Tringale solo dopo l'assassinio dell'autore - nel 1988 - nel secondo dei quattro volumi di raccolta dell'intera produzione teatrale di Fava (dal titolo Teatro).
Il suddetto interrogativo - riformulato nel più breve "A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?" - costituisce anche l'epigrafe incisa sulla tomba di Pippo Fava nel cimitero di Palazzolo Acreide (provincia di Siracusa), paese dov'era nato il 15 settembre 1925.
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giovedì 3 maggio 2012
ESTORSIONI MAFIOSE
Con la sentenza 27 aprile 2012 n. 16045, la II sezione penale della Cassazione - presieduta dal giudice Piercamillo Davigo - si è occupata di una presunta estorsione mafiosa. Il protagonista è indagato dalla Procura di Palermo per associazione mafiosa (quale membro di Cosa Nostra si sarebbe occupato soprattutto di estorsioni e supporto logistico per la latitanza dei boss) ed estorsione continuata. In base a questa seconda contestazione, l'uomo avrebbe costretto il titolare di un ristorante a usargli trattamenti di favore in occasione di banchetti e cerimonie e ad assumere la propria moglie come "hostess", nonostante non possedesse minimamente i requisiti necessari. Secondo il collegio giudicante presieduto dall'ex pm di Mani Pulite, l'indagato poteva contare solo sulla propria caratura criminale per ottenere i favori più volte chiesti e ottenuti, ai quali la vittima aveva acconsentito suo malgrado e per quieto vivere, avendo ben presente gli inquietanti legami personali del richiedente in ambienti mafiosi.
Il conclusivo principio di diritto ribadito ancora una volta dalla Suprema Corte è stato che può esserci estorsione anche nei casi in cui le minacce assumano toni apparentemente concilianti e non violenti, purchè in grado di incutere timore nella vittima in relazione alle circostanze del caso concreto e alla personalità di chi agisca.
martedì 1 maggio 2012
BOSSI DISPREZZA LA PADANIA
So benissimo quanto debbano essere difficili gli ultimi tempi per il pregiudicato neo presidente della Lega Nord Umberto Bossi (8 mesi di carcere per finanziamento illecito ai partiti - ovviamente mai scontati - per una tangente di 200 milioni di lire ricevuta e incassata nel marzo 1992 dal gruppo Ferruzzi-Montedison), ma forse i suoi elettori non conoscono quanto sia profondo il disprezzo che il loro leader maximo nutre nei confronti della Padania e del suo vessillo.
Nel 2001 il giudice monocratico del Tribunale di Como - Sezione distaccata di Cantù ha condannato a 1 anno e 4 mesi di carcere il fondatore della Lega Nord per vilipendio alla bandiera nazionale (art. 292 c.p.), poichè il 25 luglio 1997 - durante la serata conclusiva della festa di partito presso un parco pubblico di Cabiate (nel comasco) - aveva iniziato il proprio comizio dicendo:
"Quando vedo il Tricolore, io m'incazzo. Il Tricolore lo uso soltanto per pulirmi il culo".
Quello che i militanti leghisti ignorano è che una delle tesi difensive di Bossi adottata di fronte al giudice è stata la seguente: l'imputato non si riferiva alla bandiera italiana, ma al tricolore padano esposto alla festa. Il giudice - probabilmente trattenendo le incontenibili risate - ha chiaramente bollato come del tutto infondata e illogica tale ricostruzione, dato che non è chiaro il motivo per cui Bossi avrebbe dovuto denigrare e offendere la bandiera del proprio partito.
Ora, capisco che la coerenza degli elettori leghisti preveda di inveire quotidianamente contro Roma ladrona per poi invocare come unico capo assoluto un condannato per tangenti (incassate dal segretario amministrativo della Lega Nord - Alessandro Patelli - al Bar Doney di Roma), ma forse sapere che quello stesso padre-padrone, per evitare un'altra condanna in sede penale, abbia sostenuto di aver voluto oltraggiare la bandiera leghista, sarebbe forse troppo anche per loro. Meglio non lo vengano a sapere...