UNA "REPUBBLICA" RIDOTTA AL LUMICINO
In un suo sciagurato editoriale ("Perchè attaccano il Capo dello Stato") pubblicato stamane da "la Repubblica" - quotidiano da lui stesso fondato - Eugenio Scalfari ha dato il meglio di sè:
- "i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta finora hanno dato assai magri risultati, tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato 8 anni di carcere duro".
Ora, a parte la clamorosa falsità dell'assunto scalfariano, va notata la sua sconcertante sovrapponibilità con quanto (tra gli altri) Silvio Berlusconi, il pregiudicato Marcello Dell'Utri e i loro sodali - noti difensori della legalità e dell'antimafia - vanno ripetendo da anni. Chissà se Scalfari considera gli esiti dei procedimenti penali intentati dai Pm palermitani a personaggi come Giulio Andreotti (riconosciuto definitivamente mafioso fino alla primavera del 1980) e Marcello Dell'Utri (riconosciuto definitivamente concorrente esterno alla mafia) un "magro risultato". E chissà se la manovalanza mafiosa siciliana è del suo stesso avviso, dato che costei vorrebbe morti proprio i magistrati inquirenti più esposti nelle indagini antimafia degli ultimi vent'anni.
Per quanto riguarda, invece, la condanna di un innocente per la strage di via D'Amelio (trattasi del falso pentito Vincenzo Scarantino), sono state proprio le indagini degli ultimi anni svolte dai Pm di Caltanissetta e dal Procuratore generale Roberto Scarpinato ad aver appurato l'errore giudiziario commesso in passato. Motivo per cui il 27 ottobre 2011 la Corte d'Appello di Catania ha sospeso l'esecutività delle pene definitivamente sancite nei confronti di 8 ergastolani (provocando la scarcerazione di 6 di loro), il tutto in attesa del nuovo processo sull'uccisione di Paolo Borsellino, che sarà celebrato grazie a quei "magri risultati" ottenuti finora dalla Procura di Caltanissetta;
- "quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi".
Ecco, ora la trattativa non è più "presunta" o "supposta" - come ripetono in molti, nonostante la sua esistenza sia sancita da diverse sentenze, alcune definitive - ma "inevitabile". E dire che Paolo Borsellino fu eliminato (quasi) sicuramente perchè si oppose con tutto se stesso a quello che - a differenza di Scalfari - riteneva uno scempio: trattare con gli assassini di Giovanni Falcone, invece di catturarli, processarli e condannarli. Sprovveduto di un Borsellino;
- "quand'è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel '92-'93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi".
- "i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta finora hanno dato assai magri risultati, tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato 8 anni di carcere duro".
Ora, a parte la clamorosa falsità dell'assunto scalfariano, va notata la sua sconcertante sovrapponibilità con quanto (tra gli altri) Silvio Berlusconi, il pregiudicato Marcello Dell'Utri e i loro sodali - noti difensori della legalità e dell'antimafia - vanno ripetendo da anni. Chissà se Scalfari considera gli esiti dei procedimenti penali intentati dai Pm palermitani a personaggi come Giulio Andreotti (riconosciuto definitivamente mafioso fino alla primavera del 1980) e Marcello Dell'Utri (riconosciuto definitivamente concorrente esterno alla mafia) un "magro risultato". E chissà se la manovalanza mafiosa siciliana è del suo stesso avviso, dato che costei vorrebbe morti proprio i magistrati inquirenti più esposti nelle indagini antimafia degli ultimi vent'anni.
Per quanto riguarda, invece, la condanna di un innocente per la strage di via D'Amelio (trattasi del falso pentito Vincenzo Scarantino), sono state proprio le indagini degli ultimi anni svolte dai Pm di Caltanissetta e dal Procuratore generale Roberto Scarpinato ad aver appurato l'errore giudiziario commesso in passato. Motivo per cui il 27 ottobre 2011 la Corte d'Appello di Catania ha sospeso l'esecutività delle pene definitivamente sancite nei confronti di 8 ergastolani (provocando la scarcerazione di 6 di loro), il tutto in attesa del nuovo processo sull'uccisione di Paolo Borsellino, che sarà celebrato grazie a quei "magri risultati" ottenuti finora dalla Procura di Caltanissetta;
- "quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi".
Ecco, ora la trattativa non è più "presunta" o "supposta" - come ripetono in molti, nonostante la sua esistenza sia sancita da diverse sentenze, alcune definitive - ma "inevitabile". E dire che Paolo Borsellino fu eliminato (quasi) sicuramente perchè si oppose con tutto se stesso a quello che - a differenza di Scalfari - riteneva uno scempio: trattare con gli assassini di Giovanni Falcone, invece di catturarli, processarli e condannarli. Sprovveduto di un Borsellino;
- "quand'è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel '92-'93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi".
Forse Scalfari ignora (o non ricorda e allora l'unica cosa ridotta al lumicino sarebbe la sua memoria) che il 30 gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato pesantissime condanne a importanti boss mafiosi e annullato con rinvio numerose assoluzioni nell'ambito del maxiprocesso istruito a Palermo a metà degli anni '80 dai giudici Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli. Per la prima volta nella sua storia secolare, la mafia siciliana veniva condannata definitivamente a un numero enorme di ergastoli. Per i mafiosi - abituati all'impunità o a pochi anni di carcere - dovette sembrare l'inizio della fine. Come avrebbe potuto e dovuto essere, se lo Stato avesse marciato compatto per imporre un colpo finale alla sopravvivenza della mafia, invece di sedersi a trattare (anche - e forse soprattutto - per salvare la pelle dei politici che, dimentichi delle promesse fatte agli amichetti mafiosi, non avevano saputo impedire il verdetto della Cassazione).
Inoltre Scalfari ignora (o non ricorda e allora il lumicino della sua memoria si starebbe sempre più affievolendo) che i Corleonesi non "presero il sopravvento sul clan di Badalamenti" nel '92/'93, bensì dieci anni prima, grazie allo scatenamento della seconda guerra di mafia (iniziata il 23 aprile 1981 con l'omicidio del boss Stefano Bontate - capo della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù - e terminata il 30 novembre 1982 con gli assassinii dei boss Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione e Salvatore Micalizzi). In un solo anno e mezzo i fedelissimi di Totò Riina e Bernardo Provenzano lasciarono sulle strade di Palermo centinaia e centinaia di cadaveri per impadronirsi dell'intera Cosa Nostra, pur essendo già maggioritari all'interno del suo organo di vertice (la Commissione provinciale di Palermo) fin dalla fine degli anni '70;
- "Falcone andò in Usa per interrogare Buscetta lì detenuto. Dopo l'interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle sue domande e altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino".
Allora è proprio un vizio. Scalfari ignora (o continua a non ricordare e allora il lumicino della sua memoria si sarebbe definitivamente consumato) che non solo il boss pentito Tommaso Buscetta si addentrò – con timore e prudenza – nel terreno dei rapporti tra mafia e politica, ma che se lo fece - contro le proprie ferme intenzioni iniziali - fu proprio grazie a Giovanni Falcone. Infatti il giudice - dopo aver scoperto, grazie al certosino lavoro di riscontro alle parole del pentito, che Buscetta conosceva benissimo i cugini Nino e Ignazio Salvo (facoltosi esattori delle imposte, proprietari di un impero economico miliardario, "uomini d'onore" della famiglia mafiosa di Salemi e anello di congiunzione tra i boss e la politica, soprattutto andreottiana) - iniziò a incalzare Buscetta in quella direzione, arrivando a fare la voce grossa nell'invitarlo a parlare di tutto ciò che sapesse, politica compresa, per evitare l'accusa di essere un pentito "a orologeria", manovrato per colpire alcuni e lasciare in pace altri. Buscetta cedette quando Falcone minacciò di concludere gli interrogatori, di cestinare migliaia di pagine già scritte e di abbandonare il pentito al suo destino. Sia Falcone, sia Buscetta raccontarono poi questo loro "scontro" con versioni assolutamente coincidenti. Quest'ultimo rivelò:
"A Falcone chiesi scusa di non aver detto tutto, e principalmente della politica. Io di politica non volevo parlare per nessuna ragione. Quando Falcone si avvicinava ai Salvo, dovevo parlare di politica. Cercai di sottrarmi persino di fronte alle intercettazioni delle telefonate che provavano che ero stato ospite a casa loro. Allora fui costretto a parlare, limitandomi però a raccontare il lato mafioso della vicenda. Alla fine Falcone mi costrinse a parlare dei miei contatti personali. A quel punto, non avendo scelta, risposi alle sue domande. Quando vennero gli anni dei "veleni", l’atteggiamento delle istituzioni sul pentitismo mi frenò definitivamente. Oltre questo punto, mi dissi, non andrò. Questo perché le contraddizioni che vidi non mi offrivano più quelle garanzie che credevo di aver trovato con Falcone e il suo pool. Falcone venne 2 o 3 volte negli Stati Uniti per parlare di Cosa Nostra, ma anche dei politici, anche se io a quell’epoca mi sono sempre negato".
In tale ottica, per esempio, si inserirono le richieste di informazioni mosse da Falcone nei confronti di Giulio Andreotti: il boss gli rispose che non era ancora il momento.
In tale ottica, per esempio, si inserirono le richieste di informazioni mosse da Falcone nei confronti di Giulio Andreotti: il boss gli rispose che non era ancora il momento.
Ora, c'è una sola conclusione da trarre: il fondatore de "la Repubblica", Eugenio Scalfari, non sa quello che scrive. Oppure lo sa, ma fa finta di non saperlo.
Bel pezzo. Non ti conosco ma in un altro paese avresti scritto tu un editoriale e scalfari avrebbe dato il mais ai piccioni
RispondiEliminaLa ringrazio molto per il complimento!
EliminaBravo lo hai smascherato.
RispondiEliminaTrattiamo lo stesso tema centrale. Guardati il mio blog: ugo.digirolamo.blogspot.com vi troverai una tesi sul perché le mafie continuano a riprodursi che può spiegare perché i politici di sinistra sono colpevoli quanto quelli di destra.
Ho letto i suoi ultimi 5 post (quelli del 2012) e Le confesso di averli giudicati molto interessanti, sia per le informazioni ivi contenute, sia per la puntualità delle analisi presentate.
EliminaPertanto, ringraziandoLa per la segnalazione, intendo rivolgerLe i miei complimenti per la sua duplice opera meritoria di studio del fenomeno politico-corruttivo-mafioso e di esposizione di proposte semplici e chiare per una più incisiva lotta antimafia.
P.S. Se i lettori di questa pagina fossero interessati, segnalo che l'indirizzo corretto del blog di Ugo Di Girolamo è mafiepolitica.blogspot.it