ITALIA INFORTUNATA
(SUL LAVORO E NEL DIRITTO)
La storia che segue riguarda una ditta lombarda, la Ranger s.p.a., fondata a Carate Brianza nel 1969 da Alberto Rossini (classe 1936, brianzolo doc, proprietario di una villa a Briosco con un immenso giardino pieno di sculture di arte contemporanea, tra cui opere di Lucio Fontana e Pietro Cascella).
L'azienda produceva stampi per materiale plastico, impiegava 500 dipendenti divisi in 3 stabilimenti italiani (Carate Brianza, Albiate e Piacenza) ed era gestita da un consiglio di amministrazione composto dallo stesso Alberto Rossini e dai suoi figli, Matteo e Marco, tutti con pari poteri decisionali.
Proprio uno dei due figli si è reso protagonista di una vicenda che ha tristemente coinvolto B.F., operaio. B.F. lavorava dal 1995 nello stabilimento di Albiate come operaio specializzato con mansioni di manutentore meccanico. Era uno dei 200 operai che lavoravano in quella fabbrica e uno dei 4 del reparto manutenzione.
Tutto si svolge in un ordinario pomeriggio di lavoro.
E' giovedì 13 settembre 2007. Sono circa le 16.00. Inizia il turno lavorativo.
Insieme a un collega (H.K.), B.F. riceve l’incarico di trasportare fuori dallo stabilimento di Albiate un cilindro d'acciaio che si è rotto e va riparato.
Il cilindro è lungo 3 metri, pesa 700 Kg e ha un diametro di 30 cm.
Deve essere caricato su un camion che – come tutti i furgoni - non può entrare nel cortile della ditta e deve attendere fuori dal cancello d'ingresso.
Il cilindro non può essere spostato con il carroponte, poichè quest'ultimo si trova all'interno del capannone e non consente la movimentazione di carichi sino al camion.
Allora B.F. e H.K. agganciano il cilindro con una cinghia alle forche di un carrello elevatore, poi H.K. si mette alla guida, mentre B.F. rimane a piedi.
I due sono costretti a sollevare le forche, poiché lungo il percorso si trovano diversi ostacoli. Così mettono in moto il carrello elevatore con le forche sollevate, in modo che il cilindro rimanga appeso.
Percorrono una decina di metri, lo spazio che li separa dal cancello di ingresso, ove il camion attende il pesante carico.
Giunti al cancello, il carrello elevatore - nell'oltrepassare la guida metallica, leggermente in rilievo - sobbalza: d'altra parte le sue ruote rigide sono di plastica e non gommate, altrimenti assorbirebbero meglio gli urti.
Il cilindro appeso oscilla, provocando lo scivolamento della cinghia dalle forche (sempre sporche di olio e di grasso), lo sfilamento e la caduta a terra del cilindro, il quale si riversa sul piede sinistro di B.F., schiacciandoglielo.
B.F. viene prima portato al pronto soccorso dell'ospedale di Carate Brianza e poi (d'urgenza) all'Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, dove viene ricoverato e sottoposto all'amputazione delle dita del piede. Il trauma subìto da schiacciamento del piede sinistro aveva comportato molteplici fratture del tarso e del metatarso, che avevano cagionato la necrosi dei tessuti del secondo e terzo dito del piede sinistro e determinato la necessità della loro amputazione.
Dimesso dopo un mese, si deve sottoporre a medicazioni periodiche, cure farmacologiche, terapia riabilitativa e all'applicazione di una protesi in silicone, con una durata della malattia di circa 7 mesi.
Senza contare le notevoli ripercussioni psicologiche. Per quelle fisiche, l'Inail riconosce al povero B.F. un'invalidità permanente complessiva dell'8%.
La storia qui raccontata ha avuto anche un risvolto processuale.
Infatti il 21 febbraio 2012 il Tribunale penale di Monza (in composizione monocratica, nella persona del giudice Giuseppina Barbara) ha condannato l'unico imputato - uno dei figli di Alberto Rossini - per il reato di lesioni personali colpose.
Essendo, all'epoca dei fatti, consigliere di amministrazione della Ranger s.p.a. con delega alla sicurezza e alle attività produttive (con specifica responsabilità sullo stabilimento di Albiate), su di lui incombeva l'obbligo di fornire ai propri dipendenti attrezzature sicure e idonee allo svolgimento delle mansioni loro assegnate (come la movimentazione dei carichi).
E' stato lui - secondo quanto ha scritto il giudice nelle motivazioni della sentenza, depositate il 14 maggio 2012 - ad aver colpevolmente cagionato a B.F. le gravi lesioni riportate.
La colpa è dovuta proprio al non aver fornito mezzi e attrezzature adeguate al lavoro da svolgere, non avendo in tal modo assicurato la stabilità del carico, con l'aggravante di aver violato le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Secondo il Tribunale di Monza, il sistema adottato da B.F. e dal collega per la movimentazione dei carichi era insicuro e contrario a qualsiasi norma di sicurezza, per cui è assolutamente vietato agganciare in modo instabile oggetti alle forche del carrello elevatore e, soprattutto, movimentare carichi - tanto più di notevoli dimensioni -sospesi alle forche.
Tuttavia, nonostante si tratti di un’operazione estremamente pericolosa, nello stabilimento di Albiate della Ranger s.p.a. essa costituiva la prassi usuale per il trasporto di quei carichi. Per di più, B.F. era certamente un operaio esperto, dato che non solo rende ancora più evidente la
responsabilità del datore di lavoro, ma dimostra l'abitualità della rischiosa procedura seguita per trasportare all'esterno i carichi
pesanti. D'altra parte, gli operai non avevano altro modo di eseguire le mansioni loro affidate, se non utilizzando il carrello elevatore e agganciando in modo precario alle sue forche gli oggetti pesanti (come i cilindri metallici).
E dire che i lavoratori avevano evidenziato il problema alla proprietà, sollecitandone una soluzione, ma la famiglia Rossini non ha mai voluto acquistare l'attrezzo che avrebbe reso sicura quell'operazione, se non dopo l'infortunio occorso a B.F. e in seguito alle prescrizioni dell'ASL: un semplice braccio munito di gancio, da inserire nelle forche del carrello elevatore e al quale agganciare il materiale di un certo peso.
E dire, inoltre, che il costo di tale strumento si aggirava intorno ai 2.500 euro, prezzo così limitato da poter sicuramente rappresentare un acquisto compatibile con gli stanziamenti aziendali annuali in materia
di sicurezza. Peccato che nel biennio 2006-2007, a causa dell'inizio della crisi finanziaria
dell'azienda (che avrebbe poi condotto alla sua dismissione da parte della famiglia Rossini), la società prestava molta, troppa attenzione alle spese.
Insomma, la famiglia Rossini aveva deciso di soprassedere all'acquisto di quell'attrezzatura non ritenuta assolutamente necessaria, visto che sarebbe servita "solo" per operazioni di
manutenzione non quotidiane.
Purtroppo però la legge in materia di prevenzione infortuni:
- impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alla normativa
vigente, idonee ai fini della salute e della sicurezza e adeguate al lavoro da
svolgere;
- sancisce che i mezzi di sollevamento e trasporto debbano essere scelti in modo da risultare appropriati
alla natura, alla forma e al volume dei carichi, nonché alle condizioni di
impiego, e che gli accessori di sollevamento debbano essere scelti in funzione dei
carichi da movimentare.
E', pertanto, indubbio che Rossini junior abbia violato i propri doveri impostigli dalla legge, omettendo di fornire agli operai un'attrezzatura
adeguata al lavoro di movimentazione di carichi pesanti e ingombranti, che permettesse loro di eseguire l'operazione in modo sicuro.
Ecco perchè - secondo il Tribunale brianzolo - l’imputato è colpevole e va condannato.
Ma qui viene il bello (si fa per dire).
Secondo l'art. 590 del codice penale italiano, la pena massima per il reato commesso dal giovane Rosmini (gravi lesioni personali colpose in violazione delle norme antinfortunistiche) è pari a 1 anno di carcere o a 2.000 euro di multa.
Pena ridicola.
Se però si aggiunge la concessione di alcune attenuanti - che vengano giudicate equivalenti alle aggravanti della gravità delle lesioni e dell'aver violato le norme preventive degli infortuni sul lavoro - la pena massima possibile si riduce a 3 mesi di galera o a 309 euro di multa.
Proprio quanto stabilito dal giudice di Monza.
Poichè la vittima del grave infortunio era stata risarcita del danno patito prima dell'inizio del dibattimento (tanto da essersi ritirata come parte civile), al condannato va concessa l'apposita attenuante prevista dall'art. 62 n. 6 del codice penale. Inoltre, gli vanno riconosciute anche le attenuanti generiche (previste dall'art. 62-bis del codice penale), in considerazione:
- delle sue
condizioni di vita (è un giovane imprenditore socialmente inserito);
- del suo
comportamento processuale (ha costantemente partecipato alle udienze ed ha
fornito il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti, sottoponendosi
all'esame);
- della condotta
successiva al fatto (ha ottemperato alle prescrizioni dell'ASL);
- dell'assenza di
precedenti penali e di polizia.
Aggravanti e attenuanti si annullano a vicenda, per cui la condanna finale di Rossini junior è il pagamento di una multa di 300 euro.
Riassumendo. Un giovane datore di lavoro (trentenne all'epoca dei fatti), incensurato e ben inserito nella società, riceve un enorme sconto di pena (da un massimo di 1 anno di carcere o 2.000 euro di multa - pena già ridicola di per sè - a un massimo di 3 mesi di carcere o 309 euro di multa) solo per aver risarcito i danni alla vittima, aver preso parte al processo rispondendo alle domande e aver finalmente acquistato un attrezzo che possa evitare in futuro il ripetersi di tragedie analoghe a quella da lui stesso causata.
Il tutto a norma di legge.
Può allora considerarsi civile uno Stato dove l'imprenditore responsabile di aver arrecato gravi lesioni fisiche e psicologiche a un lavoratore - che solo per una notevole dose di fortuna non si sono tradotte in qualcosa di peggiore, fino alla morte - se la cavi con una multa di 300 euro?
Non solo.
Per il reato contestato a Rossini junior la prescrizione scatta dopo 7 anni e mezzo dalla data dell'incidente (13 settembre 2007); pertanto il processo morirà il 13 marzo 2015, tra soli 2 anni e mezzo, lasso di tempo entro cui devono essere celebrati almeno altri due gradi di giudizio. E' sufficiente la presentazione di ricorsi da parte dell'imputato (anche infondati e immotivati) per rendere sussistente il rischio che costui non paghi nemmeno i 300 euro di multa cui è stato condannato in primo grado.
Mi permetto allora di suggerire al governo - nella persona del ministro della Giustizia Paola Severino - e al Parlamento di approvare un decreto-legge (sussistono pienamente sia la necessità, sia l'urgenza richieste dall'art. 77 della Costituzione, data la spaventosa quotidianità con cui episodi come quello qui raccontato accadono in Italia) che, in merito ai reati legati alla violazione delle leggi antinfortunistiche sul lavoro:
1) innalzi decisamente le sanzioni (sia detentive, sia pecuniarie) previste dal codice penale;
2) impedisca l'equivalenza delle attenuanti e delle aggravanti, rendendo sempre le seconde prevalenti sulle prime;
3) non preveda la prescrizione.
Sono tre semplici innovazioni che - introducendo pene certe e severe, anche da un punto di vista economico - concorrerebbero a rendere più conveniente investire in sicurezza per molti, troppi (im)prenditori nostrani.
Inoltre, simili norme possono essere varate in un batter d'occhio.
Basta volerle.
Le difficoltà stanno tutte qui.
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