lunedì 24 settembre 2012

DON PEDOFILO

Il sacerdote ritratto in fotografia è un pedofilo.
Si chiama don Luciano Massaferro, è nato a Savona nel gennaio del 1965 e fino a tre anni fa esercitava il proprio ministero in qualità di parroco della chiesa di San Vincenzo Ferreri ad Alassio (della sua storia mi sono già brevemente occupato nel febbraio scorso).
Ora, dopo essere stato ritenuto colpevole da tutti i magistrati – di ogni ordine e grado – occupatisi di lui, l’ulteriore conferma (definitiva) è arrivata anche dalla Cassazione.
Il 20 luglio 2012, infatti, la III sezione penale della Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Genova (che a sua volta aveva confermato il verdetto di 1° grado del Tribunale di Savona), ritenendo il sacerdote colpevole del reato di atti sessuali continuati con minore di anni 14 commessi da persona cui il minore è affidato, con abuso dei poteri e in violazione dei doveri sacerdotali e condannandolo a:

- 7 anni e 8 mesi di reclusione;
- interdizione perpetua dai pubblici uffici;
- interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente la tutela e la curatela;
- interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, da ogni ufficio e servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori;
- interdizione legale durante l'esecuzione della pena;
- risarcimento dei danni cagionati alle parti civili (180.000 euro alla piccola vittima e 10.000 euro alla madre); 
- rifusione a favore delle parti civili delle spese legali sostenute;
- pagamento delle spese processuali;
- pagamento delle spese di mantenimento in carcere.

Per questo don Luciano è stato portato al carcere di Chiavari, per poi essere trasferito in quello di La Spezia, dove si trova tuttora.
Almeno per il momento.
Già, perché dopo il suo arresto – avvenuto il 29 dicembre 2009 in esecuzione di un’ordinanza di custodia in carcere richiesta dal Pm Alessandra Coccoli e firmata dal Gip di Savona Emilio Fois - il parroco ligure ha prima trascorso 9 mesi in galera, poi 1 anno e 10 mesi agli arresti domiciliari fino al 20 luglio scorso, quando - a condanna definitiva - è tornato in carcere. Qui rimarrà circa 10 mesi, poi verosimilmente andrà in affidamento ai servizi sociali e nuovamente agli arresti domiciliari.
Il calcolo è presto fatto.
Avendo già scontato – tra carcere e domiciliari - 2 anni e 7 mesi, rimangono 5 anni e 1 mese, a cui però vanno tolti 3 anni di affidamento ai servizi sociali e 1 anno agli arresti domiciliari. Resta 1 anno e 1 mese, al quale devono essere sottratti ulteriori 3 mesi per aver partecipato “all'opera di rieducazione”, ovvero per non aver creato problemi e aver fatto il bravo detenuto. 
Ma come si è arrivati a una simile condanna?
Per scoprirlo, basta leggere le motivazioni della sentenza emessa il 18 novembre 2011 dalla Prima Sezione Penale della Corte d’Appello di Genova, resa definitiva dalla Cassazione.

I fatti si svolgono ad Alassio nel maggio 2009.
Approfittando dell'autorità conferitagli dal ruolo di parroco, don Luciano Massaferro costringe in più occasioni una bambina non ancora dodicenne (manca poco più di un mese al compimento dei 12 anni), affidata alle sue cure in quanto abituale frequentatrice dell'oratorio e chierichetta della parrocchia, a compiere e subire atti sessuali.
Gli abusi si svolgono in tre momenti diversi dello stesso pomeriggio:

1) dopo aver convinto la piccola ad accompagnarlo (come chierichetta) durante il giro di benedizioni delle case prima di Pasqua, mentre si trova con lei in sella al ciclomotore utilizzato per spostarsi da una casa all'altra, la informa di essere nudo sotto la tonaca, inducendola ad afferrargli e stringergli il pene, dicendole che più forte avesse stretto più veloce sarebbe andato il ciclomotore;

2) ultimate le benedizioni, invita la bambina a seguirlo nel capanno degli attrezzi presso il suo orto e - una volta all'interno e chiusa la porta - si sfila la tonaca rimanendo nudo, costringendo la ragazzina a masturbarlo. Le prende la mano, la porta sul proprio pene, le mostra il gesto e le dice: "tocca, tanto non puzza", quindi tocca la piccola nelle parti intime, sotto le mutandine e sotto la maglietta;

3) dopo aver lasciato l'orto, accompagna la giovane vittima presso la propria abitazione (la canonica) attigua alla chiesa. All'interno della biblioteca la palpeggia nuovamente sul seno e nelle parti intime, facendole giurare di non raccontare quanto successo, avvertendola che - altrimenti - Dio l'avrebbe punita e lui avrebbe detto a tutti di averla vista nuda.

La bambina comprende subito che se dovesse parlare, sarebbe obbligata ad affrontare la vergogna e il peso del sospetto di aver mentito. Così decide di non fare parola con nessuno delle reiterate violenze subite dal sacerdote.
Per ben 2 mesi si tiene dentro tutto: ansie, timori, vergogne e sofferenze.
Fino a luglio, quando racconta tutto ad alcune bambine di 9/10 anni (dunque più piccole di lei), mentre insieme attendono gli educatori su una panchina alla fine di una giornata di vacanza al campo estivo di Alassio. Le giovanissime interlocutrici sospettano della serietà del racconto: sono troppo affezionate a don Luciano per credere a un racconto così raccapricciante. Tuttavia, nessuna di loro dice nulla ai propri familiari, rispettando la raccomandazione dell'amica, la quale ha paura di essere esclusa dal ruolo di chierichetta (a cui tiene molto) e teme che il parroco metta in atto la minaccia di rivelare a tutti di averla vista nuda.
In ogni caso, la rivelazione della sua storia agli adulti non tarda ad arrivare, anche se in via incidentale.
Il 13 agosto 2009 la madre la rimprovera per la condotta di cui si sono lamentati gli educatori del campo estivo. A quel punto, solo a quel punto, la dodicenne reagisce, avvertendo l'ingiustizia che sta vivendo, proprio lei che è stata vittima di colui che tutti stimano.
Così rivela di aver subito abusi sessuali dal parroco, prima alla madre, poi agli altri familiari.
Da quel momento non ha più esitazioni, neppure dinanzi allo stesso don Luciano, che vuole incontrare per accusarlo - con coraggio - di fronte ai propri familiari, benché costoro l'avessero avvertita che se avesse mentito, le conseguenze sarebbero state molto gravi.
I membri della famiglia non solo sono molto sbigottiti, ma sono i primi a chiedersi se credere alla piccola congiunta. E' proprio per dare risposta a tali loro dubbi che decidono di accompagnarla all'ospedale Gaslini di Genova. 
E' il 17 settembre 2009. 
Dalle rivelazioni esternate alla madre è trascorso più di un mese, non certo per caso.
Al Gaslini la bimba racconta la triste esperienza vissuta a una psicologa. Gli operatori sanitari verificano la serietà delle parole della dodicenne e - in maniera del tutto autonoma - segnalano gli abusi alle autorità, all'insaputa del parroco. I magistrati aprono d'ufficio un'indagine, proprio in seguito alla segnalazione inoltrata loro dal personale dell'ospedale genovese.
Nasce così il procedimento penale nei confronti di don Luciano Massaferro, senza alcuna denuncia presentata dai familiari della vittima. Non solo essi non querelano il parroco, ma gli assicurano di non aver alcuna intenzione di sporgere denuncia nei suoi confronti. Addirittura, mentre dubitano che la propria congiunta racconti un sacco di bugie, i familiari si preoccupano per la salute del parroco: per lui non auspicano il carcere, al massimo un semplice trasferimento.
Poi è tutto un susseguirsi di fatti: il 20 novembre 2009 la vittima ripete il racconto in Questura, a Savona, con la presenza di una psicologa; il 29 dicembre don Luciano Massaferro viene arrestato e portato nel carcere di Chiavari; un mese dopo, il 29 gennaio 2010, la piccola ripete i suoi racconti al Gip e a un perito nel corso dell'incidente probatorio.
Nel frattempo, come da lei stessa richiesto, la bambina continua a frequentare la parrocchia dove si trova a suo agio e può frequentare le sue amiche, finchè ai familiari viene fatto capire che sarebbe stato meglio se non avesse più frequentato gli ambienti parrocchiali. 
Così avviene, nonostante la ragazzina partecipasse sempre alle attività parrocchiali, piena di entusiasmo, passione e con una certa dose di ambizione personale: sarebbe tanto voluta diventare "chierichetto cerimoniere". Il suo allontanamento "forzato" provoca così in lei nuova sofferenza e il pentimento di aver parlato, visto che è a causa delle sue parole se perde quasi tutte le amicizie. E' persino costretta a ricevere la cresima ad Albenga.
Intanto, ad Alassio, parte una strenua campagna d'opinione dal duplice scopo: difendere strenuamente il sacerdote e denigrare spudoratamente la sua piccola accusatrice.
Iniziano a moltiplicarsi le voci - concordi - di educatori, bambini, insegnanti e mamme su un anomalo comportamento della vittima, la quale viene indicata come troppo vivace, agitata, manesca, violenta, triviale, pronta a discolparsi accusando gli altri quando venga rimproverata, dotata di un'aggressività incontenibile.
Ciò non si ferma alle voci all'interno della comunità, ma approda nelle aule di giustizia, dove si celebra il processo contro don Luciano Massaferro.
Infatti, durante il dibattimento, molte testimonianze descrivono la vittima con tinte sempre più fosche.
Viene pubblicamente additata di esercitare molestie nei confronti degli altri bambini, arrivando persino a essere impietosa con gli animali; viene accusata - lei che è parte lesa di reiterate violenze sessuali - di esercitare condotte sessuali perverse: ad esempio, alcuni testimoni rivelano sotto giuramento che in terza elementare si fosse invaghita di un compagno e lo avesse tormentato, fino a aver tentato di baciarlo e palpeggiarlo contro la sua volontà; che in mensa fosse solita toccare il pene ai maschietti; che mordesse i genitali dei compagni sotto i tavoli; che mostrasse le mutande come quelle delle adulte; che andasse in giro senza mutande; che salisse in groppa ai maschi solo per toccarli nelle parti intime.
Persino i giudici rimangono sorpresi dell'ostinazione con cui molti testimoni abbiano parlato di numerose bugie della piccola (anche risalenti nel tempo) e riferito di sue intemperanze ai rimproveri, come se fossero stranezze incomprensibili dell'infanzia.   
Insomma, dal racconto dei testimoni a difesa dell'imputato, si assiste a una vera e propria vocazione alla menzogna e alla perversione sessuale da parte della bambina.
L’imputato diventa vittima e la vittima diventa imputato. E' il mondo alla rovescia.
E dire che gli educatori della parrocchia, ascoltati alle prime udienze del processo, avevano sì affermato la difficoltà incontrata nel rapportarsi con una ragazzina che non ubbidiva e non rispettava nessuno, ma non avevano mai parlato di interessi per gli organi sessuali. Secondo gli stessi educatori, la piccola era solo maleducata e irrequieta, trasandata nell'igiene e nella cura della propria persona, insensibile ai rimproveri. Ma nulla di più.
Poichè i limiti della vittima sono stati decisamente amplificati nel corso del processo, i giudici ritengono che la sua immagine sia stata distorta.
Perciò la riportano alla realtà.
La vittima ha raccontato i fatti con pacatezza e senza accanimento; ha descritto particolari che non avrebbe potuto conoscere alla sua età se non li avesse visti personalmente; ha ricordato con spontaneità infantile i toccamenti del parroco sul petto, affondando le mani anche nelle parti intime, nella "zona da cui escono i bisogni".
Ha descritto lo smarrimento provato, ha spiegato che si era chiesta che cosa volesse quest'uomo e se fosse matto, per concludere mestamente di aver capito di essersi "sviluppata". 
Ha quindi spiegato che anche altre volte il parroco le aveva toccato il petto, quando era sola con lui e gli altri bambini si trovavano in un altro locale della canonica, mimando con le mani il gesto dell'uomo sul suo corpo e sottolineando la particolare attenzione per "le tette".
Dalle immagini dell'incontro in Questura del 20 novembre 2009, si desumono un comportamento composto e risposte chiare, pacate e coerenti.
Si è limitata a esporre i fatti, non senza un comprensibile imbarazzo.
Ha espresso il suo disorientamento e la sua delusione per essere stata vittima di una persona verso cui nutriva fiducia.
Non ha inveito, nè esagerato, nè aggiunto particolari al racconto che aveva reso alla madre.
Ha esternato un forte rammarico per l'isolamento cui è stata condannata dalla società alassina, dal momento che quasi tutti la scansano o le rivolgono rimproveri per aver osato accusare il parroco.
Ha espresso il timore di incontrare nuovamente il suo carnefice, spiegando che tutte le mattine, per recarsi a scuola da Alassio ad Albenga, deve aspettare il pullman proprio alla fermata vicino alla chiesa.
Ha risposto con equilibrio e logica a ciascuna domanda, sapendo distinguere il livello culturale dei suoi cari ed esponendo i suoi obiettivi futuri: laurearsi ed entrare in Polizia.
Ha spiegato i suoi rapporti con gli altri, mantenendo autocontrollo e apparendo matura, consapevole ed equilibrata.
Non ha manifestato alcun segno di crescita precoce, né di particolare attenzione per il mondo maschile, negato anche dalle coetanee: a nessuno è risultato avesse un fidanzatino.
Da tutto ciò i giudici traggono una conclusione semplice e chiara: la bambina non è una visionaria che vive nel mondo della fantasia, incapace di distinguere tra realtà e immaginazione. Anzi, è pienamente attendibile, tanto da dover essere evidenziate le sue piene capacità, confermate anche da un punto di vista clinico.
E dire che, fin da quando il racconto della vittima si era diffuso nell'ambiente della canonica, Don Luciano Massaferro e altri avevano cercato di scoraggiarla, agendo all'unisono al fine di creare le premesse per screditare la piccola: se la famiglia stessa avesse chiesto per lei un supporto psicologico, sarebbe stata la prova della consapevolezza di un disagio della bambina e quindi non sarebbe stata minimamente creduta da nessuno. 
Per di più, la vittima non nutriva alcun astio nei confronti del suo parroco, ma gli era affezionata non meno degli altri parrocchiani, anche perché era l'unica persona che le offriva diverse opportunità di svago e divertimento. 
Perchè avrebbe dovuto architettare accuse infondate, pur consapevole del rischio di perdere chi le offriva una vita serena? Per mettersi al centro dell'attenzione?
Secondo i giudici, una simile tesi è "priva di concretezza": la ragazzina conosceva altri mezzi per attirare l'attenzione su di sé, se non fosse almeno per la sua non ignorabile vivacità. Sapeva benissimo che chiunque avrebbe creduto al parroco e non a lei e che - se lo avesse accusato - sarebbe stata bandita e non avrebbe più potuto frequentare l'ambiente in cui si trovava a suo agio. Prova ne è il fatto di aver taciuto per tanto tempo per la paura di non essere creduta. 
Aveva parlato con le amichette, convinta che non si sarebbe esposta a conseguenze, mentre avrebbe continuato a tacere con gli adulti, se la madre non l'avesse inconsapevolmente provocata con i suoi rimproveri.
Inoltre, la piccola vittima avrebbe avuto tante occasioni per confondersi, cambiare versione, accentuare o sminuire le vicende, dimenticare, accattivarsi le simpatie di chi non le credeva e farsi perdonare; invece ha sempre affrontato con linearità e coerente determinazione le conseguenze della rivelazione del suo segreto, senza mai trascendere dal racconto pacato e dall'atteggiamento di distacco (mai di odio) nei confronti di chi aveva tradito la sua fiducia.
Ora la sua vita è drasticamente cambiata: ad Alassio si trova a disagio, ha perso quasi tutti gli amici (tanto che una sola bambina - delle 6 a cui aveva confidato il suo terribile segreto - si definisce ancora oggi sua "amica"), viene malvista, ma soprattutto ha abbandonato in maniera brusca il mondo dell'infanzia, subendo prima gli abusi sessuali da parte del parroco, poi il discredito e il disprezzo della comunità (ben manifestato nelle parole dei testimoni a difesa di don Luciano durante il processo).
In conclusione, i giudici si soffermano sul contesto che ha portato - e spesso porta - una persona insospettabile a compiere atti pedofili.  
La famiglia della piccola vittima non viene certo dipinta dai magistrati come esempio di buone cure: la madre non corrispondeva alla figura ideale di mamma, ovvero sensibile ai bisogni della figlia e idonea a contenerne la vivacità e ad impartire il rispetto delle regole e degli altri; con il padre naturale (separatosi dalla madre) la bambina non aveva alcun rapporto; il padre affettivo (che chiamava “papà”) era poco presente; l’affezionata zia abitava in un'altra città e non poteva incontrarla spesso.
Insomma, desumono i giudici, i familiari non accudivano adeguatamente la loro piccola bambina.
Perchè è importante sottolineare la situazione familiare della vittima?
Perchè si ricava l'immagine di una dodicenne piuttosto diversa dai coetanei, non solo più irrequieta e ribelle, ma anche priva della sorveglianza e delle cure costanti che gli altri bambini ricevevano dai genitori.
Ecco, questo costituisce il contesto d'azione perfetto per un pedofilo, soprattutto se trattasi di persona insospettabile come un sacerdote: tra un "uomo di Dio" e una bimba cresciuta in una famiglia "difficile" la gente tenderà sempre a credere al primo e a liquidare la seconda come bugiarda (se non peggio, come si è visto in precedenza). Don Luciano Massaferro, come tutti i pedofili, percepisce pienamente la vulnerabilità della sua vittima: la scelta viene presa soprattutto in considerazione di tale canone, che garantisce da un lato una più semplice ricattabilità (più una bambina viva una vita difficile, più sarà facile per il sacerdote stupratore - di cui necessariamente la piccola si fida - farle promettere il silenzio), dall'altro il mantenimento di un elevato consenso sociale, unito a una quasi sicura impunità (sarà più difficile credere a una ragazzina nata in una famiglia piena di difficoltà, piuttosto che al sacerdote, persona solitamente considerata rispettabile per il solo abito che indossa).
E' così che molti bambini e bambine - come la protagonista della vicenda qui esposta - conoscono la sessualità e ne conservano traccia dolorosa per sempre.
Per colpa di un prete. 
Don Pedofilo.

P.s. Don Luciano Massaferro non ha ancora subito alcun processo ecclesiastico, pertanto rimane sacerdote.
Vengono in mente le parole di Stephan Wahl, uno dei preti più noti in Germania per aver predicato il Vangelo in televisione per 12 anni nella popolare trasmissione “La parola della domenica”:  
"Come cattolico e come sacerdote mi è insopportabile che, secondo l’attuale normativa ecclesiastica, sia più facile che un sacerdote colpevole di abusi possa distribuire il sacramento dell’eucaristia piuttosto che un divorziato riceverlo".

lunedì 17 settembre 2012

ITALIA INFORTUNATA
(SUL LAVORO E NEL DIRITTO)


La storia che segue riguarda una ditta lombarda, la Ranger s.p.a., fondata a Carate Brianza nel 1969 da Alberto Rossini (classe 1936, brianzolo doc, proprietario di una villa a Briosco con un immenso giardino pieno di sculture di arte contemporanea, tra cui opere di Lucio Fontana e Pietro Cascella).    
L'azienda produceva stampi per materiale plastico, impiegava 500 dipendenti divisi in 3 stabilimenti italiani (Carate Brianza, Albiate e Piacenza) ed era gestita da un consiglio di amministrazione composto dallo stesso Alberto Rossini e dai suoi figli, Matteo e Marco, tutti con pari poteri decisionali.
Proprio uno dei due figli si è reso protagonista di una vicenda che ha tristemente coinvolto B.F., operaio. B.F. lavorava dal 1995 nello stabilimento di Albiate come operaio specializzato con mansioni di manutentore meccanico. Era uno dei 200 operai che lavoravano in quella fabbrica e uno dei 4 del reparto manutenzione. 
Tutto si svolge in un ordinario pomeriggio di lavoro.
E' giovedì 13 settembre 2007. Sono circa le 16.00. Inizia il turno lavorativo. 
Insieme a un collega (H.K.), B.F. riceve l’incarico di trasportare fuori dallo stabilimento di Albiate un cilindro d'acciaio che si è rotto e va riparato.
Il cilindro è lungo 3 metri, pesa 700 Kg e ha un diametro di 30 cm.
Deve essere caricato su un camion che – come tutti i furgoni - non può entrare nel cortile della ditta e deve attendere fuori dal cancello d'ingresso.
Il cilindro non può essere spostato con il carroponte, poichè quest'ultimo si trova all'interno del capannone e non consente la movimentazione di carichi sino al camion.
Allora B.F. e H.K. agganciano il cilindro con una cinghia alle forche di un carrello elevatore, poi H.K. si mette alla guida, mentre B.F. rimane a piedi.
I due sono costretti a sollevare le forche, poiché lungo il percorso si trovano diversi ostacoli. Così mettono in moto il carrello elevatore con le forche sollevate, in modo che il cilindro rimanga appeso. 
Percorrono una decina di metri, lo spazio che li separa dal cancello di ingresso, ove il camion attende il pesante carico.
Giunti al cancello, il carrello elevatore - nell'oltrepassare la guida metallica, leggermente in rilievo - sobbalza: d'altra parte le sue ruote rigide sono di plastica e non gommate, altrimenti assorbirebbero meglio gli urti.
Il cilindro appeso oscilla, provocando lo scivolamento della cinghia dalle forche (sempre sporche di olio e di grasso), lo sfilamento e la caduta a terra del cilindro, il quale si riversa sul piede sinistro di B.F., schiacciandoglielo.
B.F. viene prima portato al pronto soccorso dell'ospedale di Carate Brianza e poi (d'urgenza) all'Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, dove viene ricoverato e sottoposto all'amputazione delle dita del piede. Il trauma subìto da schiacciamento del piede sinistro aveva comportato molteplici fratture del tarso e del metatarso, che avevano cagionato la necrosi dei tessuti del secondo e terzo dito del piede sinistro e determinato la necessità della loro amputazione. 
Dimesso dopo un mese, si deve sottoporre a medicazioni periodiche, cure farmacologiche, terapia riabilitativa e all'applicazione di una protesi in silicone, con una durata della malattia di circa 7 mesi. 
Senza contare le notevoli ripercussioni psicologiche. Per quelle fisiche, l'Inail riconosce al povero B.F. un'invalidità permanente complessiva dell'8%.
La storia qui raccontata ha avuto anche un risvolto processuale.
Infatti il 21 febbraio 2012 il Tribunale penale di Monza (in composizione monocratica, nella persona del giudice Giuseppina Barbara) ha condannato l'unico imputato - uno dei figli di Alberto Rossini - per il reato di lesioni personali colpose.
Essendo, all'epoca dei fatti, consigliere di amministrazione della Ranger s.p.a. con delega alla sicurezza e alle attività produttive (con specifica responsabilità sullo stabilimento di Albiate), su di lui incombeva l'obbligo di fornire ai propri dipendenti attrezzature sicure e idonee allo svolgimento delle mansioni loro assegnate (come la movimentazione dei carichi).
E' stato lui - secondo quanto ha scritto il giudice nelle motivazioni della sentenza, depositate il 14 maggio 2012 - ad aver colpevolmente cagionato a B.F. le gravi lesioni riportate. 
La colpa è dovuta proprio al non aver fornito mezzi e attrezzature adeguate al lavoro da svolgere, non avendo in tal modo assicurato la stabilità del carico, con l'aggravante di aver violato le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. 
Secondo il Tribunale di Monza, il sistema adottato da B.F. e dal collega per la movimentazione dei carichi era insicuro e contrario a qualsiasi norma di sicurezza, per cui è assolutamente vietato agganciare in modo instabile oggetti alle forche del carrello elevatore e, soprattutto, movimentare carichi - tanto più di notevoli dimensioni -sospesi alle forche.
Tuttavia, nonostante si tratti di un’operazione estremamente pericolosa, nello stabilimento di Albiate della Ranger s.p.a. essa costituiva la prassi usuale per il trasporto di quei carichi. Per di più, B.F. era certamente un operaio esperto, dato che non solo rende ancora più evidente la responsabilità del datore di lavoro, ma dimostra l'abitualità della rischiosa procedura seguita per trasportare all'esterno i carichi pesanti. D'altra parte, gli operai non avevano altro modo di eseguire le mansioni loro affidate, se non utilizzando il carrello elevatore e agganciando in modo precario alle sue forche gli oggetti pesanti (come i cilindri metallici).
E dire che i lavoratori avevano evidenziato il problema alla proprietà, sollecitandone una soluzione, ma la famiglia Rossini non ha mai voluto acquistare l'attrezzo che avrebbe reso sicura quell'operazione, se non dopo l'infortunio occorso a B.F. e in seguito alle prescrizioni dell'ASL: un semplice braccio munito di gancio, da inserire nelle forche del carrello elevatore e al quale agganciare il materiale di un certo peso. 
E dire, inoltre, che il costo di tale strumento si aggirava intorno ai 2.500 euro, prezzo così limitato da poter sicuramente rappresentare un acquisto compatibile con gli stanziamenti aziendali annuali in materia di sicurezza. Peccato che nel biennio 2006-2007, a causa dell'inizio della crisi finanziaria dell'azienda (che avrebbe poi condotto alla sua dismissione da parte della famiglia Rossini), la società prestava molta, troppa attenzione alle spese. 
Insomma, la famiglia Rossini aveva deciso di soprassedere all'acquisto di quell'attrezzatura non ritenuta assolutamente necessaria, visto che sarebbe servita "solo" per operazioni di manutenzione non quotidiane.
Purtroppo però la legge in materia di prevenzione infortuni:
- impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alla normativa vigente, idonee ai fini della salute e della sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere;
sancisce che i mezzi di sollevamento e trasporto debbano essere scelti in modo da risultare appropriati alla natura, alla forma e al volume dei carichi, nonché alle condizioni di impiego, e che gli accessori di sollevamento debbano essere scelti in funzione dei carichi da movimentare.
E', pertanto, indubbio che Rossini junior abbia violato i propri doveri impostigli dalla legge, omettendo di fornire agli operai un'attrezzatura adeguata al lavoro di movimentazione di carichi pesanti e ingombranti, che permettesse loro di eseguire l'operazione in modo sicuro.
Ecco perchè - secondo il Tribunale brianzolo - l’imputato è colpevole e va condannato.
Ma qui viene il bello (si fa per dire).
Secondo l'art. 590 del codice penale italiano, la pena massima per il reato commesso dal giovane Rosmini (gravi lesioni personali colpose in violazione delle norme antinfortunistiche) è pari a 1 anno di carcere o a 2.000 euro di multa.
Pena ridicola.
Se però si aggiunge la concessione di alcune attenuanti - che vengano giudicate equivalenti alle aggravanti della gravità delle lesioni e dell'aver violato le norme preventive degli infortuni sul lavoro - la pena massima possibile si riduce a 3 mesi di galera o a 309 euro di multa.   
Proprio quanto stabilito dal giudice di Monza.
Poichè la vittima del grave infortunio era stata risarcita del danno patito prima dell'inizio del dibattimento (tanto da essersi ritirata come parte civile), al condannato va concessa l'apposita attenuante prevista dall'art. 62 n. 6 del codice penale. Inoltre, gli vanno riconosciute anche le attenuanti generiche (previste dall'art. 62-bis del codice penale), in considerazione:
- delle sue condizioni di vita (è un giovane imprenditore socialmente inserito);
- del suo comportamento processuale (ha costantemente partecipato alle udienze ed ha fornito il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti, sottoponendosi all'esame);
- della condotta successiva al fatto (ha ottemperato alle prescrizioni dell'ASL);
- dell'assenza di precedenti penali e di polizia.
Aggravanti e attenuanti si annullano a vicenda, per cui la condanna finale di Rossini junior è il pagamento di una multa di 300 euro.
Riassumendo. Un giovane datore di lavoro (trentenne all'epoca dei fatti), incensurato e ben inserito nella società, riceve un enorme sconto di pena (da un massimo di 1 anno di carcere o 2.000 euro di multa - pena già ridicola di per sè - a un massimo di 3 mesi di carcere o 309 euro di multa) solo per aver risarcito i danni alla vittima, aver preso parte al processo rispondendo alle domande e aver finalmente acquistato un attrezzo che possa evitare in futuro il ripetersi di tragedie analoghe a quella da lui stesso causata.
Il tutto a norma di legge.
Può allora considerarsi civile uno Stato dove l'imprenditore responsabile di aver arrecato gravi lesioni fisiche e psicologiche a un lavoratore - che solo per una notevole dose di fortuna non si sono tradotte in qualcosa di peggiore, fino alla morte - se la cavi con una multa di 300 euro?
Non solo.
Per il reato contestato a Rossini junior la prescrizione scatta dopo 7 anni e mezzo dalla data dell'incidente (13 settembre 2007); pertanto il processo morirà il 13 marzo 2015, tra soli 2 anni e mezzo, lasso di tempo entro cui devono essere celebrati almeno altri due gradi di giudizio. E' sufficiente la presentazione di ricorsi da parte dell'imputato (anche infondati e immotivati) per rendere sussistente il rischio che costui non paghi nemmeno i 300 euro di multa cui è stato condannato in primo grado.
Mi permetto allora di suggerire al governo - nella persona del ministro della Giustizia Paola Severino - e al Parlamento di approvare un decreto-legge (sussistono pienamente sia la necessità, sia l'urgenza richieste dall'art. 77 della Costituzione, data la spaventosa quotidianità con cui episodi come quello qui raccontato accadono in Italia) che, in merito ai reati legati alla violazione delle leggi antinfortunistiche sul lavoro:
1) innalzi decisamente le sanzioni (sia detentive, sia pecuniarie) previste dal codice penale; 
2) impedisca l'equivalenza delle attenuanti e delle aggravanti, rendendo sempre le seconde prevalenti sulle prime;
3) non preveda la prescrizione. 
Sono tre semplici innovazioni che - introducendo pene certe e severe, anche da un punto di vista economico - concorrerebbero a rendere più conveniente investire in sicurezza per molti, troppi (im)prenditori nostrani. 
Inoltre, simili norme possono essere varate in un batter d'occhio.
Basta volerle.
Le difficoltà stanno tutte qui.

giovedì 13 settembre 2012

UNA DENUNCIA (FALSA) E L'IMMIGRATO
DIVENTA IRREGOLARE 


Per far emergere il lavoro irregolare è necessario che il datore di lavoro e il lavoratore si presentino agli uffici dello Sportello Unico per l’immigrazione, dove - dinanzi a un funzionario - sottoscrivano (entrambi) un contratto di soggiorno. 
Tale procedura viene seguita anche da Esmil Mohammad (lavoratore) e Francesca Moro (datrice di lavoro).
Peccato che dopo la stipula del contratto di soggiorno e il rilascio del titolo di soggiorno, l'imprenditrice sporga querela in sede penale, denunciando di non aver mai presentato alcuna domanda di assunzione nei confronti di Esmil Mohammad. 
Solo per questo, con provvedimento del 22 agosto 2011, la Questura di Roma revoca al lavoratore il permesso di soggiorno precedentemente rilasciato. 
Esmil si rivolge quindi al Tar del Lazio, la cui sezione II Quater gli dà pienamente ragione.
Infatti, con la sentenza 19 luglio 2012 n. 6629, i giudici amministrativi annullano il provvedimento della Questura romana dal momento che essa "non poteva basarsi unicamente sulla querela della datrice di lavoro di non aver mai richiesto l’assunzione del ricorrente, la cui veridicità è sconfessata dai documenti".
Poichè la procedura di emersione si era conclusa favorevolmente, ciò è incompatibile con la dichiarazione (palesemente falsa) della datrice di lavoro di non aver mai assunto il ricorrente.
Se un tale elementare, quanto banale principio logico (prima che giuridico) non fosse stato ricordato da un collegio di tre magistrati (al quale - è bene rammentarlo - si era rivolta la vittima della macroscopica ingiustizia), sarebbe passata l'idea per cui basta la denuncia di un imprenditore nei confronti del proprio dipendente extracomunitario per levare a quest'ultimo il permesso di soggiorno, rendendolo irregolare e a rischio espulsione. 
Per fortuna, in Italia, esistono ancora i Tribunali. 

lunedì 10 settembre 2012

NUOVE BOLZANETO CRESCONO

Coloro i quali pensino che le torture compiute dalle forze dell'ordine a Bolzaneto nel luglio 2001 rappresentino un caso isolato, dovranno necessariamente ricredersi dopo l'emissione della sentenza 27 luglio 2012, n. 30780 da parte della VI sezione penale della Cassazione. 
Ecco i fatti.
Due agenti di polizia penitenziaria del carcere di Asti erano soliti maltrattare alcuni detenuti, sottoponendoli a un regime di vita tormentoso e vessatorio, spogliandoli e rinchiudendoli in una cella priva di materasso, lavandino, sedie e vetri alle finestre (chiuse soltanto dopo un mese con del cellophane). Qui i reclusi venivano lasciati per due mesi (i primi giorni completamente nudi), tenuti rigidamente a pane e acqua e ripetutamente picchiati - anche più volte al giorno - con calci, pugni e schiaffi su tutto il corpo, fino a riportare lesioni non indifferenti (come la frattura di una costola ed ecchimosi diffuse in sede toracico-addominale). Addirittura i carcerati dovevano subìre lo strappo a mani nude dei propri “codini” dei capelli.
Nonostante il reato commesso dagli agenti sia ormai prescritto (maltrattamenti di persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per ragione di vigilanza o custodia, commessi con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione), i giudici tengono a sottolineare che i fatti sarebbero stati facilmente qualificati come tortura, se l’Italia avesse dato attuazione all'apposita Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984, soltanto ratificata dal nostro Paese con la legge 3 novembre 1988, n. 498.
In ogni caso, la Cassazione ha ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio che:
- nel carcere di Asti era stata instaurata una prassi di maltrattamenti dei detenuti più “problematici”;
- due di essi avevano subìto non solo singole vessazioni, ma una vera e propria tortura, durata per diversi giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico;
- i due agenti di polizia penitenziaria imputati avevano partecipato a (quasi) tutte le vessazioni fisiche, psicologiche e materiali arrecate ai carcerati.
Insomma, all'interno delle mura del penitenziario piemontese alcuni rappresentanti dello Stato - nelle vesti di agenti di polizia penitenziaria - hanno messo ripetutamente e sistematicamente in atto una pluralità di pratiche persecutorie, violente, vessatorie, umilianti e denigranti ai danni dei detenuti, con la piena coscienza e volontà di sottoporli a notevoli sofferenze fisiche e morali. Tale sistema criminale si è inoltre protratto per così lungo tempo da poter essere qualificato come "abituale".
Nuove Bolzaneto crescono.

venerdì 31 agosto 2012

UN VUOTO AL QUIRINALE

Da diversi giorni si sente ripetere in continuazione che - per quanto riguarda la trattativa Stato-mafia (nè "presunta", nè "supposta", ma accertata anche in via giudiziaria) e le conversazioni telefoniche intercettate tra Nicola Mancino e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - il Quirinale non ha nulla contro la Procura di Palermo, che non esiste alcuno scontro, che se il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è rivolto alla Consulta lo ha fatto solo per avere risposta di un vuoto normativo da colmare una volta per tutte.
Niente di più falso.

Nel ricorso presentato alla Corte Costituzionale dal Presidente della Repubblica (rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato) il 30 luglio 2012, si sostiene con convinzione che:

1) le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Capo dello Stato (anche se indirette e occasionali) sono assolutamente vietate e non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte. Pertanto il Pm deve immediatamente chiedere al Gip la loro distruzione;

2) è assolutamente vietato intercettare e predisporre altri mezzi di acquisizione della prova invasivi nei confronti del Presidente della Repubblica, poichè - fino a quando è in carica - nei suoi confronti non possono essere adottati provvedimenti in materia di intercettazioni telefoniche; 

3) è espressamente e assolutamente vietato disporre intercettazioni nei confronti del Capo dello Stato, senza eccezione alcuna, fino a quando resta in carica, comprese le intercettazioni indirette o captate casualmente. L’impossibilità di intercettare e di usare il testo delle intercettazioni si desume con assoluta chiarezza dalle norme di legge: il Presidente della Repubblica non può subire alcuna limitazione nelle sue comunicazioni e vige il divieto assoluto di utilizzo delle intercettazioni. In caso contrario, si limiterebbe la sua libertà di comunicazione e verrebbe lesa la sua sfera di immunità. E' quindi inammissibile poter usare le intercettazioni svolte dalla Procura di Palermo;

4) quando coinvolgono in qualsiasi modo Napolitano,  bisogna evitare quelle forme invasive di acquisizione della prova inconciliabili con la sua assoluta libertà di determinazione e comunicazione;

5) il Capo dello Stato gode di massima immunità per quanto concerne le intercettazioni;

6) ogni attività del Quirinale è coperta da assoluta riservatezza, da un’immunità sostanziale e permanente a protezione del suo inquilino, funzionale a garantirgli il massimo di libertà d’azione e di riservatezza. Tale  protezione derivante dall’immunità comprende tutti gli atti presidenziali. Si tratta di uno strumento indispensabile ed essenziale per consentire il più efficace conseguimento dei compiti del Presidente e per garantire l’attuazione della Costituzione;

7) il divieto di intercettazione è conseguenza diretta dell’immunità presidenziale;

8) le norme esistenti vanno interpretate in senso conforme all’immunità presidenziale sancita dall'art. 90 della Costituzione;

9) la libertà di comunicazione non può subire alcuna limitazione, visto che le determinazioni e le comunicazioni di Napolitano sono inviolabili;

10) l’intercettazione, l’ascolto, la valutazione, l’utilizzo o la distruzione con la procedura prevista dall'art. 268 c.p.p. lede le prerogative di Napolitano. Tale procedura prevede, in ordine cronologico: 

- la trascrizione (anche sommaria) del contenuto delle intercettazioni registrate;
- la trasmissione del materiale al Pm;
- il deposito in segreteria per tutto il tempo fissato dal Pm;
- la possibilità per i difensori delle parti di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni;
- l'acquisizione disposta dal Gip delle conversazioni non manifestamente irrilevanti indicate dalle parti;
- lo stralcio da parte del Gip delle altre registrazioni di cui è vietato l'uso, con possibilità di partecipazione all'udienza da parte del Pm e dei difensori;
- la trascrizione integrale delle registrazioni da acquisire disposta dal Gip;
- l'inserimento delle trascrizioni nel fascicolo per il dibattimento;
- la possibilità per i difensori di estrarre copia delle trascrizioni e fare eseguire la trasposizione della registrazione su nastro magnetico. 

In definitiva, è vietato:

- depositare le intercettazioni nella segreteria del Pm;
- concedere la facoltà di esame delle intercettazioni da parte degli avvocati;
- acquisire le conversazioni non manifestamente irrilevanti indicate dalle parti;
- svolgere l’udienza di fronte al Gip e alle parti per lo stralcio e la distruzione (se richiesta) delle registrazioni non necessari per il processo, di cui è vietato l’uso;
- inserire le conversazioni utilizzabili nel fascicolo, con la possibilità di estrarne copia;

11) le intercettazioni svolte dalla Procura di Palermo sono inutilizzabili, poichè sono state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge. Si tratta di una captazione illegittima di conversazioni di Napolitano, motivo per cui avrebbero dovuto essere immediatamente distrutte; 

12) la diversa interpretazione-ricostruzione dei Pm è scorretta.


In conclusione, Napolitano - tramite l'Avvocatura Generale dello Stato - rivendica che 

- l’avvenuta valutazione dei Pm sulla rilevanza delle intercettazioni per il loro eventuale utilizzo;
- la permanenza delle intercettazioni agli atti;
- l’intento di andare in camera di consiglio davanti al Gip e alle parti 

abbiano leso le proprie prerogative costituzionali, almeno sotto il profilo della loro menomazione. 
Per di più, l'Avvocatura è convinta che sussistano precisi elementi oggettivi di prova dello scorretto uso del potere giurisdizionale da parte della Procura palermitana. Eccoli:

- aver registrato le intercettazioni con la voce di Napolitano;
- aver messo agli atti il testo delle intercettazioni;
- aver valutato la rilevanza o meno delle intercettazioni;
- aver ipotizzato lo svolgimento di un’udienza ex art. 268 c.p.p. tra le parti davanti al Gip per decidere l’acquisizione o la distruzione (con tanto di trascrizione integrale delle intercettazioni per valutarne la rilevanza e facoltà degli avvocati di estrarne copia): tale iter non è applicabile, perché produrrebbe una grave ferita alle prerogative di Napolitano, operando in loro spregio e alterando concretamente e definitivamente la consistenza dell’assetto dei poteri costituzionali.

Insomma, secondo l'Avvocatura, i Pm palermitani avrebbero dovuto immediatamente distruggere le intercettazioni captate illegittimamente, senza soffermarsi a valutarne la rilevanza o meno e senza offrirle all’udienza davanti al Gip e alle parti.

In conclusione, non solo Napolitano - sollevando un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato - sostiene che la Procura di Palermo abbia travalicato la propria sfera di attribuzioni delimitata e determinata dalla Costituzione per il potere giudiziario, ma - proprio per questo - fa sì che, in caso di accoglimento da parte della Consulta del ricorso del Quirinale, i migliori magistrati inquirenti antimafia degli ultimi anni rischino conseguenze disciplinari e (forse) penali.

Ecco, basta leggere il ricorso del Presidente della Repubblica presso la Consulta per capire che il Quirinale non solo non sostiene l'esistenza di alcun vuoto normativo (anzi, ritiene che le leggi esistano e siano molto chiare nel difendere le prerogative e la totale immunità del Capo dello Stato), ma accusa - di fatto - la Procura di Palermo di eversione dell'ordine costituzionale.
Ma non si dica che Napolitano si scontri con i Pm antimafia: al massimo che si sia rivolto alla Corte Costituzionale a sua insaputa.   

domenica 19 agosto 2012

UNA "REPUBBLICA" RIDOTTA AL LUMICINO

In un suo sciagurato editoriale ("Perchè attaccano il Capo dello Stato") pubblicato stamane da "la Repubblica" - quotidiano da lui stesso fondato - Eugenio Scalfari ha dato il meglio di sè:

- "i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta finora hanno dato assai magri risultati, tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato 8 anni di carcere duro".

Ora, a parte la clamorosa falsità dell'assunto scalfariano, va notata la sua sconcertante sovrapponibilità con quanto (tra gli altri) Silvio Berlusconi, il pregiudicato Marcello Dell'Utri e i loro sodali - noti difensori della legalità e dell'antimafia - vanno ripetendo da anni. Chissà se Scalfari considera gli esiti dei procedimenti penali intentati dai Pm palermitani a personaggi come Giulio Andreotti (riconosciuto definitivamente mafioso fino alla primavera del 1980) e Marcello Dell'Utri (riconosciuto definitivamente concorrente esterno alla mafia)  un "magro risultato". E chissà se la manovalanza mafiosa siciliana è del suo stesso avviso, dato che costei vorrebbe morti proprio i magistrati inquirenti più esposti nelle indagini antimafia degli ultimi vent'anni.
Per quanto riguarda, invece, la condanna di un innocente per la strage di via D'Amelio (trattasi del falso pentito Vincenzo Scarantino), sono state proprio le indagini degli ultimi anni svolte dai Pm di Caltanissetta e dal Procuratore generale Roberto Scarpinato ad aver appurato l'errore giudiziario commesso in passato. Motivo per cui il 27 ottobre 2011 la Corte d'Appello di Catania ha sospeso l'esecutività delle pene definitivamente sancite nei confronti di 8 ergastolani (provocando la scarcerazione di 6 di loro), il tutto in attesa del nuovo processo sull'uccisione di Paolo Borsellino, che sarà celebrato grazie a quei "magri risultati" ottenuti finora dalla Procura di Caltanissetta;

- "quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi".

Ecco, ora la trattativa non è più "presunta" o "supposta" - come ripetono in molti, nonostante la sua esistenza sia sancita da diverse sentenze, alcune definitive - ma "inevitabile". E dire che Paolo Borsellino fu eliminato (quasi) sicuramente perchè si oppose con tutto se stesso a quello che - a differenza di Scalfari - riteneva uno scempio: trattare con gli assassini di Giovanni Falcone, invece di catturarli, processarli e condannarli. Sprovveduto di un Borsellino;

- "quand'è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel '92-'93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi".

Forse Scalfari ignora (o non ricorda e allora l'unica cosa ridotta al lumicino sarebbe la sua memoria) che il 30 gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato pesantissime condanne a importanti boss mafiosi e annullato con rinvio numerose assoluzioni nell'ambito del maxiprocesso istruito a Palermo a metà degli anni '80 dai giudici Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli. Per la prima volta nella sua storia secolare, la mafia siciliana veniva condannata definitivamente a un numero enorme di ergastoli. Per i mafiosi - abituati all'impunità o a pochi anni di carcere - dovette sembrare l'inizio della fine. Come avrebbe potuto e dovuto essere, se lo Stato avesse marciato compatto per imporre un colpo finale alla sopravvivenza della mafia, invece di sedersi a trattare (anche - e forse soprattutto - per salvare la pelle dei politici che, dimentichi delle promesse fatte agli amichetti mafiosi, non avevano saputo impedire il verdetto della Cassazione). 
Inoltre Scalfari ignora (o non ricorda e allora il lumicino della sua memoria si starebbe sempre più affievolendo) che i Corleonesi non "presero il sopravvento sul clan di Badalamenti" nel '92/'93, bensì dieci anni prima, grazie allo scatenamento della seconda guerra di mafia (iniziata il 23 aprile 1981 con l'omicidio del boss Stefano Bontate - capo della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù - e terminata il 30 novembre 1982 con gli assassinii dei boss Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione e Salvatore Micalizzi). In un solo anno e mezzo i fedelissimi di Totò Riina e Bernardo Provenzano lasciarono sulle strade di Palermo centinaia e centinaia di cadaveri per impadronirsi dell'intera Cosa Nostra, pur essendo già maggioritari all'interno del suo organo di vertice (la Commissione provinciale di Palermo) fin dalla fine degli anni '70;

- "Falcone andò in Usa per interrogare Buscetta lì detenuto. Dopo l'interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle sue domande e altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino".

Allora è proprio un vizio. Scalfari ignora (o continua a non ricordare e allora il lumicino della sua memoria si sarebbe definitivamente consumato) che non solo il boss pentito Tommaso Buscetta si addentrò – con timore e prudenza – nel terreno dei rapporti tra mafia e politica, ma che se lo fece - contro le proprie ferme intenzioni iniziali - fu proprio grazie a Giovanni Falcone. Infatti il giudice - dopo aver scoperto, grazie al certosino lavoro di riscontro alle parole del pentito, che Buscetta conosceva benissimo i cugini Nino e Ignazio Salvo (facoltosi esattori delle imposte, proprietari di un impero economico miliardario, "uomini d'onore" della famiglia mafiosa di Salemi e anello di congiunzione tra i boss e la politica, soprattutto andreottiana) - iniziò a incalzare Buscetta in quella direzione, arrivando a fare la voce grossa nell'invitarlo a parlare di tutto ciò che sapesse, politica compresa, per evitare l'accusa di essere un pentito "a orologeria", manovrato per colpire alcuni e lasciare in pace altri. Buscetta cedette quando Falcone minacciò di concludere gli interrogatori, di cestinare migliaia di pagine già scritte e di abbandonare il pentito al suo destino. Sia Falcone, sia Buscetta raccontarono poi questo loro "scontro" con versioni assolutamente coincidenti. Quest'ultimo rivelò: 
"A Falcone chiesi scusa di non aver detto tutto, e principalmente della politica. Io di politica non volevo parlare per nessuna ragione. Quando Falcone si avvicinava ai Salvo, dovevo parlare di politica. Cercai di sottrarmi persino di fronte alle intercettazioni delle telefonate che provavano che ero stato ospite a casa loro. Allora fui costretto a parlare, limitandomi però a raccontare il lato mafioso della vicenda. Alla fine Falcone mi costrinse a parlare dei miei contatti personali. A quel punto, non avendo scelta, risposi alle sue domande. Quando vennero gli anni dei "veleni", l’atteggiamento delle istituzioni sul pentitismo mi frenò definitivamente. Oltre questo punto, mi dissi, non andrò. Questo perché le contraddizioni che vidi non mi offrivano più quelle garanzie che credevo di aver trovato con Falcone e il suo pool. Falcone venne 2 o 3 volte negli Stati Uniti per parlare di Cosa Nostra, ma anche dei politici, anche se io a quell’epoca mi sono sempre negato".
In tale ottica, per esempio, si inserirono le richieste di informazioni mosse da Falcone nei confronti di Giulio Andreotti: il boss gli rispose che non era ancora il momento.

Ora, c'è una sola conclusione da trarre: il fondatore de "la Repubblica", Eugenio Scalfari, non sa quello che scrive. Oppure lo sa, ma fa finta di non saperlo.

domenica 29 luglio 2012

UN MAGISTRATO DI NOME ROCCO

Rocco Chinnici
Palermo, venerdì 29 luglio 1983, via Giuseppe Pipitone Federico n. 59, zona centrale del capoluogo siciliano. Sono da poco passate le 8 di mattina. Un uomo esce di casa, si dirige verso la macchina che lo deve portare al lavoro. E' un attimo: una Fiat 126 verde - imbottita di circa 48 chili di tritolo e parcheggiata all'altezza del portone d'ingresso dell'edificio - salta in aria. Muoiono l'uomo appena allontanatosi da casa, due carabinieri (il maresciallo Mario Trapassi, 32 anni, e l'appuntato Salvatore Bartolotta, 48 anni) e il portiere dello stabile (Stefano Li Sacchi, 60 anni). Il bilancio finale della strage è di 4 morti e 19 feriti, tra cui l'autista Giovanni Paparcuri: sul momento entra in coma, ma poi se la caverà con un indebolimento permanente dell'udito. L'esplosione è devastante, la scena agghiacciante: morti e feriti a terra, l'androne dello stabile distrutto, saracinesche di negozi accartocciate, lamiere e schegge di carrozzeria sparse a vasto raggio, una buca sull'asfalto della strada del diametro di 70 cm e profonda 15 cm. Una scena di guerra.
L'obiettivo era l'uomo uscito di casa per recarsi al lavoro. Si tratta di un magistrato di 58 anni costretto da tempo a recarsi in Tribunale su un'Alfetta 2000 blindata e a vivere sotto scorta per le numerose minacce di morte ricevute (gli uomini in tal senso messi a sua disposizione sono 6 Carabinieri, di cui 4 sopravvivono miracolosamente all'attentato).
Si chiama Rocco Chinnici.
Nato a Misilmeri (Palermo) il 19 gennaio 1925, nel maggio 1966 era diventato giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo. L'anno seguente aveva istruito il suo primo processo di mafia, con tanto di mandati di cattura. Si disse subito fosse un procedimento "vacante, vuoto", cioè senza prove, basato sul nulla. In primo grado la Corte d'Assise palermitana avrebbe assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove, ma poi la Corte d'Assise d'Appello e la Cassazione avrebbero condannato quasi tutti per associazione a delinquere (confermando le assoluzioni per l'accusa di omicidio). Nel 1975 Chinnici era diventato Consigliere Aggiunto; dal 6 dicembre 1979 dirigeva l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo in qualità di Consigliere Istruttore. Il suo predecessore, il giudice Cesare Terranova, era stato ucciso da Cosa Nostra 72 giorni prima, il 25 settembre 1979. 
La strage mafiosa cui risulta vittima Chinnici rappresenta un segnale di notevole cambiamento in Sicilia. Se infatti Cosa Nostra aveva ucciso altri fedeli servitori dello Stato - il poliziotto Boris Giuliano (21 luglio 1979), il carabiniere Emanuele Basile (3 maggio 1980), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e il magistrato Gaetano Costa (6 agosto 1980), oltre il già ricordato Terranova - sparando colpi di arma da fuoco alle spalle o attraverso il finestrino dell'auto della vittima, per Chinnici i boss scelgono per la prima volta la strage eclatante, inaugurando tristemente la stagione delle autobombe destinate agli uomini leali alle Istituzioni (gli unici altri a subìre una simile fine "spettacolare" sarebbero stati nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi giudici dell'ufficio Istruzioni retto da Chinnici).

L'attentato al giudice Rocco Chinnici (© Franco Zecchin)    

Ma perchè inaugurare una strategia terroristica così plateale? Perchè colpire Chinnici?
Innanzitutto il contesto.
Siamo nei primi anni '80. La Sicilia è caratterizzata da una generalizzata scarsa sensibilità e attenzione per la mafia. Le indagini vengono svolte solamente grazie alla buona volontà e capacità investigativa di ben pochi magistrati, peraltro non organizzati in gruppi di lavoro o in strutture efficienti. Complessivamente, la magistratura non mostra alcuna incisività repressiva nei confronti del sempre più dilagante fenomeno mafioso. L'andazzo è remissivo, l'aria di totale indifferenza. Quei limitati uomini fedeli allo Stato che invece decidono di combattere finalmente la mafia sono facilmente isolabili e isolati.
Sono anche gli anni della seconda guerra di mafia, iniziata il 23 aprile 1981 (con l'omicidio del boss Stefano Bontate) e terminata il 30 novembre 1982 (con l'uccisione dei mafiosi Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione e Salvatore Micalizzi). Pur maggioritari dalla fine degli anni '70 nella Commissione provinciale di Palermo (l'organo di vertice di Cosa Nostra, a cui spetta prendere le maggiori decisioni, tra cui gli omicidi da realizzare), i Corleonesi dei boss Salvatore Riina e Bernardo Provenzano vogliono impadronirsi dell'intera associazione criminale, spodestando a suon di centinaia di omicidi per strada la cosiddetta "ala moderata" di Cosa Nostra, i cui maggiori rappresentati sono i boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone.
Di fronte a tutto questo, che cosa fa Chinnici appena insediatosi al vertice dell'Ufficio Istruzione del Tribunale palermitano nel dicembre 1979?
Raccogliendo l'eredità spirituale del predecessore Cesare Terranova e proseguendone l'importante lavoro antimafia svolto con impegno, adotta tecniche investigative rivoluzionarie e metodi di lavoro innovativi per l'epoca: organizza gli uffici giudiziari, garantendo una più efficace e razionale impostazione del lavoro e predisponendo moduli operativi tali da consentire lo scambio di informazioni tra i magistrati titolari dei vari procedimenti; coordina le indagini mirate a cogliere la connessione tra i diversi delitti di mafia e a individuare collegamenti operativi tra i diversi gruppi criminali mafiosi; indaga sul patrimonio finanziario e bancario delle cosche, sequestrando per la prima volta conti correnti. Tutto ciò porta a un enorme salto di qualità nella repressione antimafiosa, rappresentando un'enorme svolta nella lotta a Cosa Nostra, fino ad allora quasi assente. 
Non solo.
Con tali innovazioni nel metodo lavorativo, Chinnici inaugura il lavoro di squadra dei magistrati, creando un metodo nuovo - quello del pool antimafia - che sarebbe poi stato ripreso e realizzato dal suo successore, il giudice Antonino Caponnetto. Non è un caso se:

- sia stato proprio Chinnici a chiamare a lavorare accanto a sè alcuni giovani magistrati che avrebbero poi costituito il famoso pool antimafia di Caponnetto, scoprendone e valorizzandone le straordinarie capacità: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello Finuoli. Tanto da aver fatto dire a quest'ultimo che "senza Rocco Chinnici non ci sarebbero stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino";

- il maxiprocesso a Cosa Nostra (che ha visto alla sbarra ben 475 imputati) sia stato il risultato, la conseguenza e la prosecuzione del lavoro istruttorio svolto da Chinnici. Tant'è vero che nella premessa dell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l'8 novembre 1985 dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (documento che ha portato al maxiprocesso), Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli scrivono:
"Riteniamo doveroso ricordare che l’istruttoria venne iniziata, oltre tre anni fa, dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che in essa profuse tutto il suo impegno civile, a prezzo della sua stessa vita".

Tuttavia gli encomiabili meriti di Chinnici non finiscono qui:

- è tra i primi a capire che la mafia è un fenomeno unitario, dal momento che dietro i numerosi delitti non ci sono solo i singoli esecutori, ma un folto gruppo di persone collegate tra loro che lavorano per gli interessi e il progresso dell'intera Cosa Nostra;

- intuisce (e lo denuncia pubblicamente) gli stretti rapporti tra mafia e importanti centri di potere politici ed economici, rappresentati dai cugini Antonino e Ignazio Salvo, da anni facoltosi esattori delle imposte, massima potenza economica siciliana e insospettabili proprietari di un impero miliardario. Denuncia lo spessore criminale di questi ultimi, nonostante il loro rilevante "peso" in Cosa Nostra, la loro caratura delinquenziale quali "uomini d'onore" della famiglia di Salemi e il loro fondamentale ruolo di anello di congiunzione tra boss mafiosi e politici locali e nazionali (tra i quali Giulio Andreotti) sarebbero stati appurati solo in seguito alle confessioni del boss pentito Tommaso Buscetta;

- scopre che la morte di Peppino Impastato non è stato frutto dell'esplosione di un ordigno da lui stesso collocato, bensì di un tipico delitto di mafia;

- attraverso le indagini bancarie svolte con Giovanni Falcone, non solo scopre che i mafiosi si servono delle banche, ma che esiste un collegamento tra Cosa Nostra e la 'ndrangheta, anche grazie a consistenti passaggi di denaro (dell'ordine di centinaia di milioni di lire) dalla Calabria alla Sicilia;

- sempre insieme a Falcone, scopre i collegamenti internazionali della mafia con il traffico di droga e i numerosi rapporti tra mafia palermitana e mafia americana. Istruendo un processo contro 24 imputati, Chinnici scopre un giro vorticoso di centinaia di milioni con gli Stati Uniti. Nella relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982, Chinnici dice: "Gli utili rilevantissimi ricavati dalla produzione e dalla vendita dell'eroina, calcolati in diverse migliaia di miliardi, attraverso il cosiddetto riciclaggio, operato da istituti di credito, da casse rurali ed artigiane, alcune delle quali gestite - anche se per interposta persona - dagli stessi mafiosi, vengono investiti nell'edilizia, nella trasformazione agraria, in attività commerciali e industriali dall'apparenza del tutto lecita. La mafia continua nell'attività e della produzione e del commercio di sostanze stupefacenti. Le indagini condotte da Falcone hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell'Italia del Nord, con trafficanti di eroina e di armi belgi, francesi, mediorientali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie che operano negli Usa e nel Canada e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi di origine, specie dopo che il centro di produzione dell'eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e fors'anche in Calabria e nel napoletano. Oggi il centro principale degli interessi mafiosi internazionali è costituito dai laboratori clandestini installati in Sicilia; l'isola - al centro del Mediterraneo, in posizione strategica - è anche punto di smistamento e di produzione clandestina di armi";

- solleva pubblicamente il tanto enorme, quanto sottaciuto problema del consumo di droga tra i giovani: "Bisogna capire quanto è triste e sconvolgente vedere dei giovani semidistrutti dall'eroina. Oggi a Palermo abbiamo 3.000/3.500 eroinomani. Fra dieci anni questa cifra potrà raddoppiare. Quale problema, quale dramma! Purtroppo qui da noi, col pressapochismo che ci contraddistingue, questo problema non viene affrontato come si dovrebbe. Si è portati a sottovalutare il problema della droga, i cui effetti deleteri non li vediamo ancora, ma li vedremo fra dieci anni. Perchè il tossicodipendente diventa un peso per la società, oltre che per le famiglie. Le 50.000 lire per le dosi di eroina bisogna trovarle! Come vi spiegate i 50.000 furti all'anno nella città di Palermo? Un'alta percentuale di rapine viene consumata da soggetti drogati. I nuovi accattoni sono i drogati. I furti nell'appartamento, delle autovetture! Ecco il problema, che prima di essere giudiziario è sociale, civile, umano. E i danni di tante famiglie, i suicidi di tanti ragazzi, di qualche genitore, le epatiti da siringa! Come si può rimanere insensibili, inerti? La mafia oggi è diventata la portatrice dei malanni più gravi. Perchè in passato se rapinava, se estorceva, se imponeva il pizzo, tutto sommato non cagionava tutto il male che oggi invece produce con la droga. Mafia e droga sono un binomio inscindibile. La droga è oggi la principale attività della mafia. La droga viene smerciata dalla mafia. La mafia come associazione per delinquere è stata sempre fuori legge. Ma ora è anche contro l'umanità. Il traffico della droga io lo considero un delitto di lesa umanità" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);

- sui rapporti tra mafia e politica ha - come sempre - le idee molto chiare:
"Il potere ha un rapporto spregiudicato di do ut des con la mafia" (da un convegno tenuto a Grottaferrata nel 1978);
"Se la mafia ha legami con il potere, se a volte diventa potere, come può il potere combattere se stesso? Non lo può. E, allora, noi non possiamo parlare di responsabilità di tutti i partiti politici. Noi dobbiamo parlare di responsabilità di quei partiti politici che fino a oggi hanno determinato il potere. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Dobbiamo essere sereni e obiettivi nel formulare i nostri giudizi. Le leggi che si fanno - ma io parlerei di leggi che non si fanno. Che leggi ci ha dato il potere dopo le conclusioni cui è pervenuta la Commissione antimafia? Nessuna legge. E allora: come non possiamo muovere questo gravissimo appunto al potere: ci avete dato leggi atte a combattere il potere mafioso? Non ce le avete date. Noi abbiamo dei discorsi commemorativi. Abbiamo lapidi per i magistrati, i funzionari, gli ufficiali che cadono. Ma per la gente che non ha un ruolo ben definito, che rimane vittima della mafia - che poi vittima della mafia è tutta la società nella quale viviamo - che cosa c'è, che cosa c'è stato in passato? Niente. Il silenzio. I cento morti di Palermo, che sono più di cento: dobbiamo aggiungere ai morti ufficiali le lupare bianche. Dobbiamo aggiungere i ragazzi vittime della droga: non sono questi ragazzi uccisi dalla mafia? Nessuno che abbia una sensibilità normale può esimersi, oggi, dal dare un contributo - quale esso sia - alla lotta contro la droga, che poi significa lotta alla mafia. Di questi ragazzi non ci sentiamo noi tutti responsabili? Veramente mi sento responsabile di questi morti. Perchè sono convinto - dobbiamo essere convinti - che nessuno di noi ha fatto quanto era in suo potere per combattere questa che è la più odiosa delle attività mafiose. Oggi il politico si caratterizza per la amoralità. Quando non si affrontano questi gravi problemi della mafia, quando non si affronta con la dovuta energia il problema della lotta alla droga, allora non siamo noi soli, noi cittadini, responsabili - noi lo siamo per quella indifferenza che ha caratterizzato il nostro comportamento - ma il politico, che avrebbe avuto il dovere di fare e non ha fatto nulla. Ecco perchè quasi un po' il rimorso, il senso di colpa, il problema morale, che devono essere sentiti da tutti , ma specialmente da coloro i quali noi mandiamo col voto al Parlamento per darci le leggi. Le leggi che il politico non ci dà. Le leggi che il legislatore non ci dà. E allora le colpe su chi? Beh, sui giudici, sulla polizia, su chi è chiamato istituzionalmente ad applicare le leggi. Ma se non ce le danno, quali leggi dobbiamo applicare noi? Il garantismo. Certo, il giudice non può condannare se non c'è una legge. Ma le leggi ce le devono dare. E allora, signori miei, il rimedio. Ecco: la mobilitazione delle coscienze. Perchè solo così, quando tutti noi saremo sensibilizzati, da questo momento in poi noi ci sentiamo solidali con chi è caduto, noi avvertiamo imperioso il bisogno di compiere il nostro dovere di cittadini: solo così si potrà dare un contributo per la lotta contro la mafia e contro la droga" (da un convegno organizzato dalla Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);
"La mafia non ha mai avuto credo politico. Se qualche volta, in passato, essa ha preso apertamente posizione, ciò non può essere interpretato in chiave politica, bensì in funzione semplicemente utilitaristica. In Sicilia la mafia sta dalla parte del potere, lo permea, spesso lo condiziona, per trarre dal rapporto con esso il maggior vantaggio possibile" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);
"La pubblica amministrazione è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all'altro alla soluzione del problema. Oggi non c'è opera pubblica in Sicilia che non costi 4 o 5 volte quello che era stato il costo preventivato, non già per la lievitazione dei prezzi, ma perchè così vuole l'impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato un colletto bianco" (da un convegno tenuto a Milano il 2 luglio 1983, 27 giorni prima la strage di via Pipitone);

- si spende strenuamente in difesa della legge Rognoni-La Torre, ovvero la legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha introdotto il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e ha reso obbligatorio il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Partecipando come relatore a un incontro con altri magistrati impegnati in procedimenti antimafia - tenutosi a Castelgandolfo tra il 4 e il 6 giugno 1982 - Chinnici, pur riconoscendo che la mafia possa essere riconducibile entro lo schema dell'art. 416 c.p. (cioè l'associazione per delinquere semplice), sostiene che "data la complessità e le implicazioni di ordine socio-economico e politico connaturate al fenomeno, è grave errore farlo rientrare nella fattispecie dell'art. 416 c.p.. La realtà odierna impone l'urgente e indifferibile necessità di creare la nuova figura del reato di associazione mafiosa con pene diverse e più gravi rispetto alle sanzioni comminate per gli appartenenti alle associazioni per delinquere previste dall'art. 416 c.p.. Sul punto esiste l'articolato disegno di legge presentato dal compianto on. La Torre [deputato comunista ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982. La sua proposta legislativa sarebbe divenuta legge dello Stato solo dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, N.d.A.] e da altri deputati. Se pure, sul piano operativo, non sarà compito facile - attesa la segretezza particolare che regola le organizzazioni mafiose - raccogliere elementi probatori, nessuno che abbia conoscenza del fenomeno può sostenere che la norma dell'art. 416 c.p. sia ancora oggi utilizzabile per combattere efficacemente il fenomeno stesso. La nuova figura del reato di associazione mafiosa, con l'adozione di nuovi e più moderni metodi di indagine (accertamenti bancari, sequestri di beni illecitamente conseguiti, ecc.) demandati a organi di polizia giudiziaria qualificati potrebbe costituire valido mezzo nella lotta contro la mafia. Sempre che ci sia volontà di farla, questa giusta e civile battaglia".
A quei politici che parlano di norma illiberale, antisiciliana e dannosa per l'economia, Chinnici risponde: "Sono siciliano, sicilianissimo e le dico che la legge non è illiberale, non può creare colpi all'economia se rettamente applicata, anzi può sanare l'economia siciliana e quindi non può che essere positivo il mio giudizio. Poi, signori miei, ce la vogliamo porre una domanda da siciliani autentici, non da siciliani che fanno del sentimentalismo fuori luogo? Ce lo siamo mai chiesti perchè la mafia da 40 anni a questa parte non ha fatto altro che accrescere il proprio potere economico e incidere tanto negativamente sulla vita dell'isola?" (da un dibattito trasmesso da Rai Sicilia, in risposta a un deputato regionale che aveva attaccato la legge Rognoni- La Torre).
Non solo i politici, anche certi avvocati sono fermamente contrari alla legge Rognoni-La Torre. Uno di questi - legale civilista del boss Giovanni Bontate (fratello di Stefano) dal 4 dicembre 1983 al 28 settembre 1988 - si sarebbe occupato fino in Cassazione di contestare il sequestro dei beni patrimoniali del padrino (tra cui due grandi imprese di costruzioni, decine di appartamenti e terreni, dal valore complessivo di decine di miliardi di lire) e impedirne la confisca e l'incameramento da parte dello Stato. Durante il processo, il legale avrebbe evidenziato addirittura i "fondati e sostanziali rilievi di incostituzionalità della legge Rognoni-La Torre", di recentissima approvazione. Tale avvocato si chiama Renato Schifani e attualmente ricopre la carica di Presidente del Senato. Non solo era stato l'Ufficio di Chinnici ad aver emesso il mandato di cattura e l'ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti di Giovanni Bontate per associazione a delinquere nel traffico di stupefacenti, ma il penalista Paolo Seminara - l'altro difensore nominato insieme a Schifani da Bontate (all'epoca incarcerato all'Ucciardone di Palermo) - era stato citato nel diario personale di Chinnici: "Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due". Uno di questi era proprio l'avvocato Seminara;

- sul caso Sindona così si esprime: "Che cosa costituisce la vicenda del banchiere siciliano se non un emblematico esempio di intrecci non del tutto chiari tra potere politico-finanziario e mafia? Rimane fermo e accertato il rapporto tra Sindona e i gruppi mafiosi siculo-americani dediti alla produzione e al commercio di sostanze stupefacenti. Indubbiamente oscuri interessi e attività criminose - solo parzialmente scoperte - sono alla base di rapporti nei quali sarebbe ingenuo ritenere coinvolti soltanto Sindona e il gruppo mafioso palermitano Spatola-Inzerillo" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- interviene anche in merito ai frequenti silenzi della Chiesa: "La Chiesa non può rimanere insensibile". In caso contrario, un cardinale "verrebbe meno ai suoi doveri sacerdotali. In un incontro a Grottaferrataio parlai di taluni preti mafiosi. Purtroppo, abbiamo avuto qualche prete mafioso: è storia. Però, ecco, la Chiesa ha il dovere sacrosanto di intervenire. Se la Chiesa tace, incorre - a mio giudizio - in un gravissimo errore, perchè viene meno alla sua missione. Speriamo che ogni parroco, ogni sacerdote, ogni suora , ogni religioso consideri anche questo impegno contro la mafia, contro la droga, come un preciso dovere del suo ministero. Io credo che su questo dovere non si possono avere - neppure lontanamente - dubbi" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);

- a chi addebita all'intera cittadinanza una collaborazione con la mafia dovuta al proprio silenzio, replica: "Non si può accusare di collaborazionismo una cittadinanza che ha visto uccidere il titolare dell'albergo Costa Smeralda che aveva collaborato. Non si può accusare di collaborazione una cittadinanza che non ha alcuna protezione nel potere, una cittadinanza che è stata abbandonata dal potere, una cittadinanza che vede la mafia padrona quasi assoluta della vita, dei beni, degli interessi economici della società. In queste condizioni io assolverei per insufficienza di prove e non condannerei. In queste condizioni io direi che semmai si può parlare di paura. Paura che avvinghia. Paura che attanaglia. Paura che fa preferire i 3 mesi di carcere per falsa testimonianza o per favoreggiamento, purchè si continui a vivere, se vita può essere quella di coloro i quali sono costretti a subire giornalmente la violenza mafiosa" (da un'intervento a un dibattito tenuto presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);

- intuisce i rapporti tra Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta: "Esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni [Sicilia, Calabria e Campania, N.d.A.]. Tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio di eroina, sono in rapporto con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d'origine siculo-calabro-napoletana, destinatarie dell'eroina prodotta in Sicilia e in Calabria ed operanti negli Usa e nel Canada". Inoltre denuncia i "rapporti concreti sicuramente illeciti tra i gruppi mafiosi delle tre regioni, con i collegamenti nelle città industrializzate, Torino e Milano in modo particolare" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- comprende la trasformazione della mafia in impresa: "L'accumulazione degli enormi profitti - tratti dalla produzione e dal commercio degli stupefacenti, dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri, dalle estorsioni, dal cosiddetto pizzo, dai sequestri di persona - ha trasformato le famiglie mafiose in società imprenditrici. E' questa una realtà nuova. Le famiglie mafiose sono diventate delle vere imprese che operano nell'edilizia, nell'agricoltura e nel commercio; pertanto, oltre che forza reazionaria e criminale, collegata da sempre col potere, la mafia, oggi, è diventata potenza economica che condiziona financo il potere" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- segnala con forza il legame tra mafia e potere: "Oggi più che ieri, la mafia - inserita com'è nella vita economica dell'isola - non può fare a meno dei rapporti col potere; lo dimostrano avvenimenti, piuttosto recenti, che hanno visto imprese mafiose aggiudicarsi appalti di opere pubbliche per decine di miliardi estromettendo altre concorrenti, non mafiose, o comunque non legate alla mafia. La mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo nella vita siciliana, non può avere incidenza politica, se abbandona schemi collaudati da oltre un secolo, se - forte della potenza economico-finanziaria raggiunta - allenta i vincoli che la legano al potere. E se è vero che, per il raggiungimento di determinati obiettivi illeciti, ha mutato metodi e sistemi gangsteristici, è fatto incontestabile che il rapporto con certi settori del potere permane tuttora. Indubbiamente, le imprese mafiose che operano nell'edilizia, nell'agricoltura, nel commercio, proprio per il fatto che creano posti di lavoro e producono ricchezza possono incidere nel tessuto socio-politico ed economico della regione, nel senso che in occasione di consultazioni elettorali possono orientare parte dell'elettorato. Là dove esistono condizioni economico-sociali depresse, la mafia può approfittarne per accrescere la propria potenza e il proprio prestigio" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- è convinto che nei processi di mafia gli elementi probatori debbano essere valutati in maniera diversa (pur nello spirito della legge) rispetto ai processi "semplici", riguardanti ad esempio le rapine.

L'innovativa attività antimafiosa del giudice Chinnici non si palesa solo nelle parole, ma soprattutto nei fatti. Nei poco più di 3 anni e mezzo in cui l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo è retto da Chinnici si segnalano svolte epocali per l’antimafia:

1) vengono arrestati e condannati il fratello di Stefano Bontate (Giovanni), Rosario Spatola e altri boss di notevole calibro per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga;

2) lo stesso Chinnici conduce personalmente (e instancabilmente) fino a pochi giorni prima di morire le indagini basate su un rapporto giudiziario redatto dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo e depositato in Procura il 13 luglio 1982. Tale rapporto - scaturito dall’emergenza della seconda guerra di mafia - è di fondamentale importanza per la ricostruzione del fenomeno mafioso, poichè denuncia i crimini di ben 162 mafiosi (Corleonesi e non), tra cui i più importanti esponenti di vertice, come Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Montalto e Salvatore Buscemi (la maggior parte dei quali sino ad allora sconosciuti). Si tratta della prima grossa indagine che punta dritto all’ala corleonese e ai suoi numerosi omicidi volti a scalare i vertici dell’organizzazione mafiosa e a controllare gli imponenti traffici di droga.
Il rapporto giudiziario - denominato "dei 162" - avrebbe poi costituito l'ossatura del procedimento istruito dal pool di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli che - a sua volta - avrebbe portato al celebre maxiprocesso.
Tale rapporto comprende:

- le indagini in tema di associazione a delinquere anche finalizzata allo spaccio di droga;

- l'intera serie di omicidi avvenuta fra il 23 aprile 1981 (uccisione di Stefano Bontate) e il 17 aprile 1982 (uccisione di Salvatore Corsino), giustamente interpretati come espressione di una contrapposizione fra famiglie mafiose per ragioni egemoniche. Nel rapporto si profila che, dopo una tregua di circa 3 anni seguita all’omicidio di Giuseppe Di Cristina (30 maggio 1978), l’uccisione di Stefano Bontate (capo della famiglia di Santa Maria del Gesù) e - a brevissima distanza - quella di Salvatore Inzerillo avevano segnato l’inizio di una lunga serie di omicidi interpretata come la manifestazione di una faida tra famiglie mafiose, per contendersi la partecipazione ai traffici di droga. Sempre nel rapporto si evidenzia che un gruppo vicino ai Corleonesi si era opposto a un altro gruppo mafioso facente capo a Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e ai loro alleati. In tale contesto le uccisioni di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo vengono valutate come una rottura degli equilibri preesistenti fra le famiglie mafiose, in attuazione di un disegno egemonico della mafia vincente (i Corleonesi) in danno di quella perdente di Bontate e Inzerillo.

Il 17 agosto 1982, poco più di un mese dopo il deposito del rapporto, l’Ufficio diretto da Chinnici emette un mandato di cattura a carico di 87 persone - appartenenti sia all’ala "moderata" che a quella emergente (fra cui i latitanti Giuseppe, Salvatore e Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto) - per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, per fatti commessi fino al 12 luglio 1982 (cioè un mese prima). Sempre nell’ambito del medesimo procedimento, nel 1983 Chinnici emette un ulteriore mandato di cattura per gli stessi indagati (più Antonino La Rosa, dunque nei confronti di 88 persone) e per gli stessi reati contestati fino al 18 gennaio di quell’anno. Il 31 maggio 1983 Chinnici emette un terzo mandato di cattura per ben 125 persone legate ai clan dei perdenti e degli emergenti (tra cui gli stessi dei due precedenti, come i latitanti Michele Greco, Salvatore Greco, Giuseppe Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e il detenuto Salvatore Montalto), per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga, contestata sino al 5 maggio 1983 (cioè 26 giorni prima). E ancora, sempre nell’ambito della stessa inchiesta, Chinnici coordina un’operazione conclusasi con un quarto mandato di cattura emesso da Giovanni Falcone il 9 luglio 1983 (20 giorni prima dell’omicidio di Chinnici) a carico di 14 indagati (tra cui, i latitanti Michele e Salvatore Greco, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano). Tra i reati ipotizzati: tentato omicidio (di Salvatore Contorno) e omicidio (del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di 3 Carabinieri e dei boss mafiosi Alfio Ferlito, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo). Nell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo l'8 novembre 1985 (che avrebbe dato il via al maxiprocesso), si legge:
"E' estremamente significativo che la reazione mafiosa, poi sfociata nell'attentato contro il cons. Chinnici, sia maturata non appena questo ufficio ha emesso, il 9.7.1983, mandato di cattura contro i più autorevoli esponenti della mafia. Allora era stato dimostrato, con l'emissione del mandato di cattura suddetto, che erano stati esattamente individuati la matrice e i moventi di tanti efferati assassinii. Sotto questo aspetto, dunque, l'atroce fine del cons. Rocco Chinnici - del capo, cioè, di quell'ufficio che aveva emesso il mandato di cattura in questione e del magistrato che aveva impresso un decisivo impulso alle indagini sulla mafia - costituisce l'amarissima conferma della fondatezza dei risultati raggiunti e dell'attendibilità delle prove acquisite".
Le indagini sul rapporto "dei 162" avrebbero avuto un impulso decisivo solo dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta il quale - oltre a confermarne la ricostruzione della situazione criminale mafiosa ivi operata - avrebbe fornito ulteriori decisivi elementi che avrebbero condotto alla scoperta dall’interno di questa organizzazione criminale, inchiodando alle loro responsabilità anche i cugini Salvo.
E' infine impressionante come la storia di questo rapporto giudiziario si sia intersecata con la condanna a morte di tante persone che vi avevano lavorato con impegno e professionalità: oltre a Rocco Chinnici, il Vice Questore Aggiunto di Polizia Antonino Cassarà e l'Agente di Polizia Roberto Antiochia (trucidati a Palermo il 6 agosto 1985, avevano sottoscritto il rapporto), i giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (fatti saltare in aria tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, l'8 novembre 1985 avevano depositato l'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio per 475 imputati di mafia, grazie alla quale si era celebrato il maxi-processo). Un rapporto, dunque, cosparso dalla lunga scia di sangue. Anzi, al rapporto "dei 162" è indirettamente collegata anche l’uccisione del luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima (12 marzo 1992), caduto in disgrazia agli occhi di Cosa Nostra - a cui era stato vicino - per gli esiti negativi del maxi processo che si era concluso in Cassazione il 30 gennaio 1992 con la conferma di pesantissime condanne e con l’annullamento con rinvio di tante assoluzioni;


3) essendo Chinnici titolare, personalmente, di numerose inchieste delicate (tra cui il rapporto "dei 162"), intuisce – attraverso perizie balistiche comparative compiute su bossoli e proiettili usati in occasione di taluni delitti – che esiste un unico filo conduttore tra l'inchiesta "dei 162" sopra richiamata e gli omicidi “politico-mafiosi” dell’epoca (Michele Reina - segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, 9 marzo 1979; Piersanti Mattarella - presidente della Regione Sicilia nelle fila della Democrazia Cristiana, 6 gennaio 1980; Pio La Torre - deputato del Partito Comunista, 30 aprile 1982; Carlo Alberto dalla Chiesa - prefetto di Palermo, 3 settembre 1982). Il tutto nell’ottica di una visione globale e unitaria dei suddetti delitti. Chinnici scopre che le armi utilizzate contro il generale dalla Chiesa erano state adoperate in precedenza per gli altri omicidi e che gli assassinii di Bontate e Inzerillo, nonché il tentato omicidio di Salvatore Contorno, erano stati opera dei clan vincenti (Greco e Riina), che avevano così voluto eliminare i loro concorrenti nel traffico internazionale di droga. Chinnici capisce che tutti i sopra menzionati episodi criminosi presentano un’identica chiave di lettura e si inquadrano nella spietata guerra intrapresa contro le cosche Bontate, Inzerillo e Badalamenti. Per questa ragione vuole effettuare una maxi perizia balistica per verificare gli eventuali collegamenti fra gli omicidi "politici" avvenuti tutti nel giro di soli 3 anni e mezzo, sul presupposto che un unico filo conduttore leghi tali crimini a quelli di più evidente matrice mafiosa, in un intreccio di interessi convergenti. Chinnici è così convinto di questa tesi da ipotizzare la riunione in un solo, grande procedimento del rapporto "dei 162" e degli omicidi dalla Chiesa e La Torre, così da poter dimostrare un'unica matrice mafiosa comune agli omicidi "politici" e a quelli tipicamente mafiosi, entrambi rispondenti a un unico disegno criminoso e caratterizzati da analoghe modalità esecutive;

4) nell’ambito delle indagini relative alla seconda guerra di mafia emerge il coinvolgimento dei cugini Nino e Ignazio Salvo; pertanto entrambi vengono indiziati di associazione mafiosa. Il loro coinvolgimento nelle vicende connesse alla guerra di mafia degli anni ’80 è ancorato a una telefonata intercettata pochi giorni dopo l’omicidio di Salvatore Inzerillo nel corso della quale i predetti - tramite il parente Ignazio Lo Presti, legati allo schieramento dei "moderati" - implorano Tommaso Buscetta di ritornare a Palermo dal Brasile per tentare la riappacificazione delle famiglie e cercare di arginare la guerra di mafia in corso;

5) le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo ricevono un incalzante e decisivo impulso tradottosi in risultati concreti, fra cui l’emissione di numerose ordinanze di rinvio a giudizio (nonostante la Procura chiedesse sempre il proscioglimento) e di mandati di cattura a carico di alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra, fra cui gli esponenti di vertice (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto);


6) sotto la direzione di Rocco Chinnici, non solo vengono istruiti per la prima volta gravi procedimenti penali contro mafiosi di elevato spessore criminale, ma - proprio negli ultimi mesi di vita del giudice - sfociano in severe sentenze di condanna emesse dal Tribunale e dalla Corte d’Assise di Palermo. Tra i mafiosi condannati per associazione a delinquere nel traffico di droga (novità sconvolgente per personaggi che avevano prosperato in lunghi anni di impunità), Giovanni Bontate (fratello di Stefano), Nunzio La Mattina e Rosario Spatola, i cui mandati di cattura erano stati emessi dall'Ufficio di Chinnici;

7) Chinnici partecipa continuamente a convegni, incontri e dibattiti sul tema della legalità anche nelle scuole, trasmettendo ai giovani il suo straordinario impegno civile. In un'intervista rilasciata alla rivista palermitana "Segno" nel 1981, alla domanda "Che fare?" Chinnici risponde:
"La mia fiducia è nelle nuove generazioni. Nel fatto che i giovani – credenti, non credenti, della sinistra, democratici, di nessuna militanza politica – si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. I giovani devono insorgere contro la mafia e la sua droga, con tutte le forze e il coraggio che hanno. Bisogna avere la consapevolezza e il coraggio di mobilitare tutte le forze vive e responsabili della società". Per poi aggiungere: "Noi abbiamo il dovere di reagire in tutti i modi come componenti di questa società. E ciò in particolare devono farlo gli educatori nelle scuole, i padri di famiglia, i politici, i sacerdoti,...".
Ciò non è certo ben visto da Cosa Nostra, considerando che tali iniziative rappresentano l'inaugurazione di un nuovo modo di propaganda antimafia.

Tuttavia Chinnici e il suo limitato gruppo di magistrati antimafia devono affrontare non poche difficoltà:

1) l'atteggiamento blando della Procura palermitana. In un grosso processo di mafia istruito da Chinnici, la Procura chiede il proscioglimento per insufficienza di prove, ma Chinnici rinvia ugualmente a giudizio tutti gli imputati. Al dibattimento il Pm conferma le sue richieste assolutorie e la Corte le accoglie. In un altro grosso processo di mafia, stesso copione: Chinnici rinvia a giudizio gli imputati, in dibattimento la Procura chiede l’assoluzione per insufficienza di prove. Quella volta, però, la Corte condanna, anche se solo per ricettazione di targa rubata;

2) un senso di sfiducia si determina dopo l'uccisione di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo (21 luglio 1979). Costui aveva condotto una strenua battaglia contro i mafiosi e li aveva denunciati per una grossa rapina consumata ai danni della Cassa di Risparmio nel 1979. Un giorno di quello stesso anno Giuliano aveva telefonato, preoccupato, a Chinnici: aveva avuto sentore che a due grossi killer mafiosi estremamente pericolosi si voleva concedere la scarcerazione. Allora Chinnici aveva parlato con il magistrato istruttore del processo, il quale - nonostante avesse una richiesta di scarcerazione (per mancanza di indizi) da parte della Procura - aveva promesso a Chinnici che li avrebbe tenuti in carcere. Peccato che - utilizzando una cartella clinica del carcere - dopo una settimana li avrebbe scarcerati in libertà provvisoria, nonostante ciò fosse impossibile per un’imputazione di “rapina pluriaggravata”. Per questo Chinnici aveva giudicato quest'atto un fatto "estremamente grave che generò perplessità e sfiducia negli organi di polizia";

3) quando il Procuratore Capo di Palermo Gaetano Costa (da solo, contro i suoi sostituti procuratori) firma e convalida 55 arresti a seguito di un'inchiesta su mafia, banche, appalti, attività economiche e droga, la conseguenza è un’eco grandissima. La stampa pubblicizza all’esterno un fatto interno alla Procura, ovvero la diversità di vedute tra Costa e i suoi sostituti. Costa avrebbe voluto dare un volto nuovo alla Procura, rendendone più democratica la gestione: da qui la sua decisione di convocare tutti i magistrati in un’assemblea, dove poi si sarebbero verificati i contrasti. Sorti perchè:

- i sostituti pensano che la mafia sia un’associazione per delinquere qualsiasi, per colpire la quale occorra provare singoli fatti delittuosi;

- Costa invece ritiene che la mafia sia già di per sé un’associazione per delinquere, per cui è sufficiente provare collegamenti e legami tra diversi soggetti per convalidare il loro arresto.

Costa è un magistrato equilibrato, molto prudente, pacato, non certo avventato o emotivo. Compie quell’atto (la convalida degli arresti) dopo aver meditato ed essersi reso conto che andava fatto. Punto. Ma per Palermo è un fatto inedito: è infatti la prima volta che i sostituti mostrino remore e perplessità in un processo di rilevante gravità. Era successo spesso in processi "semplici" (il sostituto non convalida e l’indagato viene scarcerato), mai in procedimenti così importanti e delicati.

Chinnici è consapevole che una tale presa di posizione (convalidare - in solitudine - numerosi mandati di cattura) e la sua pubblicizzazione sui giornali avrebbe comportato serie difficoltà anche al suo ufficio, poiché tutti si sarebbero aspettati la scarcerazione. Invece Falcone - confermando l'impostazione del Procuratore Costa - emette i mandati di cattura. Da quel momento Chinnici riceve la prima telefonata di minacce a casa, poiché si diffonde la voce - infondata - che sia stato Chinnici ad aver imposto a Falcone l'emissione dei mandati di cattura. Sono i primi giorni di giugno del 1980. Chinnici viene svegliato di notte: “che intenzioni ha Lei con i processi di Palermo?”. Da qui altre telefonate. Una – ricevuta a casa e ricordata da Chinnici come “la più brutta” – dice: “il nostro tribunale ha deciso che Lei deve morire e l’ammazzeremo comunque, dovunque Lei si trovi”. Quando Chinnici va da Costa (di cui era amico) per riferirgli il contenuto di quella telefonata, il Procuratore risponde: "in questa città [Palermo, N.d.A.] non c’è da fidarsi di nessuno, non si può più vivere". Chinnici riceve altre minacce, anche per iscritto, dall’America: in una (ricevuta per cartolina postale alla fine del 1981) vengono elencate le beatitudini, del tipo: "beato chi ti farà del male, beato chi parlerà sempre male di te, beato chi ti distruggerà, …". L'uccisione di Costa (6 agosto 1980) traumatizza Chinnici, il quale rimane per 3 giorni sotto shock, nonostante a Palermo si vedano ogni giorno molti morti: Costa era a Palermo da soli 2 anni e viene ucciso quando – presa conoscenza dell’ambiente palermitano – inizia a intraprendere un’azione antimafiosa molto efficace. E’ stato insomma tolto di mezzo per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato;

4) nel settembre/ottobre 1980 - quindi poco dopo l'assassinio di Gaetano Costa - quasi tutti i magistrati della Procura stilano un documento in cui si parla di "enfatizzazione delle misure di sicurezza a garanzia dei magistrati" (cioè le scorte) e di "mitizzazione della mafia". In esso si critica anche l’Ufficio Istruzione retto da Chinnici, per l'assegnazione dei processi solo a determinati magistrati. Anche se tale documento avrebbe dovuto essere trasmesso al Csm, non solo ciò non avviene, ma non se ne sa più nulla. Si verifica un terribile scontro in Procura tra 2/3 sostituti procuratori e tutti gli altri (firmatari del documento). Mentre i servitori fedeli dello Stato perdono la vita e rischiano ogni giorno la pelle, quelle rivendicazioni appaiono sinistre, assurde o - per usare i termini di Chinnici - "retoriche e piene di enfasi";

5) molti non vogliono che Costa prima, Chinnici poi realizzino approfondite indagini bancarie (conti correnti, assegni, libretti di risparmio,…). Il Procuratore Costa – fino a pochi mesi prima di morire - aveva insistito nel chiedere alla Guardia di Finanza indagini approfondite su appalti e attività economiche di Cosa Nostra, ma i finanzieri non le finivano mai. Allora Chinnici deve agire personalmente, in solitudine: è lui che acquisisce tutta la documentazione, convoca i direttori di banca con i documenti che gli servono, sequestra ed emana ordini di esibizione;

6) il rapporto tra l'Ufficio Istruzione di Chinnici e la Procura di Palermo è difficile. Addirittura, all’inizio, non c'è nessuna collaborazione, dal momento che la Procura continua a ritenere i processi istruiti da Chinnici “vacanti”, cioè senza elementi e basati sul nulla. Solo in un secondo momento -  quando in Procura cominciano a rendersi conto che i processi voluti da Chinnici e dalla sua squadra non sono “vuoti” e che i magistrati hanno il dovere di sfruttare al massimo gli elementi probatori disponibili - inizia una valida collaborazione, ma solo con pochi e determinati sostituti procuratori. Un piccolo passo in avanti, se si pensa che prima i Pm erano soliti chiedere il proscioglimento per insufficienza di prove e interrogare gli indagati con mandato di comparizione (non di cattura);

7) i mafiosi conoscono in anticipo le indagini del gruppo di Chinnici, ancor prima dell'emissione dei mandati di cattura. Ciò grazie a canali di informazione su cui l'organizzazione criminale può contare, tra cui le collusioni di alcuni funzionari e impiegati del Palazzo di Giustizia di Palermo. I massimi vertici di Cosa Nostra sono persino al corrente dei conflitti tra la Procura e l'Ufficio Istruzione circa l'emissione dei mandati di cattura;

8) Chinnici è costretto a lavorare in una situazione di estremo disagio, a tal punto da non sapere a chi affidare i processi di mafia. Di fatto - come lui stesso ammette - può contare sull'appoggio di soli 2, 3, 4 giudici (tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), gli unici ritenuti validi nel fare a fondo il proprio dovere. Non avendo quindi a disposizione un numero congruo di magistrati per gestire l'enorme mole di lavoro (ne sarebbero serviti almeno una dozzina), Chinnici è costretto ad affidare a sè medesimo la gestione dei procedimenti antimafia. L'Ufficio Istruzione di Palermo conta solo sulla spiccata professionalità di alcuni magistrati, in un clima di quasi generale indifferenza, il che determina una sensazione di isolamento e una pericolosa sovraesposizione. Le numerose minacce di morte ricevute da Chinnici e da alcuni colleghi lo dimostrano.

Ora, Cosa Nostra - per la prima volta - ha paura e teme per la sua stessa sopravvivenza: quel giudice, Rocco Chinnici, ha rotto drasticamente gli equilibri che per decenni avevano garantito ai boss l'impunità. E' così che le varie faide interne all'organizzazione criminale cessano di fronte al nemico comune: sia i Corleonesi usciti vincitori dalla seconda guerra di mafia, sia i "moderati" sconfitti hanno un imminente interesse a eliminare quel giudice ficcanaso. Si realizza una perfetta comunione di intenti all'interno di Cosa Nostra: in gioco c'è la vita dell'intera organizzazione mafiosa. E' pur vero che la maggiore responsabilità debba essere attribuita ai Corleonesi, visto che nel luglio del 1983 sono loro a controllare l'intera Commissione Provinciale di Palermo (alla quale compete in via collegiale la sentenza di morte).
Nonostante la mafia tenti di "avvicinare" Chinnici per indurlo a più miti consigli, egli si rivela solidamente incorruttibile e inavvicinabile, pertanto l'unico modo che Cosa Nostra ha per fermarlo è ucciderlo. In tal modo i mafiosi avrebbero ottenuto più risultati:

- eliminare un magistrato che finalmente aveva voluto combattere la mafia con incisività e determinazione;

- vendicarsi delle numerose indagini compiute e prevenirne altre;

- lanciare un avvertimento a tutti gli altri giudici che ne avessero proseguito l'opera (Falcone e Borsellino in testa, già all'epoca minacciati di morte);

- stroncare ogni tentativo delle Istituzioni di reprimere duramente gli interessi della mafia (tra cui il traffico di droga);

- inaugurare una strategia terroristica finalizzata a creare un clima diffuso di intimidazione e a scoraggiare qualsiasi ulteriore azione di contrasto.

Non è allora un caso se la mafia inizi a progettare l'omicidio di Chinnici già a partire dall'estate 1982 (cioè un anno prima della strage), servendosi anche di frequenti pedinamenti ai suoi danni. E non è un caso se pochi giorni prima di morire Chinnici abbia detto: "C’è la mafia che spara, la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi, c’è l’alta finanza legata al potere politico. Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati".
Ma perchè non ucciderlo sparando colpi di arma da fuoco come era sempre stato fatto fino ad allora? Perchè un atto terroristico?
Si tratta di una scelta inevitabile per Cosa nostra, dal momento che l’apparato di sicurezza messo in campo per salvaguardare Chinnici è tale da impedire un avvicinamento degli assassini. Ne sarebbe quasi certamente nato un conflitto a fuoco con i membri della scorta. Troppo rischioso. Si opta così per l’autobomba, anche per ottenere un effetto intimidatorio maggiore. E' verosimile che la tecnica sia stata “importata” dalla camorra napoletana, con cui i mafiosi palermitani avevano rapporti: Vincenzo Casillo, il braccio destro del boss Raffaele Cutolo, era stato ucciso il 29 gennaio 1983 proprio con un’autobomba a Roma mentre era latitante.
I mafiosi usano un telecomando a vista, azionato da un camion parcheggiato sul lato della via Pipitone Federico opposto a quello ove si trova l’abitazione di Chinnici e la Fiat 126 imbottita di tritolo. Il furgone non solo dista 87 metri dal portone di casa Chinnici, ma da esso si ha un’ottima visibilità sull’intera via. Il camion viene completamente ignorato dai carabinieri di scorta, concentrati sulle immediate vicinanze del portone di casa e sulla figura del magistrato. Si presta attenzione (ed è inevitabile che così sia, data l’assenza di precedenti diversi) all’arrivo di auto o moto che, avvicinatisi a Chinnici, avrebbero potuto far fuoco. Come avrebbe poi rivelato il maresciallo del Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Palermo, Ignazio Pecoraro, che la mattina della stage supporta la scorta:
"Ci aspettavamo di tutto tranne che un fatto simile ; cioè si aspettava la classica fucilata , la raffica. Non pensavamo mai a una cosa simile. Il servizio nostro era volto a prevenire la fucilata , la raffica di mitra, la macchina che passa e spara . Siccome non si era mai verificato fino ad allora il fatto di avere già la macchina là ferma, carica, con la bomba sopra… per noi era molto improbabile".
Niente bonifiche, niente controlli alle vetture parcheggiate, niente divieti di sosta: solo il blocco del traffico nel momento in cui Chinnici è solito uscire di casa. Peccato che Giovanni Brusca parcheggi la 126 verde di fronte la casa di Chinnici prima delle 7 di mattina (più di un’ora prima che il magistrato esca per recarsi al lavoro) e che allo stesso tempo Giovan Battista Ferrante (boss del mandamento di San Lorenzo) parcheggi il camion lì appresso. Il pulsante di attivazione viene premuto da un fedelissimo di Salvatore Riina, Antonino Madonia, figlio del capo-mandamento di Resuttana, nel cui territorio è compresa la via Pipitone Federico. E’ lo stesso Madonia che (arrestato il 10 gennaio 1971 grazie a un mandato di cattura di Chinnici per detenzione abusiva di esplosivo, associazione per delinquere e strage) la sera del 5 dicembre 1982 -quasi 8 mesi prima di premere il fatidico pulsante - si trovava all’interno dello stabile ove risiedeva la famiglia Chinnici. Il giudice, subito informato da un amico, si era molto preoccupato.
Non è certo un caso se tra i condannati in via definitiva per la morte di Chinnici ci siano i boss su cui il giudice aveva indagato e verso i quali aveva emesso numerosi mandati di cattura: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Stefano Ganci, Calogero Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Antonino Madonia, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante.

      Il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi

Una delle molte, grandi lezioni che il giudice Chinnici ci ha lasciato è la determinazione nel proseguire sempre le giuste battaglie e la lotta alla criminalità. Pur perfettamente consapevole degli enormi rischi cui andava incontro (basta leggere il suo diario personale per rendersene conto), non ha mai arretrato, non si è mai lasciato corrompere, proseguendo instancabilmente il suo lavoro di onesto, preparato e tenace uomo delle Istituzioni, fino al sacrificio della propria stessa vita. In una delle sue ultime interviste aveva detto: 
"La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e - anche se cammino con la scorta - so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce nè a me, nè agli altri giudici di continuare a lavorare. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo, battagliero. Gente con i piedi per terra, attenta, accurata".
Come un magistrato di nome Rocco.

In primo piano - da sinistra a destra - Antonino Cassarà, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici
(© Franco Zecchin). 
Tutti assassinati da Cosa Nostra tra il 1983 e il 1992.