domenica 19 maggio 2013

OBIEZIONE ALL'OBIETTORE


Quella che segue è la storia di due donne: una è sottoposta a intervento di aborto farmacologico, l'altra è in servizio di guardia medica. 
E' la notte tra il 24 e il 25 maggio 2007, quando nel reparto di ostetricia e ginecologia del presidio ospedaliero di San Vito al Tagliamento (Pordenone) viene eseguito l'aborto, indotto per via farmacologica. Successivamente, inizia la fase espulsiva (il secondamento), durante la quale i possibili rischi di emorragia sorti preoccupano l'ostetrica, che richiede l'intervento alla dottoressa di guardia. Questa però si rifiuta categoricamente di visitare e assistere la paziente, in quanto obiettrice di coscienza. Mette subito in chiaro che non si sarebbe mai occupata dell'aborto terapeutico della paziente, rifiutandosi persino di entrare in sala parto.
Interviene il primario del reparto, il quale, pur essendo anch'egli obiettore di coscienza, prima impartisce telefonicamente alla dottoressa negligente ordini di servizio (ai quali sarebbero seguiti quelli del direttore sanitario), poi - di fronte all'ennesimo rifiuto di questa - è costretto a recarsi in ospedale per intervenire d'urgenza. Inutili quindi persino gli ordini impartiti dal primario e dal direttore amministrativo, nonostante abbiano spiegato alla dottoressa come fosse suo preciso dovere prestare assistenza alla paziente, visto che ciò non avrebbe significato partecipare all'aborto, già praticato da un altro medico.
Il primario assiste così la paziente nella fase finale del secondamento, eseguita manualmente. Il feto viene espulso, ma ancora la guardia medica si ostina a non assistere la paziente, pur non essendo stata espulsa la placenta.

Ebbene, la vicenda approda nelle aule di giustizia.
In tutti i gradi di giudizio la dottoressa viene condannata per il reato di rifiuto di atti d’ufficio, in quanto, incaricata di un pubblico servizio, ha rifiutato indebitamente di compiere un atto del proprio ufficio che - per ragioni sanitarie - doveva invece eseguire senza ritardo. La pena definitivamente inflitta è stata:

- 1 anno di reclusione (sospesa con la condizionale);
- 1 anno di interdizione dall'esercizio della professione medica;
- 8.000 euro di risarcimento danni alla parte civile.

Sia il Tribunale di Pordenone (sentenza del 6 novembre 2009), sia la Corte d'appello di Trieste (sentenza del 21 dicembre 2012), sia infine la Cassazione (sezione VI penale, sentenza 2 aprile 2013, n.14979) hanno stabilito che la dottoressa non potesse invocare il diritto di obiezione di coscienza. Infatti secondo l'art. 9 della legge 194/78, l'obiezione di coscienza esonera il medico solo dal "compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento"
Pertanto il medico non può invocare l'obiezione di coscienza nè per l'assistenza precedente, nè per quella successiva all'intervento abortivo, quest'ultima particolarmente utile per evitare possibili rischi per le condizioni cliniche e di salute della donna. Deve, pertanto, intervenire: il medico obiettore ha il diritto di rifiutare di determinare l'aborto (chirurgicamente o farmacologicamente), ma non quello di omettere di prestare assistenza prima o dopo i fatti causativi dell'aborto, poichè deve comunque assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell'intervento di interruzione della gravidanza. 
Insomma, il diritto di obiezione di coscienza non esonera il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento di interruzione di gravidanza, poichè tale diritto trova il suo limite nella tutela della salute della donna. Ciò è dimostrato dal fatto che sempre l'art. 9 della legge 194/78 esclude il ricorso all'obiezione di coscienza quando l'intervento del medico sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo". In tal caso, l'intervento del medico obiettore riguarda sì la fase "specificamente diretta a interrompere la gravidanza", ma il diritto dell'obiettore affievolisce - fino a scomparire - di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute.
Nella vicenda sopra descritta, la dottoressa si è invece rifiutata di prestare la più volte richiesta assistenza alla donna quando questa si trovava in una fase successiva all'intervento abortivo (precedentemente eseguito da un altro medico), quindi non in una fase "diretta a determinare l'interruzione della gravidanza". Motivo per cui il fatto che la paziente non si trovasse in imminente pericolo di vita non giustifica il comportamento della dottoressa. 
Peraltro, essendosi trattato di aborto farmacologico, la guardia medica avrebbe potuto invocare l'esonero da obiezione di coscienza solo durante la predisposizione e la somministrazione dei farmaci abortivi (ovvero "le procedure e attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione"); per il resto - cioè per tutte le fasi conseguenti all'intervento - la dottoressa era obbligata a intervenire per assicurare cura e assistenza alla paziente.
La gravità della condotta del medico - per cui le sono state negate le attenuanti generiche - è dovuta al fatto di essersi ostinatamente e reiteratamente rifiutata di compiere un atto sanitario (l'assistenza a una paziente) richiesto insistentemente da personale infermieristico e medico, in una situazione rischiosa (anche se non particolarmente grave) per la paziente.
Il medico avrebbe dovuto visitare immediatamente il paziente, soprattutto considerando che il suo intervento era stato richiesto da personale sanitario qualificato, in grado di valutare l'effettiva necessità della sua presenza. Il tutto avendo interpretato il diritto all'obiezione di coscienza riconosciuto dalla legge n. 194/78 "in maniera limitata e strumentale, tale da non poter essere giustificata in relazione a convinzioni religiose, comunque in contrasto con gli obblighi derivanti dalla stessa professione medica" (per usare le parole della Cassazione).
La dottoressa non solo ha agito con dolo (fin dalla sua entrata in servizio di guardia medica ha precisato che non si sarebbe mai occupata dell’interruzione terapeutica di gravidanza della paziente, anche dopo gli ordini del primario e del direttore amministrativo), ma in malafede. Infatti ella possiede quelle competenze professionali necessarie per rendere impensabile la buona fede o l'ignoranza della legge n. 194/78, che conosce di certo, se non altro perchè ha scelto di esercitare un diritto (l'obiezione di coscienza) previsto proprio da quella legge e perchè ha continuato - senza giustificazione alcuna - a rifiutare di assistere la paziente nonostante le richieste e le spiegazioni a lei esposte dal primario e dal direttore amministrativo. 
In fondo, se un medico esercita il diritto di obiezione di coscienza, si deve presupporre sia pienamente consapevole dei limiti entro cui possa esercitarlo. Almeno in teoria.




P.S. La storia raccontata dimostra l'esistenza di medici che esercitano l'obiezione di coscienza nel pieno rispetto della legge. E' il caso del primario che - obiettore - ha ordinato alla dottoressa negligente di prestare aiuto alla paziente ed è intervenuto in prima persona (visti i continui rifiuti della collega) per assistere la donna ed eseguire manualmente l'ultimazione della fase espulsiva del feto.
Il principio non è poi così difficile: basta comportarsi secondo quanto previsto dalla legge. Punto.
Ecco perchè le parole messe nero su bianco dalla Cassazione nella sentenza sopra citata dovrebbero essere scolpite in tutti gli ospedali italiani, fungendo da ammonimento per tutti quei medici e infermieri che - da veri fanatici religiosi - invocano a sproposito l'obiezione di coscienza, violando la legge e i diritti delle donne: 

“In sostanza, la legge tutela il diritto di obiezione entro lo stretto limite delle attività mediche dirette all’interruzione della gravidanza, esaurite le quali il medico obiettore non può opporre alcun rifiuto dal prestare assistenza alla donna. D'altra parte, il diritto all'aborto è stato riconosciuto come ricompreso nella sfera di autodeterminazione della donna e se l'obiettore di coscienza può legittimamente rifiutarsi di intervenire nel rendere concreto tale diritto, tuttavia non può rifiutarsi di intervenire per garantire il diritto alla salute della donna, non solo nella fase conseguente all'intervento di interruzione della gravidanza, ma in tutti i casi in cui vi sia un imminente pericolo di vita”.

2 commenti:

  1. Il principio quindi è questo, se lo prevede la legge un medico può uccidere un essere vivente mentre se la legge non lo permette un altro medico non può ucciderne la mandante del primo delitto evitando di curarlo.

    Non interessa a nessuna la vita o la morte delle persone ma solo che venga rispettata la legge

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    1. Soltanto ipotizzare che la legge permetta a una persona di ucciderne un’altra è una violazione della logica più elementare, di ogni comune buon senso e della legge stessa. Quest’ultima, infatti, non solo non è in contrapposizione con la vita - che tutela pienamente - ma punisce tutti coloro i quali ne provochino la cessazione, compiendo un omicidio.
      Inoltre, accostare ripetutamente il sostantivo “medico” al verbo “uccidere” è terrificante, così come definire l’aborto un “delitto” e la donna che decide di praticarlo “la mandante del delitto”.
      L’aborto – piaccia o meno - è un diritto della donna. Pertanto, quando ella pone fine alla propria gravidanza (nei termini consentiti) non commette alcun reato, per il semplice motivo che si limita a esercitare un diritto riconosciutole dalla legge (da ormai 35 anni), ricompreso in quello dell’autodeterminazione. Anche i medici obiettori che si comportano secondo quanto ammesso dalla normativa esercitano un diritto. Quando però intendono usufruirne in maniera illecita, cioè nei casi dove le norme espressamente non permettono loro di invocare l’obiezione di coscienza, violano la legge e commettono un abuso. Oltre che un reato.

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