sabato 25 ottobre 2014

C'ERA UNA VOLTA...

Oggi voglio raccontarvi una storia.

C'era una volta una ragazza siciliana.
Cosa Nostra uccise prima il padre mafioso (Vito), poi il fratello mafioso (Nicola), infine il "secondo padre" (Paolo Borsellino), al quale aveva deciso di riferire tutti i crimini di cui era stata incolpevole testimone.
Una settimana dopo la strage di via D'Amelio, si suicidò, lanciandosi nel vuoto dal proprio appartamento al 7° piano di un palazzo di Roma.
Non riusciva a sopportare la perdita di un "uomo coraggioso dal quale ho imparato tante cose: la prima che nella vita non ci si deve inchinare alla prepotenza" e "che raccontare la verità aiuta a rimanere sereni e a posto con la propria coscienza" (da una lettera che lei stessa aveva scritto a Borsellino).
Scelse di vedere, di sentire e di parlare.
Si chiamava Rita Atria.
Al momento del suicidio aveva 17 anni, quasi 18.


C'era una volta una ragazza calabrese.
La 'ndrangheta uccise prima il padre mafioso (Antonio), poi lo zio mafioso (Giulio), infine il fratello mafioso (Floriano). 
Si innamorò di un diciassettenne (Carlo Cosco) e rimase incinta.
Si chiamava Lea Garofalo. 
Al momento del parto aveva 17 anni, quasi 18.


C'era una volta una ragazza calabrese.
E' la figlia di Lea Garofalo.
La madre decise di esporre alla magistratura e alle forze dell'ordine tutti i crimini mafiosi di cui era stata incolpevole testimone, compresi quelli commessi dal compagno.
Voleva così garantire a se stessa e alla figlia un futuro diverso, una vita migliore.
Per questo venne sequestrata, interrogata per sapere ciò che aveva detto agli uomini dello Stato, massacrata di botte, strangolata, rovesciata in un fusto pieno di benzina, bruciata e buttata in un tombino.
Come fosse spazzatura.
Nonostante il padre mafioso Carlo Cosco e i suoi scagnozzi le avessero portato via la persona più importante della sua vita, la ragazza riuscì a farsi forza e con il cuore ancora sanguinante, ma ravvivato dall'esempio materno, si convinse a rivelare tutto quello che sapeva.
Parlò con i magistrati e con i carabinieri.
Testimoniò di fronte alla Corte d'Assise di Milano nel processo per l'omicidio di Lea.
Sul banco degli imputati sedevano sei uomini, tra i quali suo padre (Carlo Cosco), due suoi zii (Vito Cosco e Giuseppe Cosco) e due suoi cugini (Rosario Curcio e Carmine Venturino, al quale era stata sentimentalmente legata).
Secondo i giudici di 1° grado, la sua deposizione "è assai preziosa, [...] è il teste chiave e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentali per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori". Esse "forniscono un racconto estremamente ampio, articolato, che abbraccia una molteplicità di temi ed episodi percorrendo quindici anni di vita".
Insomma, la coraggiosissima ragazza fu assolutamente determinante perchè fosse fatta giustizia: 6 ergastoli in 1° grado, commutati dalla Corte d'Assise d'Appello in 4 ergastoli, 1 condanna a 25 anni di reclusione (Carmine Venturino) e 1 assoluzione per insufficienza di prove (Giuseppe Cosco. Tuttavia i giudici milanesi di 2° grado vollero precisare non solo che "gli elementi emersi a suo carico" non consentivano "di affermare la sua assoluta estraneità ai fatti", ma che i "suoi trascorsi penali e giudiziari" lo collocavano "sicuramente" all'interno di "contesti criminali").
Come Lea, anche la figlia scelse di vedere, di sentire e di parlare.
Si chiama Denise.
Al momento dell'assassinio della madre aveva 17 anni, quasi 18.


Pur costrette a vivere in un contesto familiare e ambientale dove sopraffazioni, omicidi, ricatti e violenze rappresentano la quotidianità, queste tre ragazze, queste tre donne, non ne condivisero mai i disvalori.
Anzi, denunciarono alle autorità competenti i delitti che avevano visto o di cui erano venute a conoscenza, perchè compresero che quello era il solo modo per poter finalmente ottenere la libertà tanto sognata.
Le loro storie di vita sono accomunate dall'aver voluto dare significato e dignità a una parola tanto preziosa, quanto ignorata: TESTIMONIANZA.
Essa trova il suo massimo splendore nella lettera aperta rivolta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (chiedo scusa alle signore per la parola "Napolitano") che Lea Garofalo scrisse e inviò ad alcuni giornali nazionali nell'aprile 2009, pochi mesi prima di essere barbaramente uccisa (la missiva - chissà perchè - sarebbe stata pubblicata solo il 2 dicembre 2010 da "il Quotidiano della Calabria", quando ormai la sua autrice non c'era più):

"Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto, lei rispondesse alle decine, se non centinaia di persone oltre a me che oggi si trovano nella mia stessa situazione. Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiano mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo e ad aver saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza. Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può, nonostante tutto! La prego signor presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello".

Ecco, avendo fatto di tutto per occultare all'opinione pubblica il contenuto delle proprie telefonate con Nicola Mancino (e purtroppo gli è andata bene) e per non rendere TESTIMONIANZA al processo in corso a Palermo sulla trattativa Stato-mafia (e per fortuna gli è andata male), Giorgio Napolitano (chiedo di nuovo perdono alle signore per la parola "Napolitano") ha sì lanciato un segnale, forte e chiaro.
Ma non di speranza.
Di qualcosa che puzza molto di omertà.

E vissero tutti (in)felici e (s)contenti. 


P.S. C'era una volta un ragazzo campano.
All'università faceva parte del Guf, Gruppo Universitario Fascista.
Si chiama Giorgio Napolitano (chiedo scusa - ormai in ginocchio - alle signore per la parola "Napolitano"). 
Al momento della sua militanza nel fascismo, aveva 17 anni, quasi 18.

Giorgio Napolitano: <<Uhm...che faccio? Parlo o non parlo? No, dai, stavolta no!>>

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