Carlo Casalegno (1916-1977) |
"Gli scandali offendono la nostra coscienza morale; è giusto
e persin troppo naturale condannarli. Ma ritengo che danneggino la comunità
assai meno che il disgregarsi dalla autorità e dalla forza dello Stato,
l'inefficienza del sistema politico ed amministrativo, il lento scivolare verso
forme di disordine endemico e di anarchia, le vittorie degli interessi di
gruppo sul vantaggio della collettività. Gli scandali sono reati; ricadono
sotto la sanzione della legge penale e la magistratura può colpirli. Soppresse
le norme fasciste che proteggevano le colpe dei funzionari, oggi non esistono
immunità. Ma il sabotaggio dello Stato attraverso la non collaborazione o lo
sciopero, i cedimenti degli amministratori alle pressioni private entro i
limiti delle leggi, il distacco dei politici dai problemi concreti e dei
cittadini dalla cosa pubblica non sono reati: sfuggono alle sanzioni della
giustizia, non implicano rischi. Ogni società moderna offre tentazioni
frequenti alla fragilità umana dei funzionari, vasti campi di guadagno ai
margini dell'illecito, occasioni nuove di complicità tra politica ed affari.
Gli scandali che finiscono davanti al magistrato non mi spaventano. Mi sgomenta
invece quello <<smantellamento, materiale e morale delle istituzioni>>, cui si
assiste ogni giorno attraverso fatti che la legge non punisce"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Grave ma non troppo (Gli scandali non sono il male più inquietante del nostro Paese)" e pubblicato su "La Stampa" del 17 giugno 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
"I laici non conoscono una Verità da difendere o da impone,
ma l'eguale diritto per tutti di esprimere la propria verità; ed allo Stato
chiedono di non avere una fede, ma di assicurare a tutte gli stessi diritti.
Perciò il laicismo <<non ha fatto il suo tempo>>, ma resta un'ideologia ed una
politica sempre attuale.
Il divorzio è solo uno dei punti, sia pure il più
appassionante e discusso, di un programma laico: lo chiediamo non per attaccare
la dottrina della Chiesa od imporre ai cattolici di rinnegare la propria
visione della famiglia, ma per consentire ai cittadini italiani che non ci
credono di risolvere secondo una legge civile, accettata in quasi tutto il
mondo, i problemi della loro vita familiare. Altrettanto importante, anche se
meno popolare, è garantire a tutti gli italiani quell'eguaglianza religiosa, e
quindi giuridica, che la Costituzione prescrive e che i Patti lateranensi
limitano gravemente. Il Concordato fa dell'Italia (l'affermazione è di Jemolo)
uno <<Stato confessionale>>: con una <<religione di Stato>>, una situazione di
privilegio per il clero cattolico, l'impegno del braccio secolare ad assistere
gli ecclesiastici negli atti del loro magistero spirituale […], una scuola che
riconosce nella dottrina cattolica <<il fondamento e coronamento dell'istruzione
pubblica>>, la prevalenza della legislazione canonica su quella civile in
materia matrimoniale.
E' desiderabile che il Concordato sia rivisto attraverso
negoziati fra Stato e Chiesa, con un accordo soddisfacente tra le due parti. Ma
è necessario che il governo non dimentichi l'impegno di iniziare sollecite
trattative con il Vaticano; e difenda con risolutezza la sovranità dello Stato
ed il carattere aconfessionale della Repubblica: è un principio di libertà che
non consente privilegi, ma giova anche all'autentica vita religiosa. Per il
richiamo ai diritti dello Stato, nella polemica i laici sono accusati spesso di <<statolatria>>: e dopo le tragiche esperienze della dittatura fascista
quest'accusa ha praticamente il valore di un'ingiuria. Dovrebbe essere
superfluo spiegare che, per i laici democratici, il senso dello Stato non
conduce all'imposizione di un dogma profano, politico, al posto di un dogma
confessionale, ma è rifiuto di ogni dogmatismo. Se lo Stato democratico ha una
religione, è - per quanto sembri retorico - la religione della libertà:
eguaglianza dei cittadini, distinzione tra reato e peccato, fiducia nell'uomo,
neutralità del potere di fronte alle idee. Perciò lo Stato laico rifiuta ogni
integralismo: sia quello tradizionale che vuol salvare le anime con leggi
moralizzatrici, sia quello pronto ad imporre la giustizia evangelica con la
rivoluzione"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Cos'è essere laici" e pubblicato su "La Stampa" del 30 settembre 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
Carlo Casalegno |
"Questa è una delinquenza di
professionisti, esecutori e mandanti, che spesso la voce pubblica indica con
esattezza, ma cui assicurano l'impunità la paura delle vittime e dei testimoni,
l'insufficienza delle indagini, lo scrupolo della magistratura e soprattutto
vaste reti di complici autorevoli.
[...] è difficile accettare come un fatto ineluttabile
che la mafia continui ad arricchire, e ad uccidere per distendere gli illeciti
guadagni, perché abusi amministrativi, indulgenze burocratiche, protezioni
politiche le consentono di taglieggiare l'isola [la Sicilia, N.d.A.]. La Commissione
antimafia ha dimostrato oltre ogni dubbio che la <<mafia dei cantieri>> prospera
sull'incetta dei terreni, sulla speculazione edilizia, sulle costruzioni
abusive [...].
Il racket non è monopolio della
Sicilia e non prospera soltanto sulle rapide trasformazioni di una società
arretrata. La mafia si è estesa in Calabria [...]. Ha risalito la Penisola, mischiandosi
alla delinquenza locale ed operando nei mercati - generali come nei
night-clubs: a Genova, per un boss della malavita ucciso in un regolamento di
conti, si sono avuti funerali sul modello americano dì <<Cosa nostra>>. Mafia e
camorra taglieggiano il mercato ortofrutticolo; gruppi di gangsters impongono
una costosa <<protezione>> non solo ad alberghi, locali notturni e case da gioco
del Sud. Persino a distributori di benzina che rifiutavano di scioperare era
posta la scelta tra la taglia e l'attentato al plastico: ci furono ottanta
esplosioni in dodici mesi.
[...] in Sicilia il costo della mafia rimane troppo alto: per
il numero di vittime, per il saccheggio delle risorse economiche, per il veleno
che diffonde nella vita pubblica dell'isola.
E' demagogia o fuga dalla realtà
progettare riforme a lunga scadenza, che dovrebbero tagliarne le radici
risanando l'ambiente.
Occorre anzitutto un'energica repressione, non solo
penale ma amministrativa, che colpisca esecutori, mandanti e complici delle
illegalità; e occorre la volontà politica di non adoperare la mafia come
strumento di potere.
Senza questa pulizia preventiva, la mafia riuscirebbe a
paralizzare le riforme od a sfruttarle: già si è trasformata con vantaggio da
agricola in urbana, e si muove con sicurezza tra cantieri, uffici e assemblee"
Carlo Casalegno, editoriale intitolato "I mitra a Palermo" e pubblicato su "La Stampa" del 12 dicembre 1969.
"[...] il gusto della violenza, il disprezzo della legge, le esplosioni di
collera, la propensione all'estremismo, il rifiuto della ragione incominciano
a diffondersi in misura inquietante.
Non è un fenomeno soltanto italiano.
[...] Ma in quasi tutta l'Europa, ormai in pace
da un quarto di secolo, ricostruita sulle rovine del '45, profondamente
rinnovata dal crescere di una generazione che non porta i segni di un passato
tragico, si osservano un diffuso ritorno alla violenza ed un preoccupante
risveglio di passioni irrazionali.
E si riaprono vecchi conflitti, che
s'aggiungono ai motivi nuovi di turbamento.
[...] Ovviamente, sono fenomeni che non si possono affrontare soltanto con
misure di polizia, né con una risposta intollerante dell'opinione pubblica.
[...] Quando una moda, una smania od
una rivolta diventano fenomeni collettivi, vuol dire che rispondono a impulsi
di fondo. Ci dev'essere qualcosa d'insoddisfacente nel nostro mondo, se tanti
giovani cercano di evadere nel misticismo politico, nella parodia della
rivoluzione, nell'esercizio gratuito della violenza, nella droga; ed il
processo di trasformazione socioeconomico deve imporre ad alcuni gruppi un
prezzo assai alto, se i bottegai si danno alla guerriglia, o in molte fabbriche
il timore della seconda rivoluzione industriale provoca il ritorno a vecchie
forme di luddismo.
[...] L'altro giorno, commentando su Le Monde lo scioglimento
di <<sinistra proletaria>> e l'arresto del direttore di La cause du peuple,
André Fontaine ammoniva a non gettar via <<con l'acqua del bagno anche il
bambino>>, cioè la libertà, e indicava come unica politica davvero utile il
tentativo di ricuperare i giovani estremisti della contestazione.
D'accordo;
però occorre rispettare alcune condizioni, che in Italia ed altrove sono spesso
trascurate.
La repressione non basta, ma il rispetto
della legalità è la premessa indispensabile per qualsiasi politica di riforme.
Finché non cambi l'uomo e non ritorni l'età dell'oro, la polizia e la
magistratura - operanti nell'ambito della legge e sottoposte al libero giudizio
dell'opinione pubblica - rimangono due pilastri insostituibili della società
civile; a mio parere sbagliano i democratici che alimentano nei confronti della
polizia una sorta di <<pregiudizio sfavorevole>>, ed i magistrati che per
contrasti di parte rischiano di attenuare la fiducia nella certezza del
diritto.
La seconda condizione è il consolidamento dello Stato, arbitro
necessario tra i gruppi; la rinuncia dei poteri pubblici prepara la strada alla
violenza privata, all'anarchia e alla dittatura.
Sarebbe indispensabile, soprattutto,
un ritorno alla Ragione: l'Europa ha sperimentato nella sua carne dove
conducano i miti irrazionali della nazione, della razza, del populismo
demagogico, della rivoluzione. Ma si può sperare che le prediche servano a
qualcosa?"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Violenza e polizia" e pubblicato su "La Stampa" del 2 giugno 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
"La convinzione così
diffusa, ed in parte esatta, d'essere mal governati non nasce da
un'irrimediabile degenerazione delle strutture statali; dipende, a mio parere,
soprattutto dal distacco crescente tra la società e lo Stato: cioè dalle riforme
mancate.
E non ne sono responsabili soltanto i partiti, la classe politica, ma
tutti i gruppi di potere e noi stessi, i milioni di cittadini.
II vero scandalo italiano, e la nostra inferiorità a paragone dei Paesi più
avanzali dell'Occidente, sta nel rinvio sistematico delle riforme più
importanti, anzitutto di quella fiscale, e nell'arretratezza dei servizi
sociali: la casa, la scuola, l'assistenza sanitaria. Il Paese ha avuto uno
sviluppo impetuoso, ma squilibrato; è entrato per produzione e reddito nella
pattuglia degli Stati all'avanguardia, ma conservando leggi, strutture e
difetti da zona depressa. Le tasse indirette, le più ingiuste, rendono
all'erario quasi due volte il gettito delle imposte dirette. Nessuna legge
urbanistica ha limitato la speculazione sulle aree e consentito una crescita
razionale delle città. Non c'è rapporto tra costo ed efficienza nel meccanismo
mutualistico. Tutti i servizi pubblici funzionano male. E potremmo continuare.
E' una crisi non priva di attenuanti: anche per il più solido dei governi nel
migliore dei Paesi sarebbe stato arduo realizzare tempestivamente le riforme
imposte dalle trasformazioni economiche e sociali, che l'Italia ha vissuto
negli ultimi vent'anni.
Ma diventa impossibile superare la crisi, quando alla
debolezza del potere politico si unisce l'egoismo corporativo dei cittadini, si
invocano le riforme rifiutando di pagarne il costo, ed ogni gruppo dà l'assalto
allo Stato nel totale disinteresse per il vantaggio comune"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Pessimismo con giudizio" e pubblicato su "La Stampa" del 4 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
"[...] non sono soltanto nostri i problemi, denunciati dal primo
ministro francese, d'una <<società bloccata>> che non riesce a tradurre in
progresso sociale ed umano lo sviluppo tecnologico ed economico; o le tensioni [...] risultanti dallo squilibrio tra consumi privati ed
investimenti d'interesse collettivo; o la difficoltà di uno sviluppo
programmato, che riduca anziché accrescere il distacco tra le zone di punta e
le aree depresse; o la complessa ricerca di rapporti, aggiornati alla società
che sta nascendo, tra proprietà e potere, gigantismo burocratico e <<partecipazione>>, autonomie locali o corporative ed interesse comune.
Su
parecchi di questi punti, noi ci troviamo a mezza strada fra i pochi Paesi
all'avanguardia ed i molti Stati alla retroguardia. Siamo in ritardo di alcune
riforme essenziali: a cominciare, per esempio, da quella urbanistica.
Ma mi
pare giudizio troppo semplicistico attribuirne la colpa tutta e soltanto ai
cattivi <<politici>>.
Nelle molte lettere di condanna senza appello dello Stato italiano, nessuno dei miei critici rivela, per quanto ho capito, il minimo
sospetto che i cittadini abbiano una parte di responsabilità nelle disfunzioni
del nostro Paese.
Eppure, a guardar bene, stiamo aspettando invano soprattutto
le riforme che colpirebbero direttamente gli interessi privati: in denaro,
orgoglio municipale, privilegi corporativi.
Si chiede la riforma fiscale,
purché colpisca altri gruppi.
Si vogliono leggi urbanistiche, senza rinunciare
all'anarchia delle costruzioni.
Si protesta contro l'eccesso della spesa
pubblica, ma si rifiuta anche il trasferimento di una pretura.
Si invoca l'<<ordine>>, però gli stessi funzionari organizzano cortei in piazza.
Gli scioperi
che offendono sono sempre quelli degli altri.
Si deplora la debolezza dello
Stato, e tuttavia molti italiani continuano a tenere per i ladri contro le
guardie"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Tutta colpa dei politici?" e pubblicato su "La Stampa" del 18 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
Carlo Casalegno |
"Fra pochi anni vedremo un sottile minareto innalzarsi
verso il cielo insieme con i cento campanili di Roma? E' probabile, ed è
ragionevole.
In Italia vivono decine di migliaia di musulmani; Roma ospita due
corpi diplomatici ed organismi internazionali, con funzionari e delegati di
fede islamica in percentuale crescente, ed è la più importante stazione di
transito del Mediterraneo.
La costruzione d'una moschea risponde ad esigenze
religiose, e anche d'ospitalità, che il nostro governo non può ignorare; il
consenso di principio è assicurato, rimangono da risolvere soltanto i problemi
pratici.
D'una moschea in Roma si parla fin dagli anni '30 [...], ma senza concludere nulla: il veto della Santa Sede bastava per
scoraggiare le autorità italiane.
Anche in anni più vicini non mancò qualche
resistenza all'idea d'inserire una moschea nel panorama urbano e religioso di
Roma; si suggeriva di costruirla fuori porta, a Fiumicino, in campagna, con un
compromesso ibrido che non avrebbe accontentato gli ospiti, né fatto onore
all'imparzialità della Repubblica in materia di culto.
[...] Superati gli ostacoli di principio,
rimangono due questioni pratiche: dove collocare la moschea ed a chi addossarne
le spese.
Un contributo italiano alla costruzione, che non apparisse un
tentativo assai goffo di comprare la benevolenza dei produttori di petrolio, ma
fosse una dignitosa testimonianza di spinto ecumenico, potrebbe incontrare il
consenso di laici e cattolici.
E' più difficile scegliere il terreno adatto per
edificarvi il tempio: se non appare equo respingerlo nella lontana periferia,
non sarebbe saggio inserirlo in modo pacchiano o chiassoso nel tessuto
urbanistico e culturale di Roma. La città ha un volto già troppo deturpato da monumenti
umbertini, colossi mussoliniani e abusi speculativi; la moschea non può essere
un secondo Altare della Patria, né conviene che il minareto schiacci i
campanili o sovrasti San Pietro. E' questa la sola e giusta preoccupazione
espressa dal Vaticano, che accetta invece senza riserve il principio d'un
tempio islamico in Roma.
[...] Consentendo alla moschea, il Vaticano
dimostra d'interpretare il riconoscimento del carattere <<sacro>> di Roma,
scritto nei Patti lateranensi, in modo non incompatibile con l'eguaglianza
religiosa e la laicità dello Stato scritte nella Costituzione della Repubblica.
[...] Ci
sono però gruppi di cattolici che non sembrano disposti ad accettare questa
interpretazione.
O sono fermi, per vocazione integralista, alle tesi pacelliane [cioè espresse da Eugenio Pacelli, Papa Pio XII, N.d.A.];
o, per non sopita avversione al laicismo risorgimentale, restano ecumenici a
metà; aperti al dialogo con tutte le confessioni, soprattutto del Terzo Mondo,
in politica interna sono legati a nostalgie clericali.
[...] Costruire una
moschea in Italia per acquistare meriti presso gli arabi, sarebbe un calcolo
meschino; vedere nel tempio islamico di Roma un gesto di riparazione per i
secoli d'intolleranza, sarebbe un altro di quei pensieri futili in cui indugia
così volentieri il masochismo antistorico di certi europei.
Ma forse
l'occasione è propizia per ricordare agli amici arabi che non conviene a nessun
Paese del Medio Oriente o del Nordafrica ripetere gli errori del nostro
passato. Quando l'Europa era chiusa nell'intolleranza religiosa, ebrei ed
eretici cercarono rifugio in terre islamiche; sarebbe una tragedia assurda se
la spinta nazionalistica conducesse i nuovi Stati verso il fanatismo
confessionale che noi in Occidente abbiamo ripudiato"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "La moschea di Roma" e pubblicato su "La Stampa" del 23 gennaio 1974.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
"Può darsi che attorno alle prime indagini sullo scandalo del
petrolio [esso riguardava l'enorme flusso di tangenti pagate dai petrolieri ai politici, al fine di comprarsi le leggi a proprio esclusivo vantaggio e ai danni della collettività, N.d.A.] circolino voci allarmistiche o romanzesche; ma che siano stati
commessi reati gravi d'imboscamento, di frode e di corruzione a danno sia dei
cittadini che dello Stato è una certezza: lo dicono i magistrati, lo ammettono
indirettamente gl'inquisiti, lo capisce l'opinione pubblica.
Le incertezze
riguardano l'entità del danno e il numero dei colpevoli, le sedi giudiziarie e
i tempi delle inchieste, la fermezza che magistrati e politici dimostreranno
nel togliere dall'ombra tutta la verità.
Le indagini sono appena incominciate,
e subito emergono conflitti di competenza giudiziaria, causa d'inevitabili
inquietudini per gl'italiani scottati da tante esperienze negative.
Sembra che
alcuni dei sospettati preferiscano un'imputazione più grave pur di sfuggire
all'inchiesta dei pretori: brutto segno. Anche l'esortazione a una severa e
inconsueta difesa del segreto istruttorio suscita perplessità.
Ma al problema
delle competenze non si può sfuggire, trattandosi d'una catena di reati di
gravità non ancora definita e commessi in più sedi.
I petrolieri inquisiti sono
di Genova, l'Unione petrolifera sta a Roma; in Roma lavorano i funzionari che
si sospettano complici, le direzioni dei partiti finanziati con <<fondi neri>>;
e il codice stabilisce limiti stretti al lavoro dei pretori: i reati più gravi
ricadono sotto la giurisdizione delle procure e dei tribunali.
La rapida
definizione delle competenze e (se imposta dalla legge) la pronta unificazione
delle indagini possono giovare a un sollecito accertamento della verità,
prevenire quegli incidenti procedurali che così spesso offrono scappatoie ai
colpevoli, evitare i conflitti che hanno pregiudicato, ad esempio, l'inchiesta
Valpreda.
I <<pretori d'assalto>> non sono gli unici magistrati che abbiano la
volontà d'indagare e i mezzi per farlo; ma l'opinione pubblica esige che la
scelta dei giudici competenti non sia ritardata da gelosie municipali o
sottigliezze bizantine, che l'accentramento delle indagini non offra
l'occasione per insabbiarle o diluirle in tempi lunghi, che gl'inquirenti non
cedano alle pressioni di potenti interessi e neppure alla <<ragion di Stato>>.
Non sarebbe carità di patria coprire i funzionari corrotti per salvare il
prestigio d'un ministero o del governo, e gli uomini di partito complici dei
petrolieri per non seminare diffidenza nella classe politica: sono le
reticenze, le solidarietà mafiose, i silenzi sugli scandali che stanno
distruggendo la fiducia nelle istituzioni e logorando il prestigio dello Stato.
Ogni cittadino ha pagato di tasca sua un prezzo per le speculazioni sul
petrolio, durante una crisi da cui il Paese può uscire soltanto con un duro
sforzo collettivo: colpire i corruttori ed i corrotti, per quanto in alto si
trovino, è una necessità politica prima ancora che morale"
Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Colpire corruttori e corrotti" e pubblicato su "La Stampa" del 7 febbraio 1974.
Carlo Casalegno |
"[...] sarebbe [...] distruttivo sottovalutare la gravità della crisi, o
illudersi di poter disgiungere gli aspetti politici da quelli morali.
La crisi
è anzitutto di sfiducia, negli uomini e nelle istituzioni; e senza fiducia non
si possono mobilitare le energie necessarie alla ripresa.
La strada per
sfuggire al precipizio passa attraverso il coraggio d'affrontare gli scandali,
di giungere alla verità senza lasciare alle opposizioni il comodo monopolio
della denuncia, d'imporre misure di risanamento.
I <<Watergate>> nostrani non
investono l'intera classe politica. Ma confermano l'esistenza di legami stretti
ed occulti tra governo e sottogoverno, partiti e aziende, pubblici affari e
politica; denunciano l'estendersi - non contrastato con la doverosa energia - di una concezione mafiosa del potere, applicata con spregiudicatezza da
ambiziosi padrini.
Gli scandali sono un'occasione per fermarli: non si
salverebbe un Paese gestito come <<Cosa nostra>>"
Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Il coraggio della verità" e pubblicato su "La Stampa" del 15 febbraio 1974.
"I terroristi organizzati colpiscono a sorpresa, uscendo dalla
clandestinità e scomparendo in rifugi predisposti e protetti dai complici: solo
incidenti o errori in azioni li rendono vulnerabili.
La polizia, per quanti
sforzi faccia, riesce a proteggere soltanto un numero limitato di personaggi e
di obbiettivi. Può difendere l'ambasciatore tedesco, <<condannato a morte>> per
rappresaglia; non ciascuno dei ventimila o cinquantamila cittadini che possono
essere, in qualunque momento, colpiti dai nuovi terroristi: politici pressoché
sconosciuti o capi officina, giornalisti o avvocati.
Infiltrare informatori
nelle cellule terroristiche è un'impresa ardua sempre, ma disperata oggi, dopo
lo sconquasso dei servizi segreti.
E' dunque inutile farsi delle illusioni in
una sollecita sconfitta del terrorismo: continueranno gli attentati, cadranno
altre vittime.
Ma allo Stato non mancano i mezzi - legittimi,
costituzionalmente corretti - per ridurre lo spazio e l'impunità dei
terroristi, per tagliare le reti dei favoreggiatori e dei complici, per rendere
più difficili gli arruolamenti dei killers; e soprattutto per isolare i nuclei
ristretti di professionisti del terrorismo dai gruppi ben più vasti che
predicano e praticano la violenza politica, e offrono al terrorismo coperture,
aiuti, nuove reclute, azioni di fiancheggiamento.
L'aspetto più preoccupante
della crisi dell'ordine pubblico in Italia consiste, infatti, nella
molteplicità e nell'estensione dei gruppi che formano il <<partito armato>>:
abbiamo i Nap e le Br, simili alla Raf tedesca; ma abbiamo anche una quantità,
ineguagliata in Occidente, di formazioni squadristiche rosse o nere, in grado
di scatenare violenze, frequenti e coordinate, in gran parte dei maggiori
centri urbani.
Questi gruppi non vivono, come i brigatisti rossi e nappisti, in
clandestinità: li conosce la polizia, li conoscono i cittadini; spesso hanno
sedi ufficiali, tengono assemblee, pubblicano giornali.
Fino a quando svolgono
un'attività politica, per quanto di un esasperato estremismo, esercitano un
diritto garantito dalla legge democratica, che non ammette censura sulle
opinioni.
Ma quando organizzano o favoriscono azioni violente, provocano o
compiono azioni delittuose, quei gruppi escono dalla legalità, e non possono
chiedere allo Stato né tolleranza, né impunità. Le sedi politiche, in questo
caso, diventano <<covi>>, e vanno chiuse; e i militanti politici, trasformati in
squadristi, debbono essere perseguiti come autori di reati.
Finora governo,
magistratura, polizia hanno risposto con il rigore consentito, anzi voluto
dalla legge?
Il problema è delicato: meglio esagerare negli scrupoli, quando si
difendono i diritti di libertà.
Ma occorre pur chiedersi se l'Autonomia rimanga
nei limiti del lecito, se non si trasformi in associazione per delinquere,
quando programma, impone, organizza scontri armati e introduce i suoi
guerriglieri nei cortei per trascinarli alla violenza; quando nelle assemblee
si applaude l'assassinio di Schleyer [Hanns Martin Schleyer, presidente degli industriali della Repubblica Federale
Tedesca, con un passato nelle SS. Rapito a Colonia il 5 settembre 1977 dall'organizzazione di estrema sinistra Rote Armee
Fraktion (RAF), venne ucciso 43 giorni dopo, il 18 ottobre 1977. Il corpo fu ritrovato in Francia il giorno seguente, all'interno del bagagliaio di
un'automobile, N.d.A.], o si spingono gli studenti alla <<rappresaglia>> antitedesca; quando ospedali o laboratori universitari sono
occupati, devastati, usati come terreno di battaglia contro lo Stato.
Si è
chiesta giustamente la chiusura di sezioni missine, che sono centrali
squadristiche; ma conviene sollecitare dalla magistratura, con imparziale
rigore, anche la perquisizione di certe sedi dell'estrema sinistra, dove i
militanti sembrano regolarmente rifornirsi di armi improprie.
E bisogna
domandarsi se sia stato saggio lasciare incontrastate o impunite, per timore
d'incidenti più gravi, centinaia di azioni criminali, forse lievi in sé ma pericolose
nel loro metodico ripetersi, dai picchettaggi duri nelle scuole ai cortei
vandalici, dalle incursioni degli autoriduttori alla paralisi di servizi
pubblici.
[...] per stroncare la violenza non bastano
gli interventi a caldo dei carabinieri. Sono necessarie le indagini preventive
della polizia, l'attività assidua e operante della magistratura, la volontà
politica. Occorre prosciugare le sorgenti, di mobilitazione e di propaganda,
che alimentano la guerriglia; colpire con estrema durezza i traffici di armi ed
esplosivi; e fare il vuoto attorno al terrorismo, con un'attenta vigilanza
anche sulle complicità indirette, magari coperte dall'impegno professionale o
dalle irresponsabili trasmissioni di certe radio <<libere>>.
Anche l'opinione
pubblica ha un compito importante in quest'opera di risanamento: quello di
isolare provocatori o demagoghi"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Rossi, neri chiudere i <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 26 ottobre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
"Ventiquattr'ore dopo la perquisizione e la chiusura di tre
sedi degli Autonomi, in Roma e in Torino, un gruppo di brigatisti rossi
milanesi ha colpito alle gambe un dirigente dell'Alfa Romeo.
Tra i due
avvenimenti non sembra esistere un rapporto diretto; e forse neppure tra le due
organizzazioni. L'attentato di Milano non è una rappresaglia; è uno tra i tanti
gesti d'intimidazione terroristica che le Br, coperte da una rigorosa
clandestinità, stanno metodicamente eseguendo contro capifabbrica, giornalisti,
funzionari, politici di medio rango, per seminare paura e per avvilire le
vittime: nei colpi alle gambe c'è qualcosa dello sfregio mafioso. Né finora
sono stati scoperti, tra i terroristi e il Movimento, collegamenti operativi;
del resto, sarebbero pericolosi per un'organizzazione che trae la sua forza dal
segreto e dall'impenetrabilità.
Esistono tuttavia, tra il terrorismo e le
formazioni eversive dell'estrema sinistra, rapporti indiretti e un'obbiettiva
complicità. Br, Nap, Prima linea con l'azione armata clandestina, i fanatici
dell'ultrasinistra con i cortei violenti, i sabotaggi, le spedizioni
squadristiche, la pratica organizzata dell'illegalità conducono, utilizzando
mezzi diversi, una stessa guerra alle istituzioni, ai princìpi della convivenza
civile, a interessi primari, politici ed economici, della collettività. E le
organizzazioni oltranziste non clandestine offrono al terrorismo una
solidarietà dichiarata, anche se talvolta critica; una copertura psicologica!
una vasta schiera di giovani combattivi, tra cui poter trarre nuove reclute. Non per caso Br e Autonomi hanno le stesse radici politiche, la stessa matrice
ideologica: nascono, le une e gli altri, dall'esperienza di Potere operaio.
Ciò
che accresce i danni e la minaccia della violenza politica in Italia è proprio
il cumularsi, con effetto moltiplicatore, di due fenomeni: al terrorismo, rosso
e nero, si aggiunge un duplice squadrismo, d'estrema destra e d'estrema
sinistra, che nel nostro Paese ha assunto proporzioni sconosciute nel resto
dell'Occidente. La guerra a formazioni terroristiche clandestine (anche se
prive di complicità in <<corpi separati>> dello Stato) è molto difficile […]; e
i successi della repressione non bastano per sperare in una vittoria definitiva
su bande sostenute da appoggi internazionali.
Ma anche la più aperta delle
democrazie può battere lo squadrismo, se esiste la volontà politica di
applicare la legge penale.
La chiusura dei <<covi>>, in Roma e in Torino,
indica la fine di una troppo lunga immunità per la violenza organizzata?
Non è
ragionevole pensare che la polizia abbia deciso di propria iniziativa
d'intervenire contro le sedi romane e torinese di Autonomia; fra l'altro,
troppe sue inchieste e denunce erano cadute nel vuoto per la prudenza della
magistratura. La decisione è del governo; e sembra maturata nel clima d'allarme
delle ultime settimane, dopo gli attentati a catena contro rappresentanti della
dc e le giustificate pressioni dei gruppi parlamentari. Né si può gridare
all'abuso di potere, allo scandalo, alla provocazione, come fa Il Manifesto,
per il fatto che gli agenti non abbiano trovato nei <<covi>> armi o piani di
guerriglia: anche i militanti più sprovveduti avrebbero fatto scomparire in
tempo il materiale compromettente da sedi ben note
come centri di sovversione.
Più che i risultati delle perquisizioni, conta una
verità accertata negli anni: nelle sedi di Autonomia [...] si organizzavano cortei programmati per la violenza, azioni del <<partito armato>>, operazioni di sabotaggio al Policlinico o all'Università,
campagne illegali di <<esproprio proletario>>.
La legge [...], che
consente la chiusura dei <<covi>>, non è liberticida; dispone che le misure di
polizia siano convalidate (o annullate) in tempo breve dall'autorità
giudiziaria, e colpisce i reati, non le opinioni.
Il controllo indipendente
della magistratura è un'indispensabile garanzia democratica; ma si deve sperare
che finiscano la distrazione o l'indulgenza che hanno assicurato ai
guerriglieri anni d'immunità e intangibili santuari [...].
Né il diritto
alla libertà d'opinione può essere esteso fino a tollerare l'apologia dello
scontro con le molotov e le P 38, che Pifano, il leader degli Autonomi
romani, giustificava dichiarando: <<Siamo in guerra, e in guerra vince chi
spara per primo>>.
Parole e fatti dei militanti autorizzano le decine di denunce
per costituzione di banda armata.
Nei prossimi giorni, il problema dell'ordine
pubblico sarà discusso dal governo e in varie sedi politiche; torneranno, sotto
l'impulso della paura e dello sdegno per l'ininterrotta catena di atti
terroristici, le proposte di misure d'emergenza.
Sono quasi tutte inutili,
inquietanti o superflue.
Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari
per combattere l'eversione, purché siano applicate con risolutezza imparziale contro
tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati: anche contro le
intimidazioni e le devastazioni finora tollerate per amor di pace o per timore
d'incidenti più gravi.
Più che l'arsenale legislativo, occorre rafforzare le
strutture della polizia, e ridare vita sollecitamente a servizi d'informazione
controllati ma efficienti: sono uno strumento difensivo di cui nessuno Stato
può privarsi"
Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Terrorismo e chiusura dei <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 9 novembre 1977.
"[...] a Guglielmo Zucconi [direttore de "La discussione", settimanale politico-culturale della Democrazia Cristiana, N.d.A.] e ai suoi colleghi della dc che, sul Popolo e nei discorsi, hanno sviluppato la polemica contro lo scandalismo, vorremmo sottoporre qualche amichevole osservazione.
La prima e più marginale è che sembrano aver dimenticato il contributo offerto alle campagne scandalistiche dai loro compagni di partito.
[...] si ha l'impressione che taluni scandali siano legati a lotte di potere, a faide di corrente, e che i giornalisti <<nemici>> abbiano qualche volta ricevuto ispirazioni, notizie, documenti dall'interno della dc. Nella corsa alle poltrone del Quirinale, di Palazzo Chigi, di piazza del Gesù, non mancano spinte e sgambetti, che porterebbero alla squalifica in qualsiasi gara sportiva.
Ma anche in un altro modo, più diretto e determinante, l'atteggiamento dei democristiani ha contribuito ad alimentare lo scandalismo.
Zucconi afferma che <<l'arroganza delle parole è non meno grave dell'arroganza del potere>>, e che il proliferare selvaggio delle <<rivelazioni>> scandalistiche non giova né alla giustizia né al rinnovamento della dc; anzi, esso costringe <<tutto il partito a fare blocco per non venire travolto>>.
Ma non è almeno altrettanto valida l'ipotesi opposta: che la dc abbia abusato dell'arroganza del potere e che, <<facendo blocco>> sempre di fronte a tutte le accuse, nello spirito e nella tradizione dei corpi chiusi e separati, abbia contribuito ad accrescere e motivare il polverone scandalistico?
La misura nell'esercizio del potere, quando all'egemonia si unisce la mancanza di alternative, è la più difficile delle virtù: agli errori della dc si possono riconoscere molte attenuanti.
Tuttavia all'immagine e alla credibilità del partito avrebbero giovato un maggior rigore verso le proprie pecore nere, un risoluto coraggio non solo nell'affrontare le inchieste, ma nel premere per solleciti giudizi, penali e politici.
De Gasperi insegnava (e Zucconi lo ricorda) che <<l'onore di un uomo politico non è un affare privato>>.
Appunto per questo motivo, la dc avrebbe dimostrato saggezza allontanando da posizioni di potere tanti uomini il cui onore era leso da colpe accertate, o da sospetti non infondati; o da manifesta inettitudine.
In un Paese che non riesce a processare gli attentatori di piazza Fontana, e dove l'Inquirente [trattasi della Commissione inquirente, competente a indagare sui reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Composta da 10 deputati e 10 senatori, al termine dell'istruttoria poteva giungere a due verdetti: archiviare le accuse in quanto manifestamente infondate o trasmettere le carte al Parlamento. Questo, riunitosi in seduta comune, decideva se "rinviare a giudizio" il ministro; in tal caso costui era messo in stato d’accusa di fronte alla Corte costituzionale. Il collegio giudicante - del quale facevano parte anche 16 cittadini - emetteva sentenza di proscioglimento o di condanna nei confronti dell'imputato. Ebbene, è stato calcolato che su oltre 300 casi esaminati tra il 1948 e il 1987, la Commissione inquirente aveva inoltrato gli atti al Parlamento solamente 10 volte; che solo 2 ministri erano arrivati di fronte al giudizio della Consulta; che la
Corte costituzionale ne aveva condannato solo 1, nel 1979. Ecco perchè l'Inquirente veniva considerata sinonimo di impunità per i governanti italiani, N.d.A.] dispensa immunità, non si può aspettare la sentenza definitiva della magistratura per togliere dal governo, ad esempio, un boss indiziato di complicità con la mafia"
Carlo Casalegno, articolo intitolato "Scandali, morale e bombe" e pubblicato su "La Stampa" del 16 novembre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".
Carlo Casalegno è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Carlo attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Carlo è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.
Soltanto a noi.
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