domenica 15 febbraio 2015

ESSERE CITTADINI: INTERESSARSI AL VANTAGGIO COMUNE E' UNA NOSTRA RESPONSABILITA'!

Carlo Casalegno (1916-1977)
"Gli scandali offendono la nostra coscienza morale; è giusto e persin troppo naturale condannarli. Ma ritengo che danneggino la comunità assai meno che il disgregarsi dalla autorità e dalla forza dello Stato, l'inefficienza del sistema politico ed amministrativo, il lento scivolare verso forme di disordine endemico e di anarchia, le vittorie degli interessi di gruppo sul vantaggio della collettività. Gli scandali sono reati; ricadono sotto la sanzione della legge penale e la magistratura può colpirli. Soppresse le norme fasciste che proteggevano le colpe dei funzionari, oggi non esistono immunità. Ma il sabotaggio dello Stato attraverso la non collaborazione o lo sciopero, i cedimenti degli amministratori alle pressioni private entro i limiti delle leggi, il distacco dei politici dai problemi concreti e dei cittadini dalla cosa pubblica non sono reati: sfuggono alle sanzioni della giustizia, non implicano rischi. Ogni società moderna offre tentazioni frequenti alla fragilità umana dei funzionari, vasti campi di guadagno ai margini dell'illecito, occasioni nuove di complicità tra politica ed affari. Gli scandali che finiscono davanti al magistrato non mi spaventano. Mi sgomenta invece quello <<smantellamento, materiale e morale delle istituzioni>>, cui si assiste ogni giorno attraverso fatti che la legge non punisce"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Grave ma non troppo (Gli scandali non sono il male più inquietante del nostro Paese)" e pubblicato su "La Stampa" del 17 giugno 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".




"I laici non conoscono una Verità da difendere o da impone, ma l'eguale diritto per tutti di esprimere la propria verità; ed allo Stato chiedono di non avere una fede, ma di assicurare a tutte gli stessi diritti. Perciò il laicismo <<non ha fatto il suo tempo>>, ma resta un'ideologia ed una politica sempre attuale.
Il divorzio è solo uno dei punti, sia pure il più appassionante e discusso, di un programma laico: lo chiediamo non per attaccare la dottrina della Chiesa od imporre ai cattolici di rinnegare la propria visione della famiglia, ma per consentire ai cittadini italiani che non ci credono di risolvere secondo una legge civile, accettata in quasi tutto il mondo, i problemi della loro vita familiare. Altrettanto importante, anche se meno popolare, è garantire a tutti gli italiani quell'eguaglianza religiosa, e quindi giuridica, che la Costituzione prescrive e che i Patti lateranensi limitano gravemente. Il Concordato fa dell'Italia (l'affermazione è di Jemolo) uno <<Stato confessionale>>: con una <<religione di Stato>>, una situazione di privilegio per il clero cattolico, l'impegno del braccio secolare ad assistere gli ecclesiastici negli atti del loro magistero spirituale […], una scuola che riconosce nella dottrina cattolica <<il fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica>>, la prevalenza della legislazione canonica su quella civile in materia matrimoniale.
E' desiderabile che il Concordato sia rivisto attraverso negoziati fra Stato e Chiesa, con un accordo soddisfacente tra le due parti. Ma è necessario che il governo non dimentichi l'impegno di iniziare sollecite trattative con il Vaticano; e difenda con risolutezza la sovranità dello Stato ed il carattere aconfessionale della Repubblica: è un principio di libertà che non consente privilegi, ma giova anche all'autentica vita religiosa. Per il richiamo ai diritti dello Stato, nella polemica i laici sono accusati spesso di <<statolatria>>: e dopo le tragiche esperienze della dittatura fascista quest'accusa ha praticamente il valore di un'ingiuria. Dovrebbe essere superfluo spiegare che, per i laici democratici, il senso dello Stato non conduce all'imposizione di un dogma profano, politico, al posto di un dogma confessionale, ma è rifiuto di ogni dogmatismo. Se lo Stato democratico ha una religione, è - per quanto sembri retorico - la religione della libertà: eguaglianza dei cittadini, distinzione tra reato e peccato, fiducia nell'uomo, neutralità del potere di fronte alle idee. Perciò lo Stato laico rifiuta ogni integralismo: sia quello tradizionale che vuol salvare le anime con leggi moralizzatrici, sia quello pronto ad imporre la giustizia evangelica con la rivoluzione"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Cos'è essere laici" e pubblicato su "La Stampa" del 30 settembre 1969.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".




Carlo Casalegno
"Questa è una delinquenza di professionisti, esecutori e mandanti, che spesso la voce pubblica indica con esattezza, ma cui assicurano l'impunità la paura delle vittime e dei testimoni, l'insufficienza delle indagini, lo scrupolo della magistratura e soprattutto vaste reti di complici autorevoli.
[...] è difficile accettare come un fatto ineluttabile che la mafia continui ad arricchire, e ad uccidere per distendere gli illeciti guadagni, perché abusi amministrativi, indulgenze burocratiche, protezioni politiche le consentono di taglieggiare l'isola [la Sicilia, N.d.A.]La Commissione antimafia ha dimostrato oltre ogni dubbio che la <<mafia dei cantieri>> prospera sull'incetta dei terreni, sulla speculazione edilizia, sulle costruzioni abusive [...].
Il racket non è monopolio della Sicilia e non prospera soltanto sulle rapide trasformazioni di una società arretrata. La mafia si è estesa in Calabria [...]. Ha risalito la Penisola, mischiandosi alla delinquenza locale ed operando nei mercati - generali come nei night-clubs: a Genova, per un boss della malavita ucciso in un regolamento di conti, si sono avuti funerali sul modello americano dì <<Cosa nostra>>. Mafia e camorra taglieggiano il mercato ortofrutticolo; gruppi di gangsters impongono una costosa <<protezione>> non solo ad alberghi, locali notturni e case da gioco del Sud. Persino a distributori di benzina che rifiutavano di scioperare era posta la scelta tra la taglia e l'attentato al plastico: ci furono ottanta esplosioni in dodici mesi. 
[...] in Sicilia il costo della mafia rimane troppo alto: per il numero di vittime, per il saccheggio delle risorse economiche, per il veleno che diffonde nella vita pubblica dell'isola. 
E' demagogia o fuga dalla realtà progettare riforme a lunga scadenza, che dovrebbero tagliarne le radici risanando l'ambiente. 
Occorre anzitutto un'energica repressione, non solo penale ma amministrativa, che colpisca esecutori, mandanti e complici delle illegalità; e occorre la volontà politica di non adoperare la mafia come strumento di potere. 
Senza questa pulizia preventiva, la mafia riuscirebbe a paralizzare le riforme od a sfruttarle: già si è trasformata con vantaggio da agricola in urbana, e si muove con sicurezza tra cantieri, uffici e assemblee" 

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "I mitra a Palermo" e pubblicato su "La Stampa" del 12 dicembre 1969.





"[...] il gusto della violenza, il disprezzo della legge, le esplosioni di collera, la propensione all'estremismo, il rifiuto della ragione incominciano a diffondersi in misura inquietante. 
Non è un fenomeno soltanto italiano. 
[...] Ma in quasi tutta l'Europa, ormai in pace da un quarto di secolo, ricostruita sulle rovine del '45, profondamente rinnovata dal crescere di una generazione che non porta i segni di un passato tragico, si osservano un diffuso ritorno alla violenza ed un preoccupante risveglio di passioni irrazionali. 
E si riaprono vecchi conflitti, che s'aggiungono ai motivi nuovi di turbamento. 
[...] Ovviamente, sono fenomeni che non si possono affrontare soltanto con misure di polizia, né con una risposta intollerante dell'opinione pubblica. 
[...] Quando una moda, una smania od una rivolta diventano fenomeni collettivi, vuol dire che rispondono a impulsi di fondo. Ci dev'essere qualcosa d'insoddisfacente nel nostro mondo, se tanti giovani cercano di evadere nel misticismo politico, nella parodia della rivoluzione, nell'esercizio gratuito della violenza, nella droga; ed il processo di trasformazione socioeconomico deve imporre ad alcuni gruppi un prezzo assai alto, se i bottegai si danno alla guerriglia, o in molte fabbriche il timore della seconda rivoluzione industriale provoca il ritorno a vecchie forme di luddismo. 
[...] L'altro giorno, commentando su Le Monde lo scioglimento di <<sinistra proletaria>> e l'arresto del direttore di La cause du peuple, André Fontaine ammoniva a non gettar via <<con l'acqua del bagno anche il bambino>>, cioè la libertà, e indicava come unica politica davvero utile il tentativo di ricuperare i giovani estremisti della contestazione. 
D'accordo; però occorre rispettare alcune condizioni, che in Italia ed altrove sono spesso trascurate. 
La repressione non basta, ma il rispetto della legalità è la premessa indispensabile per qualsiasi politica di riforme. Finché non cambi l'uomo e non ritorni l'età dell'oro, la polizia e la magistratura - operanti nell'ambito della legge e sottoposte al libero giudizio dell'opinione pubblica - rimangono due pilastri insostituibili della società civile; a mio parere sbagliano i democratici che alimentano nei confronti della polizia una sorta di <<pregiudizio sfavorevole>>, ed i magistrati che per contrasti di parte rischiano di attenuare la fiducia nella certezza del diritto. 
La seconda condizione è il consolidamento dello Stato, arbitro necessario tra i gruppi; la rinuncia dei poteri pubblici prepara la strada alla violenza privata, all'anarchia e alla dittatura. 
Sarebbe indispensabile, soprattutto, un ritorno alla Ragione: l'Europa ha sperimentato nella sua carne dove conducano i miti irrazionali della nazione, della razza, del populismo demagogico, della rivoluzione. Ma si può sperare che le prediche servano a qualcosa?" 

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Violenza e polizia" e pubblicato su "La Stampa" del 2 giugno 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"La convinzione così diffusa, ed in parte esatta, d'essere mal governati non nasce da un'irrimediabile degenerazione delle strutture statali; dipende, a mio parere, soprattutto dal distacco crescente tra la società e lo Stato: cioè dalle riforme mancate. 
E non ne sono responsabili soltanto i partiti, la classe politica, ma tutti i gruppi di potere e noi stessi, i milioni di cittadini. 
II vero scandalo italiano, e la nostra inferiorità a paragone dei Paesi più avanzali dell'Occidente, sta nel rinvio sistematico delle riforme più importanti, anzitutto di quella fiscale, e nell'arretratezza dei servizi sociali: la casa, la scuola, l'assistenza sanitaria. Il Paese ha avuto uno sviluppo impetuoso, ma squilibrato; è entrato per produzione e reddito nella pattuglia degli Stati all'avanguardia, ma conservando leggi, strutture e difetti da zona depressa. Le tasse indirette, le più ingiuste, rendono all'erario quasi due volte il gettito delle imposte dirette. Nessuna legge urbanistica ha limitato la speculazione sulle aree e consentito una crescita razionale delle città. Non c'è rapporto tra costo ed efficienza nel meccanismo mutualistico. Tutti i servizi pubblici funzionano male. E potremmo continuare. E' una crisi non priva di attenuanti: anche per il più solido dei governi nel migliore dei Paesi sarebbe stato arduo realizzare tempestivamente le riforme imposte dalle trasformazioni economiche e sociali, che l'Italia ha vissuto negli ultimi vent'anni. 
Ma diventa impossibile superare la crisi, quando alla debolezza del potere politico si unisce l'egoismo corporativo dei cittadini, si invocano le riforme rifiutando di pagarne il costo, ed ogni gruppo dà l'assalto allo Stato nel totale disinteresse per il vantaggio comune"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Pessimismo con giudizio" e pubblicato su "La Stampa" del 4 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"[...] non sono soltanto nostri i problemi, denunciati dal primo ministro francese, d'una <<società bloccata>> che non riesce a tradurre in progresso sociale ed umano lo sviluppo tecnologico ed economico; o le tensioni [...] risultanti dallo squilibrio tra consumi privati ed investimenti d'interesse collettivo; o la difficoltà di uno sviluppo programmato, che riduca anziché accrescere il distacco tra le zone di punta e le aree depresse; o la complessa ricerca di rapporti, aggiornati alla società che sta nascendo, tra proprietà e potere, gigantismo burocratico e <<partecipazione>>, autonomie locali o corporative ed interesse comune. 
Su parecchi di questi punti, noi ci troviamo a mezza strada fra i pochi Paesi all'avanguardia ed i molti Stati alla retroguardia. Siamo in ritardo di alcune riforme essenziali: a cominciare, per esempio, da quella urbanistica. 
Ma mi pare giudizio troppo semplicistico attribuirne la colpa tutta e soltanto ai cattivi <<politici>>. 
Nelle molte lettere di condanna senza appello dello Stato italiano, nessuno dei miei critici rivela, per quanto ho capito, il minimo sospetto che i cittadini abbiano una parte di responsabilità nelle disfunzioni del nostro Paese. 
Eppure, a guardar bene, stiamo aspettando invano soprattutto le riforme che colpirebbero direttamente gli interessi privati: in denaro, orgoglio municipale, privilegi corporativi. 
Si chiede la riforma fiscale, purché colpisca altri gruppi. 
Si vogliono leggi urbanistiche, senza rinunciare all'anarchia delle costruzioni. 
Si protesta contro l'eccesso della spesa pubblica, ma si rifiuta anche il trasferimento di una pretura. 
Si invoca l'<<ordine>>, però gli stessi funzionari organizzano cortei in piazza. 
Gli scioperi che offendono sono sempre quelli degli altri. 
Si deplora la debolezza dello Stato, e tuttavia molti italiani continuano a tenere per i ladri contro le guardie"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Tutta colpa dei politici?" e pubblicato su "La Stampa" del 18 agosto 1970.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





Carlo Casalegno
"Fra pochi anni vedremo un sottile minareto innalzarsi verso il cielo insieme con i cento campanili di Roma? E' probabile, ed è ragionevole. 
In Italia vivono decine di migliaia di musulmani; Roma ospita due corpi diplomatici ed organismi internazionali, con funzionari e delegati di fede islamica in percentuale crescente, ed è la più importante stazione di transito del Mediterraneo. 
La costruzione d'una moschea risponde ad esigenze religiose, e anche d'ospitalità, che il nostro governo non può ignorare; il consenso di principio è assicurato, rimangono da risolvere soltanto i problemi pratici. 
D'una moschea in Roma si parla fin dagli anni '30 [...], ma senza concludere nulla: il veto della Santa Sede bastava per scoraggiare le autorità italiane. 
Anche in anni più vicini non mancò qualche resistenza all'idea d'inserire una moschea nel panorama urbano e religioso di Roma; si suggeriva di costruirla fuori porta, a Fiumicino, in campagna, con un compromesso ibrido che non avrebbe accontentato gli ospiti, né fatto onore all'imparzialità della Repubblica in materia di culto. 
[...] Superati gli ostacoli di principio, rimangono due questioni pratiche: dove collocare la moschea ed a chi addossarne le spese. 
Un contributo italiano alla costruzione, che non apparisse un tentativo assai goffo di comprare la benevolenza dei produttori di petrolio, ma fosse una dignitosa testimonianza di spinto ecumenico, potrebbe incontrare il consenso di laici e cattolici. 
E' più difficile scegliere il terreno adatto per edificarvi il tempio: se non appare equo respingerlo nella lontana periferia, non sarebbe saggio inserirlo in modo pacchiano o chiassoso nel tessuto urbanistico e culturale di Roma. La città ha un volto già troppo deturpato da monumenti umbertini, colossi mussoliniani e abusi speculativi; la moschea non può essere un secondo Altare della Patria, né conviene che il minareto schiacci i campanili o sovrasti San Pietro. E' questa la sola e giusta preoccupazione espressa dal Vaticano, che accetta invece senza riserve il principio d'un tempio islamico in Roma. 
[...] Consentendo alla moschea, il Vaticano dimostra d'interpretare il riconoscimento del carattere <<sacro>> di Roma, scritto nei Patti lateranensi, in modo non incompatibile con l'eguaglianza religiosa e la laicità dello Stato scritte nella Costituzione della Repubblica. 
[...] Ci sono però gruppi di cattolici che non sembrano disposti ad accettare questa interpretazione. 
O sono fermi, per vocazione integralista, alle tesi pacelliane [cioè espresse da Eugenio Pacelli, Papa Pio XII, N.d.A.]; o, per non sopita avversione al laicismo risorgimentale, restano ecumenici a metà; aperti al dialogo con tutte le confessioni, soprattutto del Terzo Mondo, in politica interna sono legati a nostalgie clericali. 
[...] Costruire una moschea in Italia per acquistare meriti presso gli arabi, sarebbe un calcolo meschino; vedere nel tempio islamico di Roma un gesto di riparazione per i secoli d'intolleranza, sarebbe un altro di quei pensieri futili in cui indugia così volentieri il masochismo antistorico di certi europei. 
Ma forse l'occasione è propizia per ricordare agli amici arabi che non conviene a nessun Paese del Medio Oriente o del Nordafrica ripetere gli errori del nostro passato. Quando l'Europa era chiusa nell'intolleranza religiosa, ebrei ed eretici cercarono rifugio in terre islamiche; sarebbe una tragedia assurda se la spinta nazionalistica conducesse i nuovi Stati verso il fanatismo confessionale che noi in Occidente abbiamo ripudiato" 

Carlo Casalegno, articolo intitolato "La moschea di Roma" e pubblicato su "La Stampa" del 23 gennaio 1974.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"Può darsi che attorno alle prime indagini sullo scandalo del petrolio [esso riguardava l'enorme flusso di tangenti pagate dai petrolieri ai politici, al fine di comprarsi le leggi a proprio esclusivo vantaggio e ai danni della collettività, N.d.A.] circolino voci allarmistiche o romanzesche; ma che siano stati commessi reati gravi d'imboscamento, di frode e di corruzione a danno sia dei cittadini che dello Stato è una certezza: lo dicono i magistrati, lo ammettono indirettamente gl'inquisiti, lo capisce l'opinione pubblica. 
Le incertezze riguardano l'entità del danno e il numero dei colpevoli, le sedi giudiziarie e i tempi delle inchieste, la fermezza che magistrati e politici dimostreranno nel togliere dall'ombra tutta la verità. 
Le indagini sono appena incominciate, e subito emergono conflitti di competenza giudiziaria, causa d'inevitabili inquietudini per gl'italiani scottati da tante esperienze negative. 
Sembra che alcuni dei sospettati preferiscano un'imputazione più grave pur di sfuggire all'inchiesta dei pretori: brutto segno. Anche l'esortazione a una severa e inconsueta difesa del segreto istruttorio suscita perplessità.
Ma al problema delle competenze non si può sfuggire, trattandosi d'una catena di reati di gravità non ancora definita e commessi in più sedi. 
I petrolieri inquisiti sono di Genova, l'Unione petrolifera sta a Roma; in Roma lavorano i funzionari che si sospettano complici, le direzioni dei partiti finanziati con <<fondi neri>>; e il codice stabilisce limiti stretti al lavoro dei pretori: i reati più gravi ricadono sotto la giurisdizione delle procure e dei tribunali. 
La rapida definizione delle competenze e (se imposta dalla legge) la pronta unificazione delle indagini possono giovare a un sollecito accertamento della verità, prevenire quegli incidenti procedurali che così spesso offrono scappatoie ai colpevoli, evitare i conflitti che hanno pregiudicato, ad esempio, l'inchiesta Valpreda. 
I <<pretori d'assalto>> non sono gli unici magistrati che abbiano la volontà d'indagare e i mezzi per farlo; ma l'opinione pubblica esige che la scelta dei giudici competenti non sia ritardata da gelosie municipali o sottigliezze bizantine, che l'accentramento delle indagini non offra l'occasione per insabbiarle o diluirle in tempi lunghi, che gl'inquirenti non cedano alle pressioni di potenti interessi e neppure alla <<ragion di Stato>>. 
Non sarebbe carità di patria coprire i funzionari corrotti per salvare il prestigio d'un ministero o del governo, e gli uomini di partito complici dei petrolieri per non seminare diffidenza nella classe politica: sono le reticenze, le solidarietà mafiose, i silenzi sugli scandali che stanno distruggendo la fiducia nelle istituzioni e logorando il prestigio dello Stato.
Ogni cittadino ha pagato di tasca sua un prezzo per le speculazioni sul petrolio, durante una crisi da cui il Paese può uscire soltanto con un duro sforzo collettivo: colpire i corruttori ed i corrotti, per quanto in alto si trovino, è una necessità politica prima ancora che morale"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Colpire corruttori e corrotti" e pubblicato su "La Stampa" del 7 febbraio 1974.





Carlo Casalegno
"[...] sarebbe [...] distruttivo sottovalutare la gravità della crisi, o illudersi di poter disgiungere gli aspetti politici da quelli morali. 
La crisi è anzitutto di sfiducia, negli uomini e nelle istituzioni; e senza fiducia non si possono mobilitare le energie necessarie alla ripresa. 
La strada per sfuggire al precipizio passa attraverso il coraggio d'affrontare gli scandali, di giungere alla verità senza lasciare alle opposizioni il comodo monopolio della denuncia, d'imporre misure di risanamento. 
I <<Watergate>> nostrani non investono l'intera classe politica. Ma confermano l'esistenza di legami stretti ed occulti tra governo e sottogoverno, partiti e aziende, pubblici affari e politica; denunciano l'estendersi - non contrastato con la doverosa energia - di una concezione mafiosa del potere, applicata con spregiudicatezza da ambiziosi padrini. 
Gli scandali sono un'occasione per fermarli: non si salverebbe un Paese gestito come <<Cosa nostra>>"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Il coraggio della verità" e pubblicato su "La Stampa" del 15 febbraio 1974.





"I terroristi organizzati colpiscono a sorpresa, uscendo dalla clandestinità e scomparendo in rifugi predisposti e protetti dai complici: solo incidenti o errori in azioni li rendono vulnerabili. 
La polizia, per quanti sforzi faccia, riesce a proteggere soltanto un numero limitato di personaggi e di obbiettivi. Può difendere l'ambasciatore tedesco, <<condannato a morte>> per rappresaglia; non ciascuno dei ventimila o cinquantamila cittadini che possono essere, in qualunque momento, colpiti dai nuovi terroristi: politici pressoché sconosciuti o capi officina, giornalisti o avvocati. 
Infiltrare informatori nelle cellule terroristiche è un'impresa ardua sempre, ma disperata oggi, dopo lo sconquasso dei servizi segreti. 
E' dunque inutile farsi delle illusioni in una sollecita sconfitta del terrorismo: continueranno gli attentati, cadranno altre vittime. 
Ma allo Stato non mancano i mezzi - legittimi, costituzionalmente corretti - per ridurre lo spazio e l'impunità dei terroristi, per tagliare le reti dei favoreggiatori e dei complici, per rendere più difficili gli arruolamenti dei killers; e soprattutto per isolare i nuclei ristretti di professionisti del terrorismo dai gruppi ben più vasti che predicano e praticano la violenza politica, e offrono al terrorismo coperture, aiuti, nuove reclute, azioni di fiancheggiamento. 
L'aspetto più preoccupante della crisi dell'ordine pubblico in Italia consiste, infatti, nella molteplicità e nell'estensione dei gruppi che formano il <<partito armato>>: abbiamo i Nap e le Br, simili alla Raf tedesca; ma abbiamo anche una quantità, ineguagliata in Occidente, di formazioni squadristiche rosse o nere, in grado di scatenare violenze, frequenti e coordinate, in gran parte dei maggiori centri urbani. 
Questi gruppi non vivono, come i brigatisti rossi e nappisti, in clandestinità: li conosce la polizia, li conoscono i cittadini; spesso hanno sedi ufficiali, tengono assemblee, pubblicano giornali. 
Fino a quando svolgono un'attività politica, per quanto di un esasperato estremismo, esercitano un diritto garantito dalla legge democratica, che non ammette censura sulle opinioni. 
Ma quando organizzano o favoriscono azioni violente, provocano o compiono azioni delittuose, quei gruppi escono dalla legalità, e non possono chiedere allo Stato né tolleranza, né impunità. Le sedi politiche, in questo caso, diventano <<covi>>, e vanno chiuse; e i militanti politici, trasformati in squadristi, debbono essere perseguiti come autori di reati. 
Finora governo, magistratura, polizia hanno risposto con il rigore consentito, anzi voluto dalla legge? 
Il problema è delicato: meglio esagerare negli scrupoli, quando si difendono i diritti di libertà. 
Ma occorre pur chiedersi se l'Autonomia rimanga nei limiti del lecito, se non si trasformi in associazione per delinquere, quando programma, impone, organizza scontri armati e introduce i suoi guerriglieri nei cortei per trascinarli alla violenza; quando nelle assemblee si applaude l'assassinio di Schleyer [Hanns Martin Schleyer, presidente degli industriali della Repubblica Federale Tedesca, con un passato nelle SS. Rapito a Colonia il 5 settembre 1977 dall'organizzazione di estrema sinistra Rote Armee Fraktion (RAF), venne ucciso 43 giorni dopo, il 18 ottobre 1977. Il corpo fu ritrovato in Francia il giorno seguente, all'interno del bagagliaio di un'automobile, N.d.A.], o si spingono gli studenti alla <<rappresaglia>> antitedesca; quando ospedali o laboratori universitari sono occupati, devastati, usati come terreno di battaglia contro lo Stato. 
Si è chiesta giustamente la chiusura di sezioni missine, che sono centrali squadristiche; ma conviene sollecitare dalla magistratura, con imparziale rigore, anche la perquisizione di certe sedi dell'estrema sinistra, dove i militanti sembrano regolarmente rifornirsi di armi improprie. 
E bisogna domandarsi se sia stato saggio lasciare incontrastate o impunite, per timore d'incidenti più gravi, centinaia di azioni criminali, forse lievi in sé ma pericolose nel loro metodico ripetersi, dai picchettaggi duri nelle scuole ai cortei vandalici, dalle incursioni degli autoriduttori alla paralisi di servizi pubblici. 
[...] per stroncare la violenza non bastano gli interventi a caldo dei carabinieri. Sono necessarie le indagini preventive della polizia, l'attività assidua e operante della magistratura, la volontà politica. Occorre prosciugare le sorgenti, di mobilitazione e di propaganda, che alimentano la guerriglia; colpire con estrema durezza i traffici di armi ed esplosivi; e fare il vuoto attorno al terrorismo, con un'attenta vigilanza anche sulle complicità indirette, magari coperte dall'impegno professionale o dalle irresponsabili trasmissioni di certe radio <<libere>>. 
Anche l'opinione pubblica ha un compito importante in quest'opera di risanamento: quello di isolare provocatori o demagoghi"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Rossi, neri chiudere i <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 26 ottobre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".





"Ventiquattr'ore dopo la perquisizione e la chiusura di tre sedi degli Autonomi, in Roma e in Torino, un gruppo di brigatisti rossi milanesi ha colpito alle gambe un dirigente dell'Alfa Romeo. 
Tra i due avvenimenti non sembra esistere un rapporto diretto; e forse neppure tra le due organizzazioni. L'attentato di Milano non è una rappresaglia; è uno tra i tanti gesti d'intimidazione terroristica che le Br, coperte da una rigorosa clandestinità, stanno metodicamente eseguendo contro capifabbrica, giornalisti, funzionari, politici di medio rango, per seminare paura e per avvilire le vittime: nei colpi alle gambe c'è qualcosa dello sfregio mafioso. Né finora sono stati scoperti, tra i terroristi e il Movimento, collegamenti operativi; del resto, sarebbero pericolosi per un'organizzazione che trae la sua forza dal segreto e dall'impenetrabilità. 
Esistono tuttavia, tra il terrorismo e le formazioni eversive dell'estrema sinistra, rapporti indiretti e un'obbiettiva complicità. Br, Nap, Prima linea con l'azione armata clandestina, i fanatici dell'ultrasinistra con i cortei violenti, i sabotaggi, le spedizioni squadristiche, la pratica organizzata dell'illegalità conducono, utilizzando mezzi diversi, una stessa guerra alle istituzioni, ai princìpi della convivenza civile, a interessi primari, politici ed economici, della collettività. E le organizzazioni oltranziste non clandestine offrono al terrorismo una solidarietà dichiarata, anche se talvolta critica; una copertura psicologica! una vasta schiera di giovani combattivi, tra cui poter trarre nuove reclute. Non per caso Br e Autonomi hanno le stesse radici politiche, la stessa matrice ideologica: nascono, le une e gli altri, dall'esperienza di Potere operaio. 
Ciò che accresce i danni e la minaccia della violenza politica in Italia è proprio il cumularsi, con effetto moltiplicatore, di due fenomeni: al terrorismo, rosso e nero, si aggiunge un duplice squadrismo, d'estrema destra e d'estrema sinistra, che nel nostro Paese ha assunto proporzioni sconosciute nel resto dell'Occidente. La guerra a formazioni terroristiche clandestine (anche se prive di complicità in <<corpi separati>> dello Stato) è molto difficile […]; e i successi della repressione non bastano per sperare in una vittoria definitiva su bande sostenute da appoggi internazionali. 
Ma anche la più aperta delle democrazie può battere lo squadrismo, se esiste la volontà politica di applicare la legge penale. 
La chiusura dei <<covi>>, in Roma e in Torino, indica la fine di una troppo lunga immunità per la violenza organizzata? 
Non è ragionevole pensare che la polizia abbia deciso di propria iniziativa d'intervenire contro le sedi romane e torinese di Autonomia; fra l'altro, troppe sue inchieste e denunce erano cadute nel vuoto per la prudenza della magistratura. La decisione è del governo; e sembra maturata nel clima d'allarme delle ultime settimane, dopo gli attentati a catena contro rappresentanti della dc e le giustificate pressioni dei gruppi parlamentari. Né si può gridare all'abuso di potere, allo scandalo, alla provocazione, come fa Il Manifesto, per il fatto che gli agenti non abbiano trovato nei <<covi>> armi o piani di guerriglia: anche i militanti più sprovveduti avrebbero fatto scomparire in tempo il materiale compromettente da sedi ben note come centri di sovversione. 
Più che i risultati delle perquisizioni, conta una verità accertata negli anni: nelle sedi di Autonomia [...] si organizzavano cortei programmati per la violenza, azioni del <<partito armato>>, operazioni di sabotaggio al Policlinico o all'Università, campagne illegali di <<esproprio proletario>>. 
La legge [...], che consente la chiusura dei <<covi>>, non è liberticida; dispone che le misure di polizia siano convalidate (o annullate) in tempo breve dall'autorità giudiziaria, e colpisce i reati, non le opinioni. 
Il controllo indipendente della magistratura è un'indispensabile garanzia democratica; ma si deve sperare che finiscano la distrazione o l'indulgenza che hanno assicurato ai guerriglieri anni d'immunità e intangibili santuari [...]
Né il diritto alla libertà d'opinione può essere esteso fino a tollerare l'apologia dello scontro con le molotov e le P 38, che Pifano, il leader degli Autonomi romani, giustificava dichiarando: <<Siamo in guerra, e in guerra vince chi spara per primo>>. 
Parole e fatti dei militanti autorizzano le decine di denunce per costituzione di banda armata. 
Nei prossimi giorni, il problema dell'ordine pubblico sarà discusso dal governo e in varie sedi politiche; torneranno, sotto l'impulso della paura e dello sdegno per l'ininterrotta catena di atti terroristici, le proposte di misure d'emergenza. 
Sono quasi tutte inutili, inquietanti o superflue. 
Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l'eversione, purché siano applicate con risolutezza imparziale contro tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati: anche contro le intimidazioni e le devastazioni finora tollerate per amor di pace o per timore d'incidenti più gravi. 
Più che l'arsenale legislativo, occorre rafforzare le strutture della polizia, e ridare vita sollecitamente a servizi d'informazione controllati ma efficienti: sono uno strumento difensivo di cui nessuno Stato può privarsi"

Carlo Casalegno, editoriale intitolato "Terrorismo e chiusura dei <<covi>>" e pubblicato su "La Stampa" del 9 novembre 1977.




"[...] a Guglielmo Zucconi [direttore de "La discussione", settimanale politico-culturale della Democrazia Cristiana, N.d.A.] e ai suoi colleghi della dc che, sul Popolo e nei discorsi, hanno sviluppato la polemica contro lo scandalismo, vorremmo sottoporre qualche amichevole osservazione. 
La prima e più marginale è che sembrano aver dimenticato il contributo offerto alle campagne scandalistiche dai loro compagni di partito. 
[...] si ha l'impressione che taluni scandali siano legati a lotte di potere, a faide di corrente, e che i giornalisti <<nemici>> abbiano qualche volta ricevuto ispirazioni, notizie, documenti dall'interno della dc. Nella corsa alle poltrone del Quirinale, di Palazzo Chigi, di piazza del Gesù, non mancano spinte e sgambetti, che porterebbero alla squalifica in qualsiasi gara sportiva. 
Ma anche in un altro modo, più diretto e determinante, l'atteggiamento dei democristiani ha contribuito ad alimentare lo scandalismo. 
Zucconi afferma che <<l'arroganza delle parole è non meno grave dell'arroganza del potere>>, e che il proliferare selvaggio delle <<rivelazioni>> scandalistiche non giova né alla giustizia né al rinnovamento della dc; anzi, esso costringe <<tutto il partito a fare blocco per non venire travolto>>. 
Ma non è almeno altrettanto valida l'ipotesi opposta: che la dc abbia abusato dell'arroganza del potere e che, <<facendo blocco>> sempre di fronte a tutte le accuse, nello spirito e nella tradizione dei corpi chiusi e separati, abbia contribuito ad accrescere e motivare il polverone scandalistico? 
La misura nell'esercizio del potere, quando all'egemonia si unisce la mancanza di alternative, è la più difficile delle virtù: agli errori della dc si possono riconoscere molte attenuanti. 
Tuttavia all'immagine e alla credibilità del partito avrebbero giovato un maggior rigore verso le proprie pecore nere, un risoluto coraggio non solo nell'affrontare le inchieste, ma nel premere per solleciti giudizi, penali e politici. 
De Gasperi insegnava (e Zucconi lo ricorda) che <<l'onore di un uomo politico non è un affare privato>>.
Appunto per questo motivo, la dc avrebbe dimostrato saggezza allontanando da posizioni di potere tanti uomini il cui onore era leso da colpe accertate, o da sospetti non infondati; o da manifesta inettitudine. 
In un Paese che non riesce a processare gli attentatori di piazza Fontana, e dove l'Inquirente [trattasi della Commissione inquirente, competente a indagare sui reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Composta da 10 deputati e 10 senatori, al termine dell'istruttoria poteva giungere a due verdetti: archiviare le accuse in quanto manifestamente infondate o trasmettere le carte al Parlamento. Questo, riunitosi in seduta comune, decideva se "rinviare a giudizio" il ministro; in tal caso costui era messo in stato d’accusa di fronte alla Corte costituzionale. Il collegio giudicante - del quale facevano parte anche 16 cittadini - emetteva sentenza di proscioglimento o di condanna nei confronti dell'imputato. Ebbene, è stato calcolato che su oltre 300 casi esaminati tra il 1948 e il 1987, la Commissione inquirente aveva inoltrato gli atti al Parlamento solamente 10 volte; che solo 2 ministri erano arrivati di fronte al giudizio della Consulta; che la Corte costituzionale ne aveva condannato solo 1, nel 1979. Ecco perchè l'Inquirente veniva considerata sinonimo di impunità per i governanti italiani, N.d.A.] dispensa immunità, non si può aspettare la sentenza definitiva della magistratura per togliere dal governo, ad esempio, un boss indiziato di complicità con la mafia"

Carlo Casalegno, articolo intitolato "Scandali, morale e bombe" e pubblicato su "La Stampa" del 16 novembre 1977.
Il "pezzo" fa parte della rubrica "Il nostro Stato".


Carlo Casalegno è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Carlo attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Carlo è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.

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