venerdì 6 febbraio 2015

APPASSIONARSI ALL'IMPEGNO CIVILE E PROFESSIONALE

Mario Francese (1925-1979)
"[...] era proprio l’attività giornalistica della vittima a fare di lui un possibile obiettivo di <<Cosa Nostra>>, per lo straordinario impegno civile con cui egli aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70. In un periodo nel quale, per la mancanza di collaboratori di giustizia, le informazioni sulla struttura e sull'attività dell’organizzazione mafiosa erano assai limitate, Mario Francese aveva raccolto un eccezionale patrimonio conoscitivo, di estrema attualità ed importanza. Egli andava costantemente alla ricerca delle notizie che formavano la materia prima delle sue inchieste giornalistiche, attraverso il contatto diretto non solo con gli organi investigativi, ma anche con le più varie fonti capaci di offrirgli nuove chiavi di lettura e spunti inediti sui più gravi fatti di cronaca. Come ha specificato il suo collega Ettore Serio nel verbale di assunzione di informazioni del 6 maggio 1998, Mario Francese era <<un cronista che, lungi dal limitarsi a "leggere carte", investigava personalmente riuscendo ad acquisire informazioni "di prima mano">>.
Mario Francese si identificava completamente con la sua professione, che lo portava a recarsi direttamente sui luoghi dove erano avvenuti i più gravi episodi di cronaca, per raccogliere tutti gli elementi che potessero aiutarlo a comprendere gli eventi ed il contesto in cui essi maturavano. Le informazioni così acquisite, e da lui elaborate con grande cura, rigore ed onestà intellettuale, venivano, poi, trasfuse in articoli dallo stile vivo, concreto ed efficace, che delineavano in modo chiaro e completo i contorni, i presupposti e le implicazioni degli avvenimenti di maggiore rilievo, descritti con grande ricchezza di dettagli, e senza tacere il nome di nessuno dei soggetti coinvolti, quale che fosse il suo spessore criminale ed il suo ruolo sociale. Dagli articoli e dal dossier redatti da Mario Francese, emerge una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di <<Cosa Nostra>> nel mondo degli appalti e dell’economia ed iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio. Una strategia eversiva che avrebbe fatto un <<salto di qualità>> proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all'opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all'interno di <<Cosa Nostra>>. E’ significativo che sia stato proprio l’assassinio di Mario Francese ad aprire la lunga catena di <<omicidi eccellenti>> che insanguinò Palermo tra la fine degli anni ’70 ed il decennio successivo, in attuazione di un preciso disegno criminale che mirava ad affermare il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Chi – avvalendosi delle strutture operative di un’organizzazione connotata da un fortissimo vincolo di segretezza - aveva ideato un progetto delittuoso di così ampia portata, destinato ad incidere pesantemente sugli assetti socio-economici e sulle Istituzioni, non poteva certamente tollerare che le lontane radici ed i più recenti sviluppi di questa strategia fossero descritti con profondità ed accurata attenzione, compresi nei loro esatti termini, e sottoposti all'attenzione della collettività, attraverso il giornale più diffuso nella Sicilia Occidentale [ovvero il "Giornale di Sicilia", N.d.A.]. Per assicurare non solo la compiuta attuazione, ma anche l’efficacia intimidatrice di un complesso disegno destinato ad incombere su tutta la realtà sociale, con la sua oscura ed apparentemente inarrestabile forza, era particolarmente importante eliminare un cronista che, con il suo appassionato e coraggioso impegno civile e professionale, era in grado di fare chiarezza sullo scenario complessivo nel quale venivano ad inserirsi i tragici eventi susseguitisi dopo la metà degli anni ’70, rendendo visibile anche alla gente comune l’oscuro intreccio di interessi e di trame criminali sotteso alla più recente strategia della <<mafia emergente>>, ed additando all'opinione pubblica i protagonisti della nuova stagione di terrore mafioso. Il modo di lavorare di Mario Francese era, sotto diversi aspetti, simile a quello degli organi investigativi: le sue inchieste giornalistiche, condotte direttamente sul campo, <<in prima linea>>, ed animate da una forte carica interiore di appassionata ricerca della verità, si intersecavano con le iniziative delle forze di polizia, che - nello stesso contesto di tempo e di luogo, e nonostante le obiettive difficoltà derivanti dalla mancanza di collaborazioni con la giustizia - provavano a tracciare un quadro credibile ed attuale del processo di riorganizzazione di <<Cosa Nostra>> e ad individuare le causali ed i protagonisti dei gravi episodi criminosi verificatisi negli anni precedenti. L’efficace impegno con cui Mario Francese esercitava la sua attività giornalistica, gli ideali di giustizia che lo guidavano e l’importantissimo patrimonio conoscitivo che egli era in grado di trasfondere nei suoi articoli, concorrevano a rendere le sue analisi del fenomeno mafioso particolarmente interessanti, oltre che per il pubblico dei lettori, anche per l’autorità inquirente, cui egli era costantemente vicino, tenendo un contegno ispirato alla massima linearità e correttezza deontologica. Ripercorrere alcune delle vicende narrate da Mario Francese, nella sua efficace ed appassionata attività professionale, significa operare una sintesi ragionata dei più significativi aspetti della storia di <<Cosa Nostra>> tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Nei suoi articoli venivano esaminate con particolare ampiezza le attività criminali di quelli che sarebbero divenuti i maggiori esponenti dello schieramento <<corleonese>>, destinato in seguito a divenire protagonista della strategia terroristico-eversiva manifestatasi sul finire degli anni ’70; venivano poste in luce le fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell’economia e degli appalti pubblici nella Sicilia Occidentale; venivano attentamente ricercate le causali e le responsabilità dei più gravi episodi delittuosi posti in essere dall'illecito sodalizio; veniva espressa l’insoddisfazione per le vistose difficoltà incontrate dall'autorità giudiziaria nel colpire i reati commessi nell'ambito di una struttura criminale che appariva, in quel periodo, largamente impenetrabile alle indagini processuali, a causa della carenza di collaboratori di giustizia. 
[...] In seguito, in numerosi articoli apparsi sul <<Giornale di Sicilia>>, Mario Francese continuò ad evidenziare la estrema pericolosità criminale dei più potenti esponenti mafiosi corleonesi, senza lasciarsi condizionare, nella sua autonoma ed approfondita valutazione dei fatti, dalle pronunzie assolutorie emesse nei loro confronti.
[...] Mario Francese, nel raccontare le vicende giudiziarie relative a fatti di mafia, delineò con chiarezza l’elevato spessore criminale di diversi esponenti di <<Cosa Nostra>>, il cui rilievo non era ancora stato posto in luce dai mezzi di informazione. 
[...] Alcuni dei più gravi e complessi episodi criminosi, rimasti insoluti per decenni (ed, in alcuni casi, non ancora chiariti in sede giudiziaria), furono presi in esame da Mario Francese: segnatamente, la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro [...], l’assassinio del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione [...], la morte di Enrico Mattei [...], l’uccisione di Giuseppe Impastato (v. l’intervista alla madre ed al fratello di Giuseppe Impastato, pubblicata sul <<Giornale di Sicilia>> del 18 maggio 1978 con il titolo <<Né terrorista né suicida - Mio figlio è stato ucciso!>>). L’acuta intelligenza e il coraggioso impegno professionale di Mario Francese si soffermarono, sin dalla prima metà degli anni ’70, anche su alcune significative personalità destinate a svolgere un ruolo di attiva intermediazione tra la mafia e la società civile, agevolando fortemente l’infiltrazione degli interessi dei boss corleonesi nei più diversi settori sociali.
[...] Mario Francese seguiva con grande attenzione i più recenti sviluppi di tutte le vicende giudiziarie nelle quali erano coinvolti i principali esponenti mafiosi corleonesi.
[...] La mancanza, nelle cronache redatte da Mario Francese, di qualsiasi timore reverenziale verso i più potenti boss mafiosi, è evidenziata dal suo articolo dal titolo <<Liggio il processo se lo fuma>>, pubblicato sul <<Giornale di Sicilia>> dell’8 aprile 1978, e dalla sua intervista al medesimo esponente di <<Cosa Nostra>> (definito come <<un gangster>>), apparsa in pari data sul quotidiano [...].
Mario Francese - il quale aveva già posto in luce i forti interessi economici dell’associazione mafiosa nel settore dell’edilizia [...] - comprese subito la nuova strategia di <<Cosa Nostra>>, volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall'esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60. Si trattava di una importantissima fase di sviluppo evolutivo dell’associazione mafiosa, i cui lineamenti essenziali sono oggi notori ma potevano, allora, essere intravisti solo da persone dotate di un non comune patrimonio conoscitivo e di una particolare capacità di cogliere i nessi tra gli eventi.
[...] Le infiltrazioni di <<Cosa Nostra>> nel mondo degli appalti e dell’economia, il loro stretto collegamento con le più sanguinarie manifestazioni di violenza mafiosa, il contestuale affermarsi dello schieramento trasversale facente capo ai <<corleonesi>>, il nuovo terreno di incontro creatosi tra l’illecito sodalizio e i grandi gruppi imprenditoriali nel controllo degli appalti di opere pubbliche, furono colti, analizzati ed interpretati con particolare lucidità da Mario Francese in una serie di inchieste giornalistiche da lui effettuate nella seconda metà degli anni Settanta. Dagli articoli da lui redatti emerge un amplissimo complesso di notizie e di strumenti di comprensione in ordine a quella politica di alleanze – fondata sulla violenza ma anche sulla mediazione – che consentì ai <<corleonesi>> di imporre il loro dominio sulla realtà siciliana. Mario Francese comprese subito che i violenti conflitti interni a <<Cosa Nostra>>, manifestatisi in ripetuti episodi omicidiari nella seconda metà del 1977, si collegavano strettamente ai grandi interessi economici connessi alla costruzione della diga del Belice.
[...] Dall'approfondita inchiesta giornalistica condotta da Mario Francese sulla diga Garcia, emergono alcuni elementi di particolare rilievo [tra cui, N.d.A.] il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di una enorme accumulazione di ricchezza connessa ai lavori di costruzione della diga [...].
La straordinaria conoscenza del fenomeno mafioso acquisita da Mario Francese è evidenziata dal dossier che egli aveva redatto, e che venne pubblicato dopo la sua morte sul supplemento settimanale del <<Giornale di Sicilia>>, in più puntate, con decorrenza dall'11 marzo 1979, proprio per ricordare l’esemplare impegno professionale del cronista. La pubblicazione fu comunque soltanto parziale, come ha chiarito il figlio della vittima, Giuseppe Francese, nel verbale di assunzione di informazioni del 20 dicembre 1997, in cui si è specificato che non fu pubblicata la parte del dossier riguardante l’on. Salvo Lima. 
Nello scritto in questione Mario Francese, anzitutto, delineava con la massima precisione la composizione delle <<famiglie>> mafiose, mostrandone il territorio ed elencandone gli adepti (questa prima parte del dossier comprendeva, già da sola, 19 pagine dattiloscritte, fitte di nomi). 
Egli, poi, descriveva la mafia <<come una congregazione di mutua assistenza i cui adepti nell'apparente rispetto della legalità s’infiltrano in ogni struttura dell’apparato dello Stato e della società per ricavarne vantaggi anche ricorrendo alla corruzione finalizzando leggi e provvedimenti al profitto di singoli e di gruppi>>, spiegava che <<in questa conquista del mondo produttivo, attraverso connivenze, compartecipazioni e compromessi, la mafia privilegia i suoi associati usando ed abusando con la lusinga di vantaggi economici e sociali delle pedine soggiogate dello Stato e della società>>, metteva in risalto la struttura piramidale ed unitaria di <<Cosa Nostra>>, evidenziando che la mafia moderna aveva <<una sua vasta organizzazione piramidale con al vertice gli esponenti del suo mondo organizzativo ed economico. Un vertice composto da persone non sempre facilmente identificabili, rappresentanti interessi eterogenei e manovranti le fila di complessi e svariati interessi d’alto livello nazionale e internazionale>>. 
Mario Francese, quindi, analizzava approfonditamente alcune delle più rilevanti iniziative criminali e vicende interne dell’organizzazione, come:

- l’utilizzazione di società di autotrasporti per i più vari traffici illeciti;

- l’attività di contrabbando […];

- il traffico di stupefacenti, organizzato con l’attivo coinvolgimento di numerosi gruppi criminali, in cui erano inseriti - tra gli altri - i Greco di Ciaculli, Antonino Salamone, Paolo e Nicola Greco, Teresi, Citarda, Bontate, i fratelli Spadaro, Francesco Cambria, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Gerlando Alberti, Luciano Liggio, i Rimi, Giuseppe Calderone;

- il commercio di vino sofisticato;

- i traffici illeciti nei settori della valuta e dei preziosi;

- il reinvestimento in attività economiche dei proventi delle attività illecite (sul punto, Mario Francese precisava: <<ad una potenza organizzativa, perché unitaria, corrisponde una inimmaginabile potenza economica della mafia a giustificazione del rapido ed apparentemente incomprensibile arricchimento di singoli mafiosi e di gruppi, di società impegnate nelle più disparate attività produttive e commerciali>>, sottolineava come la mafia avesse una <<straordinaria capacità di inserimento nella società in cui opera mimetizzandosi>>, e rilevava che <<non v’è distinzione, dunque, fra mafia dedita esclusivamente a delitti e sopraffazioni e una mafia protesa alla conquista del predominio economico>>);

- i collegamenti tra le <<famiglie>> siciliane e quelle statunitensi;

- l’ascesa di Gaetano Badalamenti alla carica di <<presidente>> della <<Commissione>>, e la quasi concomitante fuga di Luciano Liggio dalla clinica romana dove era ricoverato, nel 1969;

- le attive ricerche svolte dal colonnello Russo per catturare Luciano Liggio;

- i rapporti tra Luciano Liggio e padre Agostino Coppola [parroco di Carini. Nel titolo di un articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" il 15 agosto 1974, Mario Francese definì il sacerdote "parroco-mafioso", N.d.A.], e la comune realizzazione di imprese criminali;

- la costituzione delle società <<Solitano S.p.A.>>, <<Sifac S.p.A.>>, <<Zoo-Sicula RI.SA.>> ("interpretato come Riina Salvatore, luogotenente di Liggio");

- i sequestri di persona compiuti nell'Italia settentrionale ed attribuibili al gruppo mafioso facente capo a Luciano Liggio […];

- la spaccatura verificatasi, all'interno di <<Cosa Nostra>>, tra lo schieramento riconducibile a Luciano Liggio e le cosche avversarie […];

- l’attività edilizia intrapresa da Giuseppe Garda tra gli anni ’50 e gli anni ’60, attraverso un fitto intreccio di cointeressenze, rapporti societari, contatti con ambienti ecclesiastici e istituzionali […];

- la costituzione della nuova <<anonima sequestri>> siciliana, a capo della quale si sarebbe trovato il boss di Santa Ninfa, Vito Cordio, successivamente scomparso […];

- i numerosi omicidi commessi a Corleone e nelle zone vicine tra il 1975 ed il 1978, i quali, pur essendo stati determinati da diverse motivazioni, avevano <<messo in luce l’esistenza di una mafia nuova che era riuscita ad imporre, in ogni settore economico, il suo spietato controllo>> […]

Nel tracciare l’organigramma delle varie cosche mafiose, Mario Francese sottolineava il predominio esercitato da quasi un secolo dalle famiglie Greco sulle borgate di Ciaculli-Croceverde-Giardini, menzionava Giacomo Gambino, Francesco Madonia, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano (questi ultimi tre qualificati come <<luogotenenti>> di Luciano Liggio) tra i numerosi componenti del clan capeggiato dal Liggio, specificava che il nuovo leader della cosca di Villagrazia era Stefano Bontate, ed indicava Bernardo Brusca come membro della cosca di San Giuseppe Jato, Agostino Coppola e Antonino Geraci (fu Gregorio) come partecipi della cosca di Partinico, Giuseppe Calò come soggetto inserito nel gruppo di Palermo-Porta Nuova.
La forza dirompente delle sensazionali informazioni fornite dall'<<intrigante>> giornalista, che nell'espletamento del suo impegno professionale ha avvertito il dovere di divulgare, in contrapposto all'imperante omertà del tempo, tutte le notizie raccolte, sottoponendole ad un’analisi critica che si è rivelata del tutto esatta, acquista una maggiore significativa rilevanza se si paragonano al ridotto livello delle conoscenze allora comunemente presenti, nello stesso ambiente giornalistico, in ordine al fenomeno mafioso.
[...] Il metodo di lavoro di Mario Francese (metodo che costituiva una straordinaria espressione di giornalismo di inchiesta), la sua capacità di cogliere in profondità il significato degli eventi e la sua leale vicinanza all'autorità giudiziaria - vicinanza che era ampiamente percepibile dall'esterno e determinava, per lui, una forte esposizione a rischio - sono evidenziate dalle seguenti dichiarazioni rese dal giornalista Francesco Nicastro al Pubblico Ministero in data 10 aprile 1998: <<Lo ricordo come un professionista molto serio, impegnato nella ricerca puntuale delle notizie, che trattava con grande onestà intellettuale. Proprio questo suo metodo di lavoro mi colpì e probabilmente lo esponeva molto in un ambiente difficile. Dico questo perchè vedevo che si muoveva dando anche l'impressione di non ricorrere a particolari cautele nei contatti con le potenziali fonti di informazione. Il metodo di lavoro del Francese differiva da quello degli altri cronisti per la tendenza dal Francese sempre manifestata all'approfondimento delle notizie ricorrendo ad una pluralità di fonti che lo vedevano spesso in contatto diretto con i protagonisti delle vicende giudiziarie delle quali si occupava. Ricordo che proprio in questi contatti diretti il Francese sembrava, all'esterno, ricoprire un ruolo quasi di partecipazione attiva alle inchieste ed ai dibattimenti. Preciso che ciò poteva apparire all'esterno ma che in realtà il Francese svolgeva il suo lavoro al meglio e, ripeto, con grande onestà. Ricordo ad esempio che egli amava seguire con particolare attenzione i procedimenti nella fase del pubblico dibattimento e ciò faceva prendendo posto, in piedi e con il taccuino in mano, accanto al Pubblico Ministero, a differenza degli altri cronisti che normalmente prendevano posto accanto agli avvocati. Tale suo atteggiamento formale comportava una maggiore esposizione proprio nei confronti degli imputati e del pubblico che seguiva le udienze [...]>>.
Nel verbale di assunzione di informazioni del 23 aprile 1998, il Nicastro ha aggiunto: <<Varie erano le fonti di informazione del Francese, che proprio negli ultimi tempi le aveva ampliate anche ad ambienti diversi da quelli giudiziari. A tutti i cronisti giudiziari era noto il fatto che il Francese aveva esteso i suoi rapporti anche agli ambienti investigativi, con particolare riferimento al Reparto Investigativo dei Carabinieri ed al Col. Russo Giuseppe, tanto che gli articoli più significativi del Francese sui fatti di mafia contenevano elementi, spunti ed informazioni che erano anche l'oggetto delle investigazioni dei Carabinieri. Proprio su tali temi il Francese mostrava di conoscere con grande precisione elementi riferibili anche ad attività non solo criminali, ma riguardanti il settore economico e societario di esponenti di Cosa Nostra. Il suo obiettivo era quello di approfondire, aggiornandola, la conoscenza di fenomeni criminali e vicende di cui si era già occupata la Commissione Parlamentare Antimafia [...]>>
La passione civile con la quale Mario Francese osservava attentamente il fenomeno mafioso si evince anche dai ricordi esternati da Lino Rizzi (direttore del "Giornale di Sicilia" dal 1977 al 1980) nel verbale di assunzione di informazioni dell’8 gennaio 1977: <<Il Francese, che era buon conoscitore dei fatti di mafia, non perdeva occasione per parlarmene, premettendo spesso la frase "vede, io sono di Siracusa, della provincia babba", con ciò volendo prendere le distanze da quegli ambienti. Lo ricordo come un buon giornalista, rigoroso e serio nel lavoro>>.
[...] Lo schieramento mafioso facente capo a Stefano Bontate era ben consapevole del pericolo che l’attività giornalistica di Mario Francese rappresentava non solo per i <<corleonesi>>, ma per tutta <<Cosa Nostra>>, fortemente proiettata, in quel periodo, verso la valorizzazione della propria dimensione imprenditoriale, ed interessata a sviluppare un saldo rapporto di cointeressenza con importanti settori del mondo politico ed economico sul piano della gestione degli appalti pubblici.
[...] Il movente dell’omicidio è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui Mario Francese aveva compiuto una approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70, aveva raccolto e diffuso un eccezionale patrimonio conoscitivo sulla struttura e sulle attività dell’associazione, aveva fornito all'opinione pubblica ed agli stessi organi investigativi importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all'interno di <<Cosa Nostra>>, in un momento in cui iniziava a trovare concreta attuazione la nuova strategia criminale che mirava ad affermare, con gli strumenti del terrore e della collusione, il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Una strategia che Mario Francese aveva compreso e descritto con la massima lucidità e che, se non fosse stato ucciso, avrebbe certamente continuato a denunziare con forza, in coerenza con la propria limpida e coraggiosa storia professionale"

Corte di Assise di Appello di Palermo, sezione II, sentenza n. 61/2002, pronunciata il 13 dicembre 2002.



"Un'opera che è stata definita <<faraonica>> e che, in dieci anni, comporterà una spesa di oltre 324 miliardi, non poteva lasciare indifferenti le grosse organizzazioni mafiose di centri tradizionali come Corleone, Monreale, Roccamena. Dice l'ing. Francesco Secco, di Belluno, direttore del cantiere della Lodigiani, la ditta che ha in appalto i lavori di costruzione della diga: <<Siamo venuti a Roccamena per costruire la diga Garcia e penso che nessuno, neanche la mafia, riuscirà a frapporre ostacoli>>Ed ha aggiunto: <<Io della mafia ho solo sentito parlare, ma non vedo come possa intrufolarsi nella costruzione della diga. Se qui occorre una ruspa, da Milano ne mandano tre, così per i camion, così per gli escavatori, per le betoniere. Il nostro cantiere è autosufficiente>>
Le dichiarazioni dell'ing. Francesco Secco, oltre a non essere aderenti alla realtà, non tengono conto delle caratteristiche di un'organizzazione mafiosa che si rispetti e della tentacolarità della mafia. La realtà è diversa: un'opera mastodontica, con immensi capitali che richiede e con le infinite possibilità speculative che offre, non poteva lasciare indifferente la mafia, specie quella che ha radici vecchie e profonde, come la mafia di Corleone, di Roccamena e di Monreale.
<<Diga con cantieri autosufficienti>>dice l'ing. Secco della Lodigiani. La verità è ben altra.
[…] I cantieri della diga, dice la Lodigiani, sono autosufficienti. D’accordo, ma ciò non esclude che, per economia, l'impresa milanese abbia, in questo primo scorcio di lavori, fatto ricorso a <<noleggi>>Lo hanno confermato i fatti, lo ha confermato la superdirezione dei lavori del Consorzio di bonifica del medio ed alto Belice. Rosario Napoli, scampato alla morte il 19 luglio scorso ed ora esule volontario all'estero (per paura di morire) era stato <<noleggiato>> dalla Lodigiani come persona e per la sua pala meccanica. Un <<noleggio>> che ha provocato un attentato ed un assassinato.
Quindi, attorno alla diga, c'è un racket degli aspiranti ai noleggi e c'è un racket, ancora più vasto, per le forniture dei materiali di cava, che non possono certamente giungere da Milano. Lavori così imponenti impongono, poi, noleggi di grossi automezzi, oltre che di ruspe e di pale meccaniche; impongono forniture di sabbia di cava e di mare (entrano di scena Balestrate e San Vito Lo Capo oltre che Castellammare del Golfo). Ma la Lodigiani non è la sola impresa che opera nella Valle del medio ed alto Belice. Il consorzio di bonifica ha concesso lavori extra nella zona ad altre dieci grosse imprese, che eseguono lavori per oltre due miliardi. 
[…] La costruzione della diga, quindi, va guardata nel suo complesso e nei suoi molteplici aspetti. Allora ci si potrà rendere veramente conto di quali interessi possa avere la mafia, quella con la <<M>> maiuscola ed allora ci si possono spiegare i contrasti già insorti tra le cosche mafiose, il cui equilibrio è stato certamente turbato dalla sfrenata corsa verso tutto ciò che la costruzione della diga può offrire. Non va dimenticato che siamo in piena zona terremotata, una zona che ha già una mafia sperimentata nella corsa per la ricostruzione dei paesi franati col terremoto del 1968"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 7 agosto 1977.




"La diga di Garcia, interamente finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno su progetto del consorzio di bonifica dell'alto e medio Belice, a che cosa servirà? E perché attorno alla diga si è creato un deserto di mafia, in cui oscuri interessi hanno scatenato contrasti, appetiti e una corsa quasi piratesca per l'aggiudicazione degli appalti di opere che dovranno convogliare le acque del serbatoio di Garcia verso Trapani ed Agrigento? 
[…] E allora a che è servita la costruzione della diga?
Eccoci quindi all'ipotesi del gran deserto della mafia che, anche dalle zolle una volta aride, ha saputo cavarci <<oro>>. Tre organizzazioni mafiose, (Palermo, Trapani e Agrigento) alla conquista del gran deserto di Garcia e che per la sfrenata corsa ai nuovi e redditizi appalti hanno rotto tradizionali equilibri"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 4 settembre 1977.
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".





"L'uccisione del colonnello Giuseppe Russo è servita forse a mettere a nudo, in termini realistici, uno spaccato dell'oscuro mondo della mafia nei suoi livelli più qualificati e a fornirci una più chiara visione del connubio mafia - politica e dei potenti mezzi di cui questa accoppiata dispone nella sfrenata e sconcertante corsa all'arricchimento senza limiti. 
[…] proprio la diga Garcia ha fatto saltare equilibri che sembravano già consolidati. Di fronte alla ballata di miliardi intorno a Garcia, insomma, si è avuta una specie di rivolta di parenti poveri: una vera e propria guerra fra il vertice economico di una piramide (mafia - politica) e un certo strato, tra la mediana e la base, della piramide stessa. La diga […] si è trasformata in una trincea dove è iniziata una battaglia senza quartiere che, lungo la strada degli appalti, ha cominciato a seminare una catena di morti ammazzati. La Lodigiani non conosce la mafia? Lo vedremo"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 6 settembre 1977.
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"L'impresa milanese Lodigiani, subito dopo l'aggiudicazione dell'appalto (per oltre 47 miliardi) dei lavori per la costruzione della diga Garcia, ha trovato nella zona <<ponti d'oro>>. Ecco perché l'ing. Francesco Secco, direttore tecnico dell'impresa, quando si è scritto che la catena di otto morti ammazzati nel triangolo Roccamena, Corleone, Mezzojuso, portava l'etichetta della mafia ed era collegata con la diga, si premurò a dichiarare: <<Io della mafia ho solo sentito parlare...>>. Lui i mafiosi li immagina con i <<barracani>> sulle spalle e con la cal. 38 in pugno. E non solo l'ing. Secco. Molti settentrionali la pensano come lui. 
[…] A chi servono i <<barracani>> e le <<cal. 38>>? Alla mafia qualificata certamente no. Non sono serviti a Rosario Napoli, che era stato presentato al direttore della Lodigiani da un personaggio influente, per noleggiare all'impresa della diga una pala meccanica e per fornire materiale dalla sua cava Mannarazza. 
[…] La mafia della cal. 38, semmai la conosce Rosario Napoli: una mafia della base, nella piramidale organizzazione, che si contende il pane quotidiano, gli spiccioli dei <<grandi>>, gli appalti secondari, le forniture. 
[…] Ponti d'oro per la Lodigiani: mentre i disperati della base mafiosa ribattono a colpi di lupara e cal. 38. Questi i due volti di una stessa organizzazione, a livelli diversi. 
Ponti d'oro della mafia alla diga e alla Lodigiani, ponti d'oro alla diga anche del consorzio tra i proprietari dei terreni espropriati, che non si sono affatto battuti per impedire la costruzione di un invaso che avrebbe tolto lavoro a pane a circa duemila braccianti agricoli e portato in zone lontane l'acqua del palermitano. 
[…] Ma la diga non è stata bloccata. Certi interessi, oscuri e curiosi, non possono essere travolti nel nome e nell'interesse di quelle categorie (piccoli coltivatori, mezzadri, affittuari, emigrati, assegnatari della riforma) che, per una diga con diverse finalità, avevano combattuto, affiancate da forze politiche e sindacali di un ampio schieramento"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 9 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




Mario Francese
"Una zona minata [quella del Belice, N.d.A.], dove si dibattono inconfessati interessi di società paravento che, favorite dal disordine e dall'egoismo degli enti pubblici e a partecipazione mista, interessati ad accaparrarsi finanziamenti e lavori, anche per motivi elettorali, trovano terreno fertile alla loro sfrenata ambizione. La costruzione della diga Garcia è una delle tante superopere in via di realizzazione nella vallata del Belice. Gli oltre trecento miliardi che, in dieci anni sono stati previsti per ulteriori opere di bonifica e di convogliamento dell'acqua negli invasi dei tre consorzi che ne hanno fatto richiesta, sono una particella degli enormi finanziamenti di opere pubbliche programmate nel Belice. 
[…] Una <<ballata>> di miliardi, nelle zone della ricostruzione del Belice e delle popolazioni disastrate dal terremoto, ma anche una ballata di miliardi che ha attirato nella valle l'attenzione di cosche spregiudicate che si combattono, si associano o si elidono, a seconda degli interessi e delle circostanze, nella corsa verso l'arricchimento. Una mafia che conferma la sua tradizione e concede, nella zona del Belice, il bis della guerra scatenata nel palermitano, tra gli anni 1958 e il 1963, epoca del boom edilizio cittadino. Interessi politici e di parte, creando attorno a così imponenti opere una babele di competenze e di attribuzioni, finiscono, come era accaduto a Palermo, col favorire i piani della mafia. Accaparramenti, con ogni mezzo, di aree di sviluppo (urbanistico, agricolo o industriale), accaparramento di vasti feudi che, desolati dall'arsura fino a ieri, domani vedranno centuplicato il loro valore dalle immense riserve d'acqua che verranno accumulate dalla costruenda diga di Garcia o dalla diga <<Arancio>> in corso di rilancio nell'agrigentino. Interessi che finiscono col rallentare il ritmo delle realizzazioni a vantaggio degli speculatori, che conoscono bene la legge per l'aggiornamento dei prezzi. Non si spiega altrimenti la disperazione delle popolazioni del Belice, nonostante l'imponenza dei finanziamenti e dei programmi: non si spiegano i perché di tante speranze deluse e della rabbia delle popolazioni del Belice, indignate dalla esasperante lentezza delle opere. Non sono pochi coloro che ancora, dopo nove anni dal terremoto, vivono in baracche. Non si spiega, altrimenti, l'impennata di non pochi deputati regionali, nella seduta di Sala d'Ercole del 16 febbraio scorso: un'impennata sfociata nell'approvazione di una mozione con la quale, tra l'altro, è stata sollecitata un'inchiesta parlamentare per accertare i <<gravi ritardi nella esecuzione delle opere nel Belice>> ed è stata suggerita l'istituzione di un ufficio speciale tecnico - amministrativo per il coordinamento delle iniziative e dei lavori. In questo quadro, che vorrebbe essere di ripresa e di ricostruzione, dal 1974 in poi, si sono inseriti tre sequestri di persona e una catena spaventosa di omicidi e di attentati"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 18 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"L'escalation dei delitti, dal 1974, ha coinciso col boom di finanziamenti statali e di opere pubbliche tra Garcia e le zone terremotate del Belice. Dopo la tragedia di Ciaculli del 30 giugno del 1963, le organizzazioni mafiose della Sicilia occidentale hanno fatto registrare il terzo tempo della loro continua e progressiva evoluzione. Una mafia <<galoppina>>, con settore preferito il contrabbando, fino al 1963, cioè una mafia che, attraverso appoggi elettorali, sfrutta al massimo le risorse cittadine (edilizia). I <<patriarchi>> si attestano nella città, abbandonando feudi e campagne e cominciano a tessere le fila di un'organizzazione funzionale a carattere interprovinciale. Dal 1963, con la massiccia applicazione di misure di prevenzione, la mafia, sparpagliata in tutta la penisola, incomincia a darsi un volto nazionale. I boss, quelli con la <<b>> maiuscola, rimasti in sede, rivolgono la loro attenzione agli enti pubblici. Dal 1963, infatti, scatta l'era delle <<municipalizzate>> e degli enti di Stato: un pedaggio che la DC paga all'ingresso del PSI nella maggioranza governativa. E con il fiorire di enti pubblici, parallelamente, dilagano enti misti, cioè enti privati, con partecipazione finanziaria di enti pubblici. Un'epoca che ha un nome battesimale: quella dei <<boss dietro le scrivanie>>. Ed eccoci al dopo-1970. Il dopo terremoto che ha devastato, nel 1968, molti centri del Belice, ha dato l'occasione alla grossa mafia di mutare obiettivi e di evolvere la sua già potente organizzazione. E' una corsa sfrenata alle campagne e ai feudi. Ma i programmi non sono quelli di venti anni prima. L'ansia di valorizzazione di vaste plaghe deserte e di trasformazione di colture tradizionali è solo apparente. Le espropriazioni per la costruzione della diga Garcia hanno dimostrato come 800 ettari di terreno, per secoli incolto, è stato trasformato per ricavare dallo Stato il maggior profitto possibile: un ettaro di vigneto è stato pagato, per far posto alla diga, 13 milioni. La cifra è stata raddoppiata se il proprietario ha dimostrato di essere un coltivatore diretto. Dal 1970 quindi, abbiamo un terzo stadio evolutivo della mafia: i boss dietro le scrivanie degli enti pubblici, spostano i loro interessi nel retroterra e, in prevalenza, nelle zone della valle del Belice. Una mafia che sta alle calcagna di imprese colossali e di appalti di super - opere. Oltre mille miliardi i finanziamenti per la costruzione del Belice. E nel contempo sorgono una pletora di società private, con finalità non sempre chiare. In città resta posto per i contrabbandieri, per i rapinatori e per le piccole organizzazioni. L'evoluzione della mafia della Sicilia occidentale è costretta però a pagare un prezzo, a volte alto, nella ricerca di equilibri stabili e nella corsa all'accaparramento di privilegi e ricchezze. Ed ogni conquista lascia dietro una scia di delitti. Abbiamo detto di una catena di agghiaccianti omicidi e di tre sequestri che hanno provocato stupore ed allarme sociale. 
[…] In quest'epoca si infittisce la rete di società paravento (Solitano, Risa, Sifac, etc.) che, forse intravedendo la possibilità di intrufolarsi in appalti e subappalti, aumentano improvvisamente di svariate decine di milioni i loro capitali sociali. Denaro sporco, riciclato e utilizzato per iniziative pseudo industriali"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 21 settembre 1977. 
Il "pezzo" fa parte di un'inchiesta giornalistica pubblicata in diverse puntate con il titolo: "L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia".




"Puntuale a luglio, nel triangolo Roccamena-Partinico-Monreale, è ripresa la guerra fra clan familiari e cosche mafiose per la conquista di <<un posto al sole>>
[…] Perché la ripresa di questa guerra feroce e senza esclusione di colpi? Quali gli interessi che polarizzano l'attenzione delle cosche mafiose? Quali i clan che si combattono tra loro per assicurarsi l'esclusiva in remunerativi appalti o subappalti di opere pubbliche? 
Nella vallata del Belice e nel triangolo Monreale-Roccamena-Corleone, in attesa della vendemmia e dell'acqua della diga Garcia, la vita trascorre lenta, senza apparenti novità. La monotonia è interrotta da un continuo via vai di grossi camion in gran parte di Camporeale, che si muovono nelle anguste strade di San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena, Montelepre e Partinico. Camion che fanno spola con la diga Garcia, in corso di costruzione, per trasportarvi materiale inerte e conglomerati cementizi: una diga che, dopo la costruzione della galleria in cui sono state deviate le acque del Belice, va progredendo da Garcia verso Roccamena <<divorando>> circa 800 ettari di vigneto, ancora in piena produzione. E sul letto di questa diga immensa è un assordante manovrare di pale meccaniche e ruspe che scavano, appianano, distruggono e creano il grande letto del nuovo invaso. Ed i camion si muovono anche per la costruzione della superveloce Palermo-Sciacca. A San Cipirello, come a Roccamena, si guarda a queste colossali opere pubbliche e alla costruzione delle cittadine terremotate del Belice come ad una occasione di lavoro remunerativo e sicuro, che durerà per molti anni. Ma ci sono anche gruppi di potere per i quali le opere pubbliche sono occasione di rapido arricchimento. Esenzioni e agevolazioni fiscali favoriscono la corsa a improvvisarsi costruttori, a ricercare con appoggi politici appalti e subappalti nella Valle del Belice. I Di Giovanni, i Celeste, I Randazzo ed altri <<gruppi>> di Roccamena, San Cipirello, Partinico, Borgetto, Corleone e Monreale, fanno parte di questa schiera di <<operatori emergenti>>: hanno impegnato tutti i capitali disponibili nell'acquisto di pale meccaniche e automezzi nella speranza di assicurarsi una fetta delle opere pubbliche in corso, programmate e in via di finanziamento"

Mario Francese, articolo pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 9 agosto 1978.




Mario Francese è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Mario attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Mario è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.

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