domenica 7 dicembre 2014

IL RISCHIO LEGALITA' 

Antonino Di Matteo

"E non sapete voi che
il soffrire per la giustizia è il nostro vincere?
[...]
Certo non vi sarà domandato, un giorno,
se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti;
che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo.
Ma vi sarà ben domandato
se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra mano
per far ciò che v'era prescritto,
anche quando avessero la temerità di proibirvelo"

Alessandro Manzoni, "I Promessi Sposi", capitolo XXV


Nonostante il boss di Cosa Nostra Vito Galatolo sostenga che a Palermo sia già arrivato il tritolo destinato al pm Antonino Di Matteo e che in tale progetto stragista siano coinvolti anche personaggi esterni alla mafia siciliana, il ministero dell'Interno (guidato da Angelino Alfano) si ostina a negare al magistrato dei processi sulla mancata cattura di Provenzano e sulla trattativa Stato-mafia il solo strumento in grado di evitare l'ennesima carneficina.
Si tratta del bomb jammer, un dispositivo capace di neutralizzare gli impulsi elettrici degli esplosivi attivati a distanza, più volte promesso da Alfano, ma - chissà per quale misterioso motivo - mai pervenuto a Di Matteo e agli uomini della scorta.
Così, mentre lo Stato italiano persevera a lasciare sempre più solo uno dei magistrati più esposti e più scomodi d'Italia, le organizzazioni mafiose si rivelano decisamente più attente e attrezzate.
Prendiamo Mafia Capitale, l'organizzazione mafiosa romana che controlla(va) attività economiche, appalti e servizi pubblici, operando "in un mondo di mezzo, un luogo dove [...] si realizzano sinergie criminali e si compongono equilibri illeciti tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano illecitamente con l’uso delle armi".
Queste le parole utilizzate dal Gip di Roma Flavia Costantini nell'ordinanza di custodia cautelare emessa il 28 novembre scorso nell'ambito del procedimento penale n. 30546/10 R.G.N.R., a seguito della quale è scattata l'operazione "Terra di mezzo" (37 arresti, di cui 29 in carcere e 8 ai domiciliari).
Ebbene, nella stessa ordinanza il giudice parla di "rischio legalità", ovvero del rischio corso dai mafiosi di essere scoperti. Consapevoli di ciò, come tutti i delinquenti del mondo, si sono dotati di mezzi precauzionali, quali utenze telefoniche dedicate e un disturbatore di frequenze tipo "jammer". 
Già, proprio quello di cui necessiterebbe Di Matteo per non essere ucciso.
Ovviamente i mafiosi si servono dello stesso attrezzo per raggiungere uno scopo ben diverso, ossia impedire la captazione delle proprie conversazioni ambientali.
Nel caso di Mafia Capitale, è Massimo Carminati, il capo, a manifestare la necessità di posizionare un disturbatore di frequenze nel luogo dove l'associazione è solita riunirsi (la sede romana della Cooperativa 29 Giugno, in via Pomona n. 63, all'interno dell'ufficio di Salvatore Buzzi, colui che gestisce la contabilità occulta del sodalizio mafioso, il pagamento di tangenti ai pubblici ufficiali e l'aggiudicazione degli appalti pubblici). 
<<Intanto ti porto un coso.. un jammer....intanto lo mettiamo qua lo attacchiamo così quando uno è.. lo accende e vediamo.. intanto.. qui i telefonini pure se son accesi>> dice Carminati a un collaboratore di Buzzi (Emilio Gammuto) l'11 dicembre 2013.
L'apparecchio - installato a partire (almeno) dal 20 gennaio 2014 - viene attivato prima di ogni riunione, in modo da consentire ai criminali di parlare liberamente dei loro sporchi affari, lontano dalle orecchie indiscrete di giudici "impiccioni".
<<Ma sei sicuro che filtra tutto sto cazzo di ..(inc)..con questa mafia qua mi sa che ci troviamo nella stessa cella tutti e due!>> domanda un uomo non meglio identificato.
<<Questo me l’ha portata Massimo ...è una cosa seria!!>> risponde Salvatore Buzzi. 
Per fortuna le forze dell'ordine sono riuscite ugualmente a intercettare le conversazioni della banda di malavitosi. 
La stessa fortuna che evidentemente non spetta al magistrato Antonino Di Matteo. 
Perchè se una banda di criminali mafiosi corre il "rischio" che la legalità trionfi utilizzando (anche) il dispositivo "jammer", mentre Di Matteo è costretto ad affrontare da tempo un altro rischio - quello di essere ucciso - per l'assenza dello stesso strumento, significa che lo Stato non vuole proteggere uno dei pochi servitori rimasti fedeli alle Istituzioni. 
Vuole ammazzarlo.


"Non è possibile vincere questa battaglia, questa guerra,
se nei luoghi strategici delle istituzioni
Roberto Scarpinato
continuano a restare ai loro posti persone
che per vari motivi,
o un difetto di competenza,
o forme di indifferenza morale,
o per rassegnazione fatalistica,
non sono in grado di assolvere ai loro doveri, ai loro compiti.
Bisogna ristabilire il principio di responsabilità
che passa anche attraverso rimozioni e dimissioni
per affermare che oggi in Italia,
quando si tratta di vita o di morte,
se c'è qualcuno che non è all'altezza deve andare via.
[...]
Come si può fare la nuova Resistenza
quando la nostra vita è affidata a queste persone?
Si può chiedere coraggio se corri un rischio,
non quando c'è la certezza di morte.
Ormai i magistrati e gli uomini delle scorte si rendono conto
di essere abbandonati a loro stessi"

Roberto Scarpinato, magistrato,
articolo di Saverio Lodato dal titolo "Dura requisitoria del giudice <<ribelle>>",
pubblicato su "l'Unità" del 27 luglio 1992
(65 giorni dopo la strage di Capaci e 8 giorni dopo quella di via D'Amelio).
Nel "pezzo" il giornalista ricorda che moltissimi magistrati di Palermo sono
"stanchi di andare al macello
mentre la colonna sonora delle istituzioni intona proclami retorici.
Sono giudici stanchi.
Stanchi di gridare nel deserto un puntiglioso elenco di
misure possibili per controbattere il potere di Cosa Nostra.
Stanchi, soprattutto, di assistere a questa paurosa forbice
fra quanto si dovrebbe, si potrebbe fare,
e ciò che concretamente viene fatto"



P.S. Invito i lettori di questo blog a sottoscrivere - come me - la lettera di Giulio Cavalli indirizzata a Matteo Renzi e a Giorgio Napolitano, in cui l'autore e attore teatrale chiede conto dell'inquietante inerzia e dei fragorosi silenzi nei confronti di Antonino Di Matteo. 

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