VIOLENZA ISLAMICA
Processato, l'uomo è stato condannato per maltrattamenti e lesioni aggravate in tutti i gradi di giudizio: prima dal Gup di Ravenna (sentenza del 12 novembre 2007), poi dalla Corte d'Appello di Bologna (sentenza del 2 marzo 2010), infine dalla Cassazione (sezione VI penale - sentenza 30 marzo 2012, n. 12089).
L'imputato - attraverso i suoi legali - si era difeso sostenendo di aver agito per finalità educative in un contesto culturale e familiare rigidamente patriarcale, che lo avrebbe fatto sentire legittimato a comportarsi da "padre padrone", secondo il proprio codice etico-religioso. Se era ricorso all'uso della forza, insomma, era stato solo per il bene della piccola figlia; per di più, essendo egli estraneo al processo di evoluzione del costume e delle scienze pedagogiche, ciò avrebbe dovuto costituire un motivo di giustificazione (la non conoscenza delle norme italiane).
Nessun giudice però ha potuto condividere tale formulazione difensiva, dal momento che è assolutamente irrilevante l'ignoranza della legge penale quando le condotte dell'imputato - come nel caso trattato - abbiano palesemente violato i diritti fondamentali della persona umana riconosciuti dalla Costituzione italiana, giacchè questi ultimi rappresentano uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione nella società di prassi, usi e costumi "antistorici" rispetto ai risultati raggiunti con l'affermazione e la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo. Secondo i magistrati, il comportamento violento e intenzionalmente vessatorio dell'imputato è stato frutto di una consapevole, quanto ingiustificabile scelta a fronte di un sistema di valori costituzionali opposto.
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