giovedì 8 marzo 2012

MARIA CONCETTA, UNA DI NOI

Maria Concetta Cacciola
La storia di cui mi occupo oggi è stata definita da Fulvio Accurso, giudice di Palmi (Reggio Calabria), "triste, drammatica ed emblematica". In occasione dell'8 marzo, voglio dedicarla a tutte le donne che - come la protagonista - hanno lottato e lottano per la propria e altrui libertà, nelle diverse forme in cui tale valore può essere declinato.

Maria Concetta Cacciola nasce a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, il 30 settembre 1980. A 13 anni conosce Salvatore Figliuzzi, classe '73, insieme al quale compie la "fuitina". A 16 anni lo sposa. Nascono tre figli: Alfonso (1995), Gaetana (detta Tania, 1999) e Anna Rosalba (2004). Ciò nonostante, Cetta (come viene chiamata) non ama Salvatore, non lo ha mai amato. Il loro non è un matrimonio felice. Persino un litigio per futili motivi non è assimilabile alla normalità: in un'occasione, ad esempio, Salvatore arriva a puntare una pistola contro la giovane consorte, eppure - raccontando l'episodio al padre - la donna si sente rispondere: "Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita". Dal 2003 il marito è in carcere a Larino, in Molise, per scontare due condanne per 416-bis, associazione mafiosa. Non deve quindi sorprendere che le nozze siano state decise con il solo scopo di imparentare alcune famiglie di 'ndrangheta. Già, perchè la famiglia di Maria Concetta, residente a Rosarno (Reggio Calabria), è mafiosa.
Il padre, Michele Cacciola, classe '58, è noto al commissariato di Polizia di Gioia Tauro fin dagli anni '70, i cui rapporti informativi lo descrivono come soggetto socialmente pericoloso fin da giovanissimo, dedito al crimine e poco amante del lavoro. Dall'età di 17 anni è autore e promotore di danneggiamenti con esplosivi a scopo estorsivo a danno di operatori economici del centro di Rosarno. Ha solidi legami con i clan di 'ndrangheta Pisano e Bellocco (in particolare, con il boss latitante Antonio), con cui è anche imparentato (la sorella, Teresa Cacciola, ha sposato Gregorio Bellocco). Dedito più volte alla latitanza, fin da ragazzino è attenzionato, arrestato o condannato per reati come furto, associazione per delinquere, omicidio, sequestro di persona, occultamento di cadavere, detenzione abusiva di armi ed esplosivi e delitti legati alla droga.
Il fratello di Maria Concetta, Giuseppe Cacciola, classe '81, segue le orme del padre da quando non ha ancora compiuto 14 anni. Anch'egli arrestato, gli sono stati addebitati delitti come ricettazione, falso, associazione mafiosa, traffico di armi, usura e riciclaggio. I suoi compagni di vita sono giovani pregiudicati, membri delle nuove leve di 'ndrangheta.
Questa è la famiglia in cui è nata e cresciuta Maria Concetta.
Con il marito in galera per mafia, vive - insieme ai tre figli - in un appartamento al 1° piano della casa dei genitori, a Rosarno, in via don Gregorio Varrà 26, ma il padre, la madre (Anna Rosalba Lazzaro, classe '64) e il fratello le vietano di uscire di casa e di avere amici, imprigionandola tra le mura domestiche. Non c'è da meravigliarsi: tra l'onore mafioso e la felicità di una figlia, la 'ndrangheta sceglie sempre il primo. Maria Concetta è così costretta a vivere nella disperata solitudine di un simile isolamento forzato, obbligata peraltro a crescere da sola tre figli piccoli. 
La mattina del 4 novembre 2007 esce di casa con il figlio Alfonso per consegnare una medicina a un'amica, ma al suo rientro viene rimproverata dal padre, il quale le ribadisce il divieto di uscire di casa perchè il marito è in carcere. Quello stesso giorno, Cetta, in una lettera, scrive:
"A cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatti con nessuno? Come posso campare così se non posso nemmeno respirare? Cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo? Gli piace vedermi disperata dalla mattina alla sera. Mi alzano le mani, ti chiudono in casa, non puoi uscire, non puoi avere amicizie".
Un altro esempio riguarda quella volta in cui trascorre una mattinata a Reggio Calabria in compagnia di un'amica. Il tempo è inclemente e non riesce a tornare a casa dei genitori entro l'orario abituale, motivo sufficiente al padre per schiaffeggiarla in presenza dell'amica.
Alla completa privazione di libertà di autodeterminazione si unisce anche un non indifferente costringimento psicologico, con cui Maria Concetta deve fare i conti fin dall'adolescenza. Nonostante tutto, però, la donna non si dà per vinta e nel 2009, di nascosto dai parenti, riesce ad avviare una relazione sentimentale con un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Purtroppo, nel giugno 2010, alcune lettere anonime svelano tutto alla famiglia.
Tale scoperta, unita al desiderio di separarsi dal marito carcerato, fa sì che per Maria Concetta inizi un vero e proprio calvario. Viene continuamente pedinata alla frenetica ricerca di prove del suo tradimento da alcuni cugini e dal fratello Giuseppe, il quale - insieme al padre - le impartisce diverse punizioni, riempiendola di botte così violente e brutali da provocarle persino la rottura o l'incrinatura di una costola. In tale circostanza alla povera Cetta non è neppure permesso di recarsi in ospedale: i familiari chiamano a casa un medico loro amico, tale dottor Ceravolo (che potrebbe essere Michele Ceravolo, arrestato il 28 marzo 1994 per favoreggiamento nei confronti di un membro del clan mafioso dei Pesce), che, per i 3 mesi di degenza, visita la donna sempre e solo a domicilio, non raccomandando alcuna radiografia, nè rilasciando un certificato medico che attesti le lesioni.
La situazione è talmente insostenibile da portare Maria Concetta più volte a desiderare la morte. Nell'ottobre 2010, a causa delle selvagge botte inferte dal padre, tenta il suicidio attraverso l'ingestione di una gran quantità di pillole, che, essendo di un farmaco diuretico, non portano ad alcuna conseguenza. Il 20 aprile 2011 compone il numero di telefono di un centro antiviolenza femminile, ma riattacca prima ancora che qualcuno le risponda. In ogni caso, una piccola, buona notizia c'è: negli stessi giorni conosce un uomo, Pasquale Improta, tramite una chat-line, con cui presto sboccia una relazione sentimentale, caratterizzata da frequenti scambi di telefonate, grazie alle quali Maria Concetta può sfogarsi. E' sempre più in preda al terrore, soprattutto dopo che la cognata (la moglie del fratello Giuseppe) insiste nel convincerla che Giuseppe avrebbe installato una microspia nell'appartamento. Sarà un caso, ma i familiari riescono a venire in possesso dei tabulati telefonici delle conversazioni con Pasquale. 
Cetta teme per la sua stessa sopravvivenza, vivendo con la costante e logorante minaccia di essere uccisa dai suoi stessi consanguinei da un momento all'altro per aver tradito il marito galeotto. In particolare, il suo terrore deriva dall'idea che un giorno il fratello si presenti a casa per dirle di seguirlo, per poi farla sparire. Considera il fratello - verso cui nutre una paura indescrivibile - capace di uccidere non solo lei, ma anche il suo amante, una volta ottenuta una qualche conferma della loro relazione.
Maria Concetta non ce la fa più: grazie all'esempio di "Giusi" (sua cugina Giuseppina Pesce, che - diversamente da Maria Concetta - è una "pentita", ovvero una donna arrestata perchè gravemente indiziata di aver commesso reati di mafia), si rivolge ai Carabinieri di Rosarno per testimoniare i "discorsi di malavita che era costretta ad ascoltare e che a lei non piacevano" (come racconterà l'amato Pasquale). Sceglie di andarsene, conscia del fatto che, tradendo il marito mafioso in carcere, ha compromesso l'onore della famiglia, per ristabilire il quale il padre e il fratello sarebbero arrivati persino a toglierle la vita. "La famiglia queste cose non le perdona, l'onore non lo perdonano", confessa a un'amica. Dunque, per paura di essere ammazzata, Maria Concetta fugge, chiedendo aiuto allo Stato, senza tuttavia fare i conti con i suoi rimorsi materni. Infatti affida temporaneamente i tre figli minorenni alla madre, confidando che - da mamma a mamma - avrebbe compreso il suo dolore, non rendendosi conto, invece, di lasciare i suoi bambini nelle mani dei suoi stessi persecutori. 
E' l'11 maggio 2011 quando Cetta si presenta ai Carabinieri di Rosarno. Seppur convocata per il sequestro del motorino del figlio Alfonso, non si lascia sfuggire l'occasione e racconta agli uomini dell'Arma le proprie vicende familiari e il terrore di essere uccisa. Scandisce ripetutamente un concetto: "se la mia famiglia viene a sapere che sono qua a raccontare queste cose mi ammazza".
Rendendosi conto della gravità della confessione ricevuta, i carabinieri la invitano a tornare in caserma. Vi torna il 15 maggio e ribadisce le sue profonde paure, soprattutto nei riguardi del fratello Giuseppe: "mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire". Se, infatti, il padre Michele potrebbe essere calmato dall'intercessione della madre, il fratello è molto più testardo, avendo altresì già acquisito il "rispetto" dei cittadini rosarnesi. Perciò Maria Concetta esprime ai carabinieri il desiderio di raggiungere un'amica nel Nord Italia, nonostante molte di loro si siano nel frattempo allontanate da lei, dal momento che la sua famiglia avrebbe potuto fare del male a loro o ai loro figli, se l'avessero in qualche modo aiutata a scappare (tante volte aveva acquistato presso un'agenzia di viaggi i biglietti per la fuga, ma si era sempre tirata indietro non solo per paura, ma anche per non coinvolgere altre persone).
Alla sua terza visita ai carabinieri di Rosarno (23 maggio), Maria Concetta manifesta invece la volontà di raggiungere il suo amante a Napoli.
Il quarto (e ultimo) colloquio con le forze dell'ordine, lo tiene il 25 maggio presso la Caserma Porto di Gioia Tauro di fronte ai Pm antimafia. Maria Concetta deve scegliere da che parte stare. Sceglie lo Stato, a cui - affidando la propria vita - chiede di essere sottoposta a misure di protezione per le dichiarazioni già rese e per quelle ancora da rendere. Il giorno seguente i magistrati antimafia di Reggio Calabria, consci della sua intenzione di raccontare fatti sulle cosche mafiose Cacciola e Bellocco, propongono l'adozione di un piano provvisorio protettivo come testimone di giustizia.
Così, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, Maria Concetta viene prelevata dai carabinieri del Ros di Reggio Calabria e portata in una località protetta presso Cassano all'Ionio (Cosenza). Qui trascorre tutto il mese di giugno e gran parte di luglio presso il villaggio agrituristico "Colle degli Ulivi". E' allegra, aperta, solare e socievole. Riceve anche una breve visita (un paio di giorni) dell'amato Pasquale Improta. Poi, il 22 luglio, viene provvisoriamente trasferita a Bolzano, in un'altra località protetta. Avendovi ospitato un pluripregiudicato per reati contro la persona e il patrimonio, il 27 luglio è di nuovo trasferita, stavolta a Genova. Rimane nel capoluogo ligure fino alla sera del 2 agosto, quando - enormemente provata dalla lontananza dei figli lasciati a Rosarno - telefona alla madre, rivelandole di trovarsi vicino l'ospedale Gaslini e lasciandole capire di volerla incontrare (in seguito, si sarebbe pentita di questa chiamata, con la quale si è  necessariamente "indebolita"). Chiede - inutilmente - di mandarle i tre figli, ma la madre intuisce che essi sono il solo legame ancora sussistente con la famiglia. Pensa, così, di usarli per convincere Maria Concetta a tornare in Calabria: se avesse inviato Alfonso, Gaetana e Anna Rosalba in Liguria, si sarebbe potuta scordare definitivamente il ritorno a casa della figlia. Senza alcun tipo di scrupolo, i genitori iniziano quindi a sfoderare una sapiente, costante e gigantesca arma di ricatto. Le resistenze di Maria Concetta vengono erose lentamente, come un terribile stillicidio interiore: non solo decide di incontrare il padre e la madre - i quali partono da Rosarno in Mercedes, destinazione Genova - ma parte con loro per tornare a casa, in Calabria. Prima di partire, tuttavia, non convinta di ciò che sta facendo, lascia l'indirizzo dei genitori agli operatori dei Nop (Nuclei Operativi di Protezione, ovvero gli uomini del Servizio centrale di protezione che operano in ambito regionale e interregionale). Emblematiche le reazioni dei coniugi Cacciola quando, durante il viaggio, la figlia racconta loro ciò che aveva detto ai magistrati: se la madre mostra rabbia e disperazione, il padre prima usa un tono apparentemente rassicurante, tentando di convincere la figlia di non preoccuparsi, poi si innervosisce per lo "sgarro" ricevuto e invita Maria Concetta a fare scena muta con i giudici: "Tu non sai niente, tutto quello che hai detto non è vero".
Nella notte del 3 agosto, durante una sosta a Reggio Emilia, la giovane testimone di giustizia torna sui suoi passi e invia alcuni messaggi al Servizio centrale di protezione per farsi trovare e ricondurre in una località protetta. Il mattino seguente viene prelevata e riportata a Genova, mentre i genitori sono obbligati a tornare a Rosarno da soli. Prima di giungere a destinazione, però, Michele Cacciola riceve una telefonata del figlio Giuseppe e - dopo aver chiesto a quest'ultimo di fissargli un appuntamento con un avvocato - concorda con lui un piano per far ritrattare Maria Concetta, pensando di costringerla a scrivere una lettera sotto loro dettatura: "Prima la scriviamo, tanto lei non capisce niente. A lei la teniamo noi, al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta".
Da questo momento, i familiari aumentano le martellanti pressioni psicologiche, esortando la povera figlia "a lasciar stare tutte cose" e a ritrattare tutto. La madre, al telefono, prima cerca di convincerla a ripensare la sua scelta (promettendole che sarebbero andate a vivere insieme in un altra casa), poi - insistendo di contattare l'avvocato - le dice: "O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, che tu non sapevi niente. Tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente". Non solo: torna a usare i figli di Maria Concetta, promettendole che glieli avrebbe mandati a Genova. Una simile, terribile strategia, adottata fin dall'inizio dai coniugi Cacciola, tende a sfruttare l'unico punto debole della figlia - l'amore per i suoi bambini - per convincerla a tornare e a ritrattare tutto con gli inquirenti. Del resto, non potrebbe essere più netta l'alternativa fornita alla figlia: "O con noi o con loro devi stare".
Nella notte tra il 4 e il 5 agosto Maria Concetta manda il seguente sms all'amato Pasquale:
"Se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l'onore e la dignità e io glieli ho toccati entrambi. Ma finchè ho l'ultimo mio respiro io ti amerò. Buona notte, amor mio, ti amo".
Il suo animo è tremendamente travagliato dalla tentazione di tornare a Rosarno per riabbracciare i tre amati figlioli, ma altresì consapevole di rischiare la vita e compromettere definitivamente la libertà conquistata con dispendiosa fatica. E' una giovane donna sola, piena di ansie e di paure. Il 6 agosto confida alla sua amica del cuore - Emanuela Gentile - che i familiari erano riusciti - chissà come - a procurarsi i tabulati telefonici delle conversazioni intrattenute con l'amante e che era terrorizzata dal pensiero che essi ne conoscessero l'identità e l'indirizzo di casa (dove si erano addirittura recati):
"Sai perchè ho un po' di paura? Mi fanno tornare apposta, così dicono <<ritratti quello che hai detto>>. Questo è quello che mi fa paura, Manuela, le sappiamo come vanno queste cose nelle nostre famiglie, no?! Almeno nella mia famiglia. Dentro di me un po' ho paura, anche se lei mi dice di ritornare. Sono sua figlia, lo so, però sappiamo come sono fatti gli uomini lì da me! Dicono <<Scendi, così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto>>. Già mi hanno detto in partenza che io da casa non mi muovo, tranne quando esco con mia mamma. Allora penso: chi cazzo me lo fa fare di tornare, se poi campo un altro anno, anno e mezzo?".
Quello stesso 6 agosto, conversando al telefono con Pasquale, parla della madre nei seguenti termini: 
"Mi confonde le idee, quando la sento sembra che tocco il cielo. Va bene, è giusto così perchè sono sua figlia, a lei manco, però mi confonde le idee. Non ce la faccio a tornare perchè so già come andrà a finire. Lei no, non credo, ma mio padre e mio fratello sì. Tania [la figlia con cui Maria Concetta aveva mantenuto contatti, N.d.A.] mi ha detto che l'altra sera parlavano da soli, non davanti a mia madre, e quando non parlano davanti a mia madre io capisco perchè lo fanno. Quando ti portano a casa, ti fanno ritrattare, ti fanno firmare, ti fanno fare tante cose".
La sera del 7 agosto la chiama per avere notizie dei figli, ma, nella circostanza, apprende che lei, il fratello Gregorio e una delle figlie sono partiti per raggiungerla a Genova. Il giorno seguente, tentando di opporre una strenua resistenza alle nuove, immancabili pressioni psicologiche, Maria Concetta si inventa una scusa per non incontrare i parenti, ma l'arma del ricatto morale è - come al solito - troppo forte. Il fratello Gregorio, di fronte alle titubanze della sorella, le fa ascoltare per telefono il pianto e le grida della figlia. E' a quel punto che si arrende: non potendo resistere al desiderio di riabbracciare la piccola, decide di incontrare i parenti in visita vicino alla Questura genovese. Ecco la conversazione telefonica con il fratello:
"Gregorio: Cetta, chi devi chiamare? Perchè devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?
Maria Concetta: Digli di stare tranquilla.
Gregorio: Che sta tranquilla, Cetta, questa qua sta morendo!".
Dopo essere rimasta in loro compagnia per alcune ore, li segue a Rosarno, ma prima invia un messaggio al Servizio centrale di protezione, il cui personale - è il 9 agosto - si reca al suo residence genovese per trasferirla nuovamente (visti i suoi frequenti contatti con i familiari), trovando la porta dell'appartamento socchiusa con le chiavi nella serratura. Nel frattempo, la donna arriva a Rosarno, constatando presto ciò che aveva sempre temuto: contrariamente a quanto assicuratole dai genitori per convincerla a tornare a casa, il loro solo scopo è ed è sempre stato quello di farle ritrattare le dichiarazioni rese ai Pm. Il clima domestico le risulta sempre più ostile, tanto che le vengono requisiti e bruciati tutti i documenti procurati dal Servizio centrale di protezione. La situazione è disperata. Ecco che cosa risponde all'amato Pasquale il 12 agosto, quando le chiede come sia trattata:
"Mia madre bene, ma mio fratello all'inizio mi ha detto di tutto e di più e ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati per farmi ritrattare, dirgli che uso psicofarmaci e che l'ho fatto per rabbia. La loro freddezza verso di me mi fa paura. Vado via se vedo male, ma di buono qui non vedo nulla. Non voglio stare qui".
Prega Pasquale di contattare il Maresciallo Capo del Ros di Reggio Calabria, Salvatore Esposito, per informarlo che i suoi familiari la stanno portando da diversi legali per farle ritrattare le accuse:
"Digli che per colpa della mia leggerezza sono qui. Cosa posso fare?".
Sa, infatti, che di lì a poche ore i genitori l'avrebbero costretta - con una mossa pianificata e studiata nei minimi dettagli e con le assidue violenze psicologiche e minacce di non farle più vedere i figli - a registrare presso uno studio legale un'audiocassetta. Il giorno seguente - 13 agosto - Gaetana (detta Tania) confesserà al padre detenuto in una conversazione telefonica: "Appena l'ho vista, sono scoppiata a piangere". Nella registrazione, Maria Concetta viene infatti obbligata a ritrattare tutto e a ricondurre le sue rivelazioni contro i propri parenti unicamente alla sua rabbia nei loro confronti e a una sua vendetta personale: 
"I magistrati hanno fatto pressione. Io, presa di rabbia, mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perchè ce l'avevo con loro e gliela volevo far pagare. A Bolzano avevo intenzione di tornare indietro, perchè mi stavo rendendo conto di quello che stavo combinando, perchè per rabbia dicevo cose che non c'erano. Sempre sentito dire. Io dicevo cose di cui sentivo parlare le persone, però io mettevo sempre mio padre e mio fratello anche se non c'erano solo per rabbia. Poi, a Bolzano, avevo capito che volevo parlare con un avvocato, perchè mi stavo rendendo conto di quello che stavo combinando, perchè non era giusto quello che stavo combinando per la rabbia, stavo mettendo delle persone che non c'entravano poi alla fine. Gli ho detto che voglio un avvocato, ma loro mi dicevano che non posso avere avvocati perchè la legge non lo permette. Gli facevo capire che volevo tornare indietro e loro mi dicevano <<non tornare, perchè ci sono i tuoi. Renditi conto: la famiglia, il paese non t'accettano per quello che hai fatto, la famiglia non ti perdona. Se prima ti volevano far fuori perchè supponevano una relazione, pensa adesso quello che ti succede>>. In quel momento io sapevo che quello che avevo combinato era troppo grande e avevo paura di tornare veramente indietro, però facevo capire che volevo parlare con un avvocato e che volevo tornare sui miei passi. Quando sono salita in macchina con mio padre, ho capito che mi aveva già perdonato e mi sentivo niente. Però avevo sempre paura non di mio padre, ma di tornare in Calabria. Adesso voglio nominare gli avvocati per tutelarmi. E' da tre giorni che sono a casa mia, tra mio padre, mia madre, i miei fratelli e i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei essere lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno".
Durante l'incisione del nastro, Maria Concetta non è sola, ma è accompagnata dai genitori (al termine della registrazione, si sente una donna che suggerisce alcune parole), i quali rivolgono le loro costanti pressioni anche per persuadere la figlia ad andare a trovare il marito in carcere. In un fitto scambio di sms tra il 13 e il 14 agosto con l'amante Pasquale, si sfoga: 
"Mi sento in gabbia, come posso fare? Come posso uscire da 'sta cosa? Mi vergogno delle cose che ho detto [nella registrazione appena effettuata, N.d.A.]".
Pur rinnovandogli la richiesta di prendere contatto con il maresciallo Esposito per "spiegargli come erano andate le cose" e chiedergli di rientrare nel programma di protezione per testimoni di giustizia, il 17 agosto è lei stessa a chiamare il carabiniere, utilizzando un telefono sconosciuto ai familiari. Vuole continuare a essere difesa, rifugiandosi in una nuova località protetta, ma avendo paura di allontanarsi da sola persino in piena notte, propone di simulare una convocazione in caserma o addirittura un suo arresto. Il 18 agosto pianifica l'ennesima fuga, ma commette un nuovo errore: è convinta di avere dalla sua la complicità o, perlomeno, il favore della madre. Prova a convincerla a prestarle aiuto, ma ottiene sempre e solo la medesima, alterata risposta: "No, Cetta, assolutamente!". Tuttavia, dopo aver ricevuto gli ennesimi, ossessivi tentativi di indirizzare le sue scelte, Maria Concetta trova il coraggio per sbottare:
"Mamma, devi finirla! Madonna mia! Mi stai facendo morire. Me ne vado io, mamma!".
Sono giorni concitati, la giovane testimone di giustizia è dilaniata più che mai nel suo animo. Che fare? Rientrare nel programma di protezione - ma separandosi per sempre dai tre figli per cui è appena tornata a Rosarno - o proseguire a sostenere un'esistenza da reclusa, vittima della sua stessa famiglia? Ulteriore motivo di angoscia è costituito dalla modalità con cui eventualmente scappare:
"Non è facile il modo di uscire di qua, perchè poi mio padre se la prende con mia madre".
Infatti Maria Concetta può uscire di casa solo in compagnia della madre (che ha assunto il ruolo di vigilante), ma, in caso di dipartita notturna, Michele Cacciola non se la sarebbe potuta prendere con la consorte. Lo stesso 18 agosto, però, nell'ultima conversazione telefonica con il maresciallo dei Ros Salvatore Esposito, chiede di rinviare il suo prelevamento, evocando la malattia di una delle figlie, anche se molto probabilmente si tratta di un pretesto al fine di guadagnare tempo prezioso per prendere la sofferta decisione.
Da questo momento, Maria Concetta non comunica più con nessuno.
Il pomeriggio del 20 agosto scende nello scantinato di casa, varca la soglia del bagno e si suicida, ingerendo acido muriatico da un flacone. Muore, senza aver ancora compiuto 31 anni.
Tre giorni dopo, a funerali non ancora celebrati, Michele Cacciola e la moglie si recano spontaneamente alla Procura di Palmi per depositare un esposto-denuncia e consegnare l'audiocassetta (con relativa trascrizione) incisa dalla figlia 8 giorni prima di togliersi la vita, ma spacciata come suo ultimo lascito, in spiegazione del suo gesto fatale. I genitori sostengono di fronte ai magistrati che i Carabinieri di Rosarno - approfittando della debolezza psicologica di Maria Concetta, dovuta a una sua depressione psichica - l'avevano convinta a testimoniare, avendole subdolamente promesso una vita migliore da tutti i punti di vista, anche da quello economico. Ciò - proseguono i coniugi Cacciola di fronte agli inquirenti - aveva fatto sì che la figlia si inventasse tutto, spronata dagli uomini dell'Arma, per ingraziarsi le simpatie dei magistrati. Sarebbe, insomma, stata ingannata con la facile promessa di una vita migliore e più agiata, solo per farle confessare fatti inesistenti e inventati. I genitori hanno pure avuto la faccia tosta di affermare che, una volta ricongiuntasi con loro, Maria Concetta aveva finalmente ritrovato la serenità, frutto delle loro amorevoli attenzioni.
Fortunatamente, i magistrati non si lasciano ingannare e qualificano come totalmente infondata e spudoratamente falsa la versione dei coniugi Cacciola, funzionale all'esclusivo scopo di avvalorare la fantasiosa tesi di una figlia confusa, depressa e inattendibile, sfruttata per di più psicologicamente dalle autorità dello Stato. Anzi, il 9 febbraio scorso vengono arrestati il padre e la madre (mentre il fratello Giuseppe non viene trovato, dunque risulta latitante), su ordine del Gip di Palmi Fulvio Accurso, emesso cinque giorni prima. L'uomo viene portato in carcere, mentre ad Anna Rosalba Lazzaro vengono concessi i domiciliari, con possibilità di comunicare soltanto con i coinquilini e i legali. I reati loro addebitati in concorso morale e materiale sono maltrattamenti in famiglia da cui è derivata la morte e tentata induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria, anche se il Gip - al contrario della Procura - ha riqualificato quest'ultima ipotesi delittuosa in una diversa fattispecie di reato, leggermente più grave: violenza e minaccia per costringere a commettere un reato (il reato contestato dai Pm - tentata induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria - è punito con una pena massima di 4 anni di reclusione, mentre quello mosso dal Gip - violenza e minaccia per costringere a commettere un reato - è punito con una pena massima di 5 anni di reclusione). Secondo il Gip Accurso, infatti, avendo costretto la figlia o la sorella a ritrattare forzatamente le sue precedenti veritiere rivelazioni ai Pm, avevano usato la violenza (fisica e psicologica) e le minacce per indurla a commettere i reati di falsa testimonianza (una volta chiamata a parlare in un aula di Tribunale), favoreggiamento (a vantaggio dei familiari, per la falsa testimonianza estorta) e autocalunnia (accusarsi di aver calunniato il padre e il fratello). Per quanto riguarda, invece, i maltrattamenti tra le mura domestiche causa di morte, il Gip non ha potuto far altro che constatare la lunga serie di maltrattamenti, soprusi, vessazioni, sofferenze e umiliazioni inflitte per ben 8 anni dai congiunti, i quali - ritenendosi disonorati da quella figlia o sorella "ribelle" per aver tradito il marito mafioso in carcere e intrapreso una relazione con un altro uomo - l'avevano malmenata con brutalità, impedito di uscire di casa e pedinata. Il tutto, con la possibilità assai concreta di ucciderla da un momento all'altro. Tali condotte erano state avallate anche dalla madre di Maria Concetta, Anna Rosalba Lazzaro, che non solo non aveva fatto nulla per garantire alla figlia una vita migliore, ma - al contrario - pur consapevole delle percosse arrecate dal marito e dal figlio, si era sempre schierata dalla loro parte, tentando anche di persuadere la figlia a tornare in famiglia e a ritrattare le dichiarazioni esposte agli inquirenti. Per ottenere tale scopo, aveva ripetutamente usato i figli di Maria Concetta, ovvero i suoi nipotini: da un lato per informare la figlia che se avesse voluto rivederli sarebbe dovuta tornare a Rosarno, dall'altro per abbattere una volta per tutte le resistenze di Maria Concetta, raggiungendola a Genova in compagnia di uno di loro. Infine, si era rifiutata di aiutarla a scappare.
Tale clima di sopraffazioni è stato costante e persistente negli anni, così da aver portato la testimone di giustizia al suicidio, causato esclusivamente e direttamente dallo stato di profonda prostrazione e disperazione determinato dal comportamento dei genitori e del fratello Giuseppe. Con il gesto estremo di togliersi la vita, si era sottratta alle costanti sofferenze fisiche e psichiche.
L'arresto dei tre individui è motivato non solo dal pericolo di inquinamento probatorio (se liberi, potrebbero verosimilmente convincere i testimoni a ritrattare, tra i quali Pasquale Improta, che rischierebbe anche pericolose ritorsioni), ma anche dal pericolo che essi (soprattutto Michele e Giuseppe Cacciola) possano reiterare i loro delitti nei confronti dei figli di Maria Concetta (orfani di mamma e con il padre in carcere), tutti minorenni, la cui incolumità fisica e psicologica non può non essere tutelata al meglio. Restando a contatto con i nonni e lo zio, infatti, rischierebbero di subire le stesse costrizioni e violenze patite per anni dalla madre.
Il Gip si sofferma anche a spiegare che cosa significhi vivere in una famiglia di 'ndrangheta: tra le mura domestiche vengono praticate "le regole ferree dell'appartenenza proprie di una famiglia contigua alla 'ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell'esistenza, in ossequio al quale nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso - a chi non lo condivide - di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita. Maria Concetta Cacciola ha pagato con la vita il doloroso prezzo che le ha inflitto il destino, che è stato quello di farla nascere in una famiglia che ha praticato il culto dell'Onore e che non l'ha mai protetta. Una donna che decideva di riferire agli uomini dello Stato quanto aveva appreso tra le mura della sua prigione domestica, nell'illusione di ricevere in cambio l'opportunità di poter prendere finalmente in mano le redini della sua vita, incoraggiata probabilmente in questa sua scelta così coraggiosa da quella analoga che poco tempo prima aveva intrapreso una sua cugina, Giuseppina Pesce, vissuta anch'ella in un ambiente familiare omologo al suo. La cronaca degli ultimi giorni di vita della povera Maria Concetta ci spiega quanto peso abbia avuto il suo rimorso di madre nella sua scelta di ritornare a casa, tanto che sarà proprio quel tarlo interiore a indurla ad abbandonare per sempre quel progetto di riscatto che pensava di avere intrapreso quasi d'istinto, per ragioni di sopravvivenza, ma che non le aveva consentito di calcolare quanto una madre possa essere intimamente e indissolubilmente legata alle persone che ha generato, le cui lacrime e le cui grida di dolore le venivano peraltro fatte ascoltare al telefono dai suoi familiari per farla tornare in Calabria". Insomma, Maria Concetta ha avuto la sfortuna di nascere, crescere e vivere in "un sistema valoriale che antepone la tutela dell'onore familiare mafioso al rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, quali la libertà, l'autodeterminazione e la possibilità di operare liberamente le proprie scelte di vita. Cultura che porta ad anteporre l'interesse a evitare conseguenze giudiziarie per i membri della famiglia a quello di salvaguardare la stessa vita di uno di tali membri, che aveva osato ribellarsi alle regole della famiglia, alle continue vessazioni e aveva cercato la libertà, fisica e morale. Maria Concetta aveva cercato la libertà, ma non vi era riuscita fino in fondo per l'amore verso i propri figli, che avrebbe voluto far vivere in un contesto diverso da quello in cui essa stessa era stata costretta a vivere". Purtroppo, confessa il giudice Accurso, la triste vicenda qui raccontata è solo "la punta dell'iceberg di una fenomenologia sociale assai diffusa da diversi lustri in strati della popolazione calabrese non di trascurabile importanza. E' il ripetersi di altre storie, specie di donne, drammaticamente conclusesi in modo analogo, ma è la riprova che molte persone come Maria Concetta ancora oggi vivono all'interno di famiglie che non consentono il minimo spazio alle aspirazioni di vita diversa e libera, che non tollerano ribellioni, essendo piuttosto da preferirsi la soppressione fisica o l'annientamento del soggetto ribelle alla messa in discussione dei valori mafiosi e del falso, vacuo e fuorviante concetto dell'onore che, solo, può consentirne la perpetuazione".

Per concludere il racconto della storia di Maria Concetta Cacciola, mi sembra doveroso lasciare a lei l'ultima parola. Quello che segue è il contenuto della lettera - scritta a mano su un quaderno - che, con la morte nel cuore, ha indirizzato alla madre nel maggio 2011, prima di lasciare per la prima volta la casa dei genitori per affidare la propria esistenza alle forze dello Stato:
"Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto. Tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia. So il dolore che ti sto provocando, ma spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione. Non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona a cui volevo più bene. Eri tu e per questo ti affido i miei figli: dove non ce l’ho fatta io, so che puoi. Ma di un’unica cosa ti supplico, non fare il mio errore. A loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me… dagli i suoi spazi… se la chiudi è facile sbagliare, perchè si sentono prigionieri di tutto. Dagli quello che non hai dato a me. Ora non ce la faccio più a continuare, voglio solo dirti di perdonarmi, mamma, per la vergogna che ti provoco, ma pian piano mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutto e tutti. Non volevo il lusso, non volevo i soldi, ma la serenità, l'amore che si prova quando fai un sacrificio, avere soddisfazioni, ma a me la vita non ha dato nulla, ma solo dolore, e la cosa più bella sono i miei figli che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti per non farlo capire ai miei figli. Datti forza per loro, non darli a loro padre, non è degno di loro. Stai vicino ad Alfonso perchè in fondo è stato sfortunato, ne ha subite da piccolo, è per questo che ha il carattere in quel modo. So che le femminucce so che ti sentono e per questo sto tranquilla, ma bada di più a lui, è più debole. Io vivrò finchè Dio mi lascia vivere, ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa. Mamma, perdonami, ti prego. Ti chiedo perdono per tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco più a parlare. So solo io quello e come lo sto scrivendo, ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto. So che non ti abbraccerò, nè ti vedrò, ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene, mamma. Abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me. Non lasciarli a loro, non sono degni. Mamma, addio e perdonami, se puoi. So che non ti vedrò mai perchè questa sarà la volontà dell'Onore della famiglia, per cui avete perso una figlia. Addio. Ti vorrò sempre bene. Perdonami, ti chiedo perdono. Addio".

Aggiornamento del 25 aprile 2012
Dopo 2 mesi e mezzo di latitanza il fratello di Maria Concetta Cacciola, Giuseppe, è stato arrestato dai carabinieri a Paderno Dugnano (Milano) mentre usciva da un centro commerciale. La misura cautelare stabilita per lui dal Gip di Palmi Fulvio Accurso con l'ordinanza del 4 febbraio scorso è la custodia in carcere.

1 commento:

  1. Storia molto triste come penso ce ne siano purtroppo tante al sud

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