mercoledì 22 febbraio 2012

SE IL CARCERATO SI SUICIDA, LA GUARDIA DIVENTA ASSASSINA

Un'agente di polizia penitenziaria addetta alla sorveglianza dei detenuti presso il carcere romano di Rebibbia (Cosmina R.) è stata processata e condannata in 1° grado (Tribunale di Roma - giudice monocratico, sentenza dell'11 dicembre 2008), in 2° grado (Corte d'Appello di Roma, sentenza del 9 marzo 2011) e in 3° grado (Cassazione - sezione IV penale, sentenza 20 febbraio 2012, n. 6744) per omicidio colposo. 
Il 26 novembre 2004 (la poliziotta aveva 41 anni) l'unica detenuta sottoposta a regime di sorveglianza a vista, Marina Kniazeva, si era potuta suicidare - impiccandosi alla sponda del letto – perché l'imputata agente di custodia non l’aveva vigilata. La sua responsabilità colposa – per omissione di diligenza – deriva dal non aver impedito alla reclusa di impiccarsi e di non essere giunta in tempo per evitarne la morte, nonostante fosse stata dettagliatamente informata sulla situazione di Marina. Cosmina R. aveva infatti il compito e il dovere di controllarla, ma era venuta meno a tale incarico, dal momento che - pur recandosi continuamente verso la cella - non si era mai seduta dinnanzi a essa, omettendo così di svolgere il servizio di piantonamento secondo le istruzioni ricevute. Non solo, ma essendosi allontanata in alcune occasioni dalla cella, non aveva svolto in modo continuativo il servizio di sorveglianza a vista, disposto proprio perchè erano certamente prevedibili iniziative pericolose e autolesionistiche da parte della carcerata. Comportamento ancor più grave, visto che a Rebibbia non è mai esistita alcuna “cella liscia”, ovvero una cella arredata in modo tale da contrastare l’autolesionismo. 
In conclusione, pertanto, l’omissione della poliziotta aveva precluso il tempestivo avvistamento del suicidio e il conseguente intervento per scongiurare il decesso di Marina, la quale, per di più, non poteva certo arrecare alla sua guardia alcuna offesa o aggressione, visto che era sempre dietro le sbarre.

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